Tra le presentazioni di libri più interessanti dell’ultimo Bookpride di Milano c’è senza dubbio quella di L’intelligenza inesistente. Un approccio conviviale all’intelligenza artificiale, scritto nel 2023 da Stefano Borroni Barale ed edito da Altreconomia. L’autore insegna informatica in un Itis in provincia di Torino ed aveva già scritto nel 2003 per Altreconomia il libro Come passare al software libero e vivere felici, una delle prime guide italiane su Linux e altri programmi basati su software libero.
L’intelligenza inesistente traccia un quadro del dibattito che ruoto attorno all’intelligenza artificiale che affonda le radici addirittura negli anni Trenta del Novecento, quando il crittografo britannico Alan Turing inizia ad elaborare la macchina intelligente, un prototipo in grado di eseguire algoritmi e dotato di un nastro potenzialmente infinito su cui può leggere e/o scrivere dei simboli. Gli esperimenti di Turing culminano con il famoso test di Turing, un criterio per determinare se una macchina sia in grado di esibire un comportamento intelligente che il crittografo suggerisce nell’articolo Computing machinery and intelligence, apparso nel 1950 sulla rivista Mind.
È qui che il concetto di intelligenza artificiale fa la sua comparsa prima nel dibattito scientifico, poi in una sfera sempre più allargata, andando ad alimentare l’annosa disputa tra tecno-entusiasti e tecno-scettici. Secondo Borroni Barale, già nella sua formulazione è consapevole di aggirare il problema, perché «prova a concentrarsi su come il comportamento della macchina sappia gabbare “the everage interrogator” (l’uomo della strada), perché chi l’ha costruita sa già come interrogarla e quindi conosce i suoi limiti».
L’intelligenza inesistente non si limita però solo a ricostruire le tante discussioni attorno all’intelligenza artificiale, dal test di Turing fino a Chat Gpt. Borroni Barale insiste principalmente su due concetti. Il primo è quello del divorzio tra segno e significato che produce questa innovazione: «c’è la costruzione meccanica del linguaggio umano, ma manca la capacità di mettere assieme i vari pezzi».
Il secondo sono i costi ambientali e umani dell’IA, a proposito dei quale l’autore introduce il concetto “turco meccanico”, truffa inventata dal Barone Wolfgang von Kempelen che nel 1769 si “inventa” un automa in grado di giocare a scacchi. Più avanti si scopre che dentro alla macchina c’era solo lo spazio per nascondere un essere umano e il turco meccanico diventa la metafora del lavoro umano che si nasconde dietro alla tecnologia, e che oggi calza a pennello per descrivere una delle principali contraddizioni dell’intelligenza artificiale. Un esempio concreto riguarda Chat GPT, che lo scorso anno ha pagato 200 dollari al mese una serie di operatori a Nairobi, in Kenia, e li ha sottoposti a tutti i contenuti “impresentabili” (razzisti, sessisti, etc) delle versioni precedenti al fine di ottimizzare i risultati.
«Questa tecnologia per funzionare non può fare a meno del lavoro sottopagato. Le imprese rispondono “è un problema temporaneo” perché la tendenza – dicono loro – è che le macchine si testino da sole. La realtà è ben altra perché i dati ci dicono che la tendenza dal 2006 al 2024 è esattamente opposta. L’intelligenza apparente di questi modelli è direttamente proporzionale a quella umana che ci sta dietro. Non esistono controesempi di macchine che producano da sole intelligenza».
Sui costi ambientali la questione è più complicata soprattutto perché non sappiamo come siano ottimizzati questi modelli. «Ci sono stime che dicono che per tenere in piedi la baracca si spendano 700 mila dollari al giorno, quindi bisogna spostare valore sia dal lavoro che dalle risorse naturali. Se ci si concentra solo sulla macchina si perde di vista una visione complessiva della società, in cui è fondamentale il rapporto macchina-natura-essere umano».
La seconda parte del libro è propositiva, e approccia il concetto di tecnologia conviviale, ossia di come le tecniche non siano in mano solo a una élite (cosa che sta indebolendo la democrazia) ma possano avere una diffusione collettiva. Per Borroni Barale bisogna partite dalla scuola, dove è ancora possibile una dialettica tra cambiamento della società e cambiamento degli strumenti (lo strumento cambia noi che a nostra volta cambiamo lo strumento). «Non dobbiamo intendere la tecnologia come fine della storia, ma come un continuo processo di cambiamento. Bisogna stare dentro questa contraddizione, senza preconcetti ideologici».