di Luca Cangianti
Cinquant’anni fa, poco dopo la mezzanotte Rádio Renascença trasmette una canzone: Grândola Vila Morena di José Alfonso. È il segnale a lungo atteso. Il Movimento delle forze armate, costituito da militari progressisti, abbatte una dittatura fascista durata 48 anni e chiede alla popolazione di rimanere a casa. La gente però fa di testa propria e così un colpo di stato che doveva metter fine a una guerra coloniale dispendiosa e priva di speranze di vittoria, si trasforma in una rivoluzione travolgente. Nelle fabbriche si creano le commissioni dei lavoratori che epurano gli elementi fascisti ed esercitano il controllo sulla produzione. Nei quartieri nascono le commissioni degli abitanti che gestiscono occupazioni, asili nido e centri polifunzionali in cui vengono erogati mutualisticamente servizi di ogni tipo. Infine sorgono le commissioni dei soldati con cariche elettive e revocabili, come in tutti gli altri casi. Si tratta di una trama sociale di organismi autonomi dai partiti e dal sindacato unico neocorporativo che ricordano i soviet russi del 1905 e del 1917, i consigli italiani del 1919-20 e quelli cileni del 1972-73. È un potere parallelo che pratica la democrazia di base e compete con quello dello stato per diciannove mesi, cioè fino al colpo di stato del 25 novembre 1975 in seguito al quale la situazione politica è ricondotta entro i binari della democrazia parlamentare. Giulia Strippoli – ricercatrice di Storia contemporanea all’Universidade Nova di Lisbona – ha dedicato alla rivoluzione portoghese due saggi contenuti in un volume scritto insieme a Sandro Moiso, Riti di passaggio. Cronache di una rivoluzione rimossa. Portogallo e immaginario politico (Mimesis 2024).
Cosa sanno oggi i portoghesi della rivoluzione del 1974-75?
Farei una distinzione tra il colpo di stato del 25 aprile 1974 che abbatte la dittatura e il periodo di mobilitazione rivoluzionaria più intensa chiamato Prec (Processo revolucionário em curso) che va fino al colpo di stato liberal-democratico del 25 novembre del 1975, passando per sei governi provvisori e due tentativi di golpe reazionari, quello del 28 settembre 1974 e quello dell’11 marzo 1975.
La data del 25 aprile è consensuale: è una celebrazione trasversale, a differenza di quanto avviene in Italia per il giorno della Liberazione. Il consenso si deve in gran parte al fatto che il centro-destra non ha voluto rimanere escluso da una data così fondamentale. È consensuale come festa perché per alcuni – per le componenti di sinistra – fu la fine del fascismo e l’inizio della rivoluzione, per altri fu l’inizio della democrazia in Portogallo, associata all’idea di modernizzazione del paese. Il Prec, invece, è conflittuale perché nella sua analisi storica confliggono diverse interpretazioni: quelle che intravedevano la possibilità di un passaggio rivoluzionario ad un nuovo modo di produzione; quelle che affidavano alla rivoluzione il mero compito di far transitare il Portogallo dalla dittatura dell’Estado Novo alla democrazia parlamentare; quelle che vedono nei mesi rivoluzionari solo disordine e caos. Per questi motivi l’opinione pubblica portoghese è abbastanza informata sul 25 aprile e molto meno sul Prec.
Ci sono movimenti politici che si ispirano al Prec?
I due partiti che lo rivendicano sono Partito comunista portoghese – anche se ha contribuito alla sua sconfitta, avallando il colpo di stato del 25 novembre 1975 – e il Bloco de Esquerda, che si formò nel 1999 dalla convergenza di alcune organizzazioni di estrema sinistra di provenienza principalmente maoista e trotskista. Nell’uso pubblico della storia il Bloco si rifà spesso al Prec per evidenziare lo svuotamento neoliberista delle conquiste rivoluzionarie in materia di diritto alla salute, alla casa e al lavoro.
Perché ti sei occupata di questi temi?
Ho iniziato a studiare la storia del fascismo e della resistenza in Portogallo, di cui i manuali non parlavano, grazie a un corso seminariale di storia delle sinistre europee con Aldo Agosti, in cui commentavamo i capitoli del libro di Donald Sassoon Cento anni di socialismo. Il capitolo sulla fine dei regimi in Portogallo, Spagna e Grecia suscitò in particolare la mia attenzione. Poi mi dedicai al Sessantotto italiano e alla formazione della sinistra rivoluzionaria: durante il dottorato lessi le varie annate del quotidiano “Lotta continua” e venni a sapere da Enrico Artifoni, professore di Storia medievale, che qualche decennio prima, come tanti giovani militanti, era stato affascinato dalla rivoluzione portoghese, che centinaia di italiani erano andati in Portogallo per partecipare alla rivoluzione.
E così ti sei messa a studiare anche la parte più soggettiva di questa esperienza rivoluzionaria, cioè le memorie degli italiani che, per citare una frase di Sandro Moiso, andarono in Portogallo «per veder sorgere un mondo nuovo».
Ti racconto un aneddoto. Quando nel 2018 venne qui a Lisbona Franco Lorenzoni – uno di quei militanti italiani – andammo alla prima di uno spettacolo teatrale che poi è stato ripreso anche nel film documentario Rua do Prior 41 di Lorenzo d’Amico de Carvalho. In quella circostanza che stimolava i ricordi, mi venne l’idea di farlo parlare al telefono con una persona che aveva conosciuto più di quarant’anni prima condividendo l’esperienza straordinaria della rivoluzione. Si trattava di Lionello Massobrio, il regista di La vittoria è certa, un film incredibile sulla lotta per l’indipendenza dell’Angola. Insomma, Lionello risponde al telefono e Franco fa: «Ciao Lionello, sono Franchino, ti ricordi?» Io mi commossi perché lui per me era Franco Lorenzoni, un uomo di più di sessant’anni, un ex militante rivoluzionario di Lotta continua, un maestro elementare. Quel diminutivo mi ha fatto rivedere il ventenne ancora presente all’interno dell’uomo maturo. È come se l’entusiasmo e lo stupore di aver assistito a quegli eventi non fossero stati scalfiti dal tempo.
Quali caratteristiche hai riscontrato nel leggere e nell’ascoltare questi racconti?
Mi ha sorpreso costatare che, a differenza di molti altri esempi storici, queste memorie non sono state amareggiate dalla sconfitta e dai difficili anni successivi. Inoltre non mi è capitato mai di assistere ad atteggiamenti reducistici e autocelebrativi. Quei giovani di cinquant’anni fa non si sono trincerati nella retorica dell’ultima possibilità. Le memorie sono tutte soggettive, ma sono anche generalizzabili. Io ci vedo uno spaccato generazionale.
Cosa può ancora insegnare la rivoluzione portoghese a chi è attivo nelle lotte sociali?
Ci insegna che la storia non è lineare e la spontaneità delle masse rende possibili le cose più incredibili: i militari dicono alla popolazione «restate a casa, ci pensiamo noi» e invece la gente scende in piazza e rivoluziona tutto: fabbriche, banche, scuole, università, teatri, compagnie aeree, acqua, elettricità. Questa sensazione che con la rivoluzione tutto diventa possibile è fortissima nella memoria degli italiani che parteciparono agli eventi del 1974-75. Posso raccontarti un altro aneddoto?
Certo.
Lo riprendo da un memoriale di Lionello Massobrio che meriterebbe di essere pubblicato. Qualche giorno prima della proclamazione dell’indipendenza dell’Angola, confessa a un militare rivoluzionario che gli sarebbe piaciuto andare in quel paese dove infuriava la guerra civile e da cui tutti i portoghesi scappavano. Il militare positivamente sorpreso da questa manifestazione di coraggio (o d’incoscienza) gli dà un biglietto scarabocchiato e gli dice di consegnarlo in una caserma dell’aviazione militare sulla collina. Lì sarebbe arrivato un Boeing che avrebbe portato lui e il suo cameraman in Africa. Lionello rimane molto perplesso e insospettito dalla semplicità con la quale il suo desiderio sembrava realizzarsi. Era sicuro di finire in qualche guaio, forse in prigione.
E invece?
Invece l’aereo arriva, scarica i militari in fuga dall’Angola e imbarca i due cineoperatori che viaggiano da soli nella pancia del velivolo fino a destinazione, senza controllo di bagagli, né di passaporti.
Mi sembra un’ottima metafora di come i processi rivoluzionari rendono possibili cose impensabili.
Già, e pensa che a destinazione ritrovarono persino un loro amico del Mir cileno che gli organizza una festa di benvenuto.