sul caso Norma Cossetto sono qui.
di Nicoletta Bourbaki *
INDICE
1. Decenni di “ricostruzioni” a partire da una data sbagliata
2. Insurrezione
3. Giuseppe Cossetto e la colonizzazione «agricolo-militare» dell’Istria
4. Il razzismo antislavo che Sessi occulta
5. «Ripulire» l’Istria
6. Perché non vada come a Kanfanar
7. Il Terzo Reich inventa la propaganda sulle foibe
8. Il salto della decima quaglia
9. I padri della patria che celebra i «martiri delle foibe»
1. Decenni di “ricostruzioni” a partire da una data sbagliata
Alla fine della quarta puntata di quest’inchiesta abbiamo osservato che nei documenti presentati dalla famiglia Cossetto all’Università di Padova la data dell’arresto di Norma Cossetto risulta essere il 2 ottobre. Vediamo innanzitutto di descrivere che tipo di documenti sono e che cosa c’è scritto esattamente.
1. Foglio notizie.
Si tratta di un modulo prestampato, compilato a mano e firmato da Licia Cossetto, inviato all’Università di Padova il 29 aprile 1948. Sul modulo leggiamo (in grassetto le parti manoscritte):
«Nome del caduto: Cossetto Norma
[…] Attività politica e militare svolta in ogni campo dal giorno 8 settembre 1943 al giorno della morte: / Eventuali impieghi esercitati nello stesso periodo: Insegnante di lettere presso l’Istituto Magistrale Superiore “Regina Margherita di Parenzo”
Brigata Partigiana cui appartenne – Nome di Battaglia – Gradi raggiunti – Fatti d’arme ai quali prese parte: / Causa della morte: Rappresaglia
Specificare le circostanze di fatto: Prelevata da casa il giorno 2-10-43 da bande irregolari titine e trucidata nella notte tra il 4 e il 5-10-43
Luogo e data della morte: Foiba di Villa Surani del Comune di Antignana, provincia di Pola la notte del 4-5-10-43.»
2. Atto di notorietà rilasciato dal comune di Novara il 22 aprile 1948, su istanza di Margherita Miccattovi Pacchialat, madre di Norma Cossetto.
Tre testimoni, davanti al delegato del sindaco, dichiarano essere notorio e di loro personale conoscenza che:
«la figlia della richiedente COSSETTO Norma di Giuseppe, di anni ventitre, laureanda in Lettere presso l’Università di Padova, insegnante Lettere presso l’Istituto Magistrale Superiore Regina Margherita di Parenzo, venne prelevata coattivamente da bande irregolari jugoslave il 2/10/1943 nella propria abitazione di S. Domenica di Parenzo e trucidata nella notte dal 4 al 5/10/1943. Il suo cadavere venne rinvenuto il 10/12/1943 nella foiba di Villa Suragni (sic) del Comune di Antignana (Pola) e venne tumulato nella tomba di famiglia a S. Domenica di Parenzo (Pola) il 13/12/1943.»
3. Atto di notorietà rilasciato dalla pretura di Trieste il 5 agosto 1948, di nuovo su istanza di Margherita Miccattovi Pacchialat.
Quattro testimoni dichiarano sotto giuramento davanti al pretore di poter attestare per la verità:
«che la signorina Cossetto Norma fu Giuseppe di Miccattovi Pacchialat Margherita nata il 16 maggio 1920 a S. Domenica di Visinada, è stata prelevata a S. Domenica di Visinada dalla propria casa di abitazione dai partigiani jugoslavi il giorno 2 ottobre 1943 e buttata in Foiba Surani, sita nel comune di Antignana il 4 ottobre 1943. Dalla predetta foiba venne estratta il 10.12.1943 – La medesima frequentava l’ultimo anno di lettere e filosofia a Padova.»
I tre testimoni che hanno sottoscritto l’atto di notorietà rilasciato a Novara erano tutti novaresi e non avevano conoscenza diretta dei fatti. I quattro testimoni che hanno sottoscritto sotto giuramento l’atto di notorietà rilasciato a Trieste erano tutti residenti nella zona di Visinada nell’autunno del 1943, e alcuni di loro avevano parenti o congiunti recuperati dalla stessa foiba di Villa Surani.
L’arresto il 2 ottobre è confermato dal necrologio di Giuseppe Cossetto, padre di Norma, pubblicato su «il Piccolo» il 23 novembre 1943:
«Il 6 ottobre, vittima della barbarie slavo-comunista, in Castellier di Visinada, cadeva per i più santi ed alti ideali di Patria e Famiglia Giuseppe Cossetto d’anni 55, Capomanipolo della M.V.S.N., Squadrista, Sciarpa Littorio. Straziati dal dolore ne danno il triste annuncio la moglie ITA, le figlie prof. NORMA (sequestrata il giorno 2 ottobre e della quale si ignora la sorte), LICIA, i fratelli GIOVANNI, EMANUELE, la sorella CATERINA, le cognate ed il cognato ed i nipoti tutti.»
Sulla base di questi documenti riteniamo corretto assumere d’ora in avanti che la data di arresto di Norma Cossetto sia il 2 ottobre.
Quando Frediano Sessi ha consultato la documentazione dell’Università di Padova e ha letto sugli atti notori la data del 2 ottobre, si è chiesto come mai le ricostruzioni successive si riferiscano sempre al 26 settembre, ma senza darsi alcuna risposta. Comprensibile: lo spostamento in avanti di sei giorni avrebbe fatto saltare in aria buona parte dell’impianto del suo libro Foibe rosse.
La cronologia proposta da Sessi sulla base di stratificazioni pluridecennali è infatti la seguente:
■ il 26 settembre Norma Cossetto viene arrestata una prima volta e subito rilasciata;
■ il 27 settembre è arrestata di nuovo e condotta prima a Visignano/Višnjan e successivamente a Parenzo/Poreč, dove viene violentata;
■ la sera del 30 settembre riceve la visita di sua sorella Licia;
■ nella notte tra il 30 settembre e il 1° ottobre viene portata ad Antignana/Tinjan, prima nell’ ex-caserma dei carabinieri e poi nella scuola, dove viene violentata ininterrottamente per quattro giorni, fino all’alba del 5 ottobre, quando viene gettata nella foiba.
[Abbiamo tralasciato i dettagli truculenti accumulatisi nei decenni, che lo storico Roberto Spazzali ha definito «incontrollate fantasie» e a cui Sessi dedica numerose pagine, aggiungendoci anche del suo.]
La data del 26 settembre compare per la prima volta nella testimonianza di Emanuele Cossetto, zio di Norma, raccolta da Maria Pasquinelli, un’agente dell’intelligence della X Mas, che nella primavera del ’45 preparò un dossier sui fatti dell’autunno ’43 in Istria. Cossetto afferma di essere stato arrestato dai partigiani il 24 settembre, incarcerato a Pisino/Pazin fino al 4 ottobre e successivamente trattenuto dai tedeschi fino all’8 ottobre prima di essere rilasciato. Le sue informazioni quindi non sono di prima mano.
Da questa testimonianza la data del 26 settembre passa a vari “foibologi”: a Luigi Papo, a Flaminio Rocchi, ad Antonio Pitamitz, a Guido Rumici e infine a Frediano Sessi, “rinforzata” da un’infinità di dichiarazioni di Licia Cossetto a partire dagli anni Ottanta. La discrepanza tra la data indicata da Emanuele Cossetto nella sua testimonianza (26 settembre) e quella che compare nel necrologio di Giuseppe Cossetto (2 ottobre), che è firmato tra gli altri dallo stesso Emanuele, dimostra che le carte di Maria Pasquinelli – ora pubblicate in Tutto ciò che vidi: parla Maria Pasquinelli, a cura di Rossana Turcinovich e Rossana Paoletti, Oltre, Sestri Levante 2020 – vanno maneggiate con grande cautela.
Norma Cossetto fa parte di un gruppo di 26 persone che vengono uccise e gettate nella foiba di Surani/Šurani in un momento imprecisato del 4 ottobre, o della notte tra il 4 e il 5 ottobre. Queste persone sono state arrestate in date diverse a Parenzo e nel suo entroterra, e incarcerate nell’ex-caserma dei carabinieri di Parenzo. La notizia del recupero dei 26 corpi compare sul Piccolo del 16 dicembre 1943.
Cerchiamo ora di capire quando questo gruppo sia stato trasportato da Parenzo ad Antignana. Nell’articolo si legge:
«Sono stati estratti dalla voragine i resti di 26 italiani (non 28 come si presumeva) ch’erano stati massacrati la notte del 4 ottobre; essi erano stati portati ad Antignana da Parenzo, e dopo una breve sosta nella caserma di quel paese, condotti sul luogo del massacro.»
Da questa ricostruzione pare di capire che il gruppo potrebbe essere arrivato ad Antignana il 4 ottobre, e che i 26 prigionieri sarebbero stati detenuti per qualche ora nella caserma di Antignana prima di essere condotti a Surani.
Per trovare conferme a questa ricostruzione non dobbiamo consultare le numerose biografie di Norma Cossetto, ma piuttosto indagare sugli altri del gruppo. La conferma ci arriva dal caso del carabiniere Torquato Petracchi. Per lui abbiamo a disposizione un documento archiviato presso l’Ufficio storico dell’arma dei carabinieri, citato nel volume di Gerardo Severino e Federico Sancimino, Antonio Farinatti: l’eroe di Parenzo, La Carmelina, Ferrara 2019, p. 52, nt. 60. Si tratta della «Proposta di conferimento di ricompensa al Valor Militare alla memoria del Maresciallo Maggiore PETRACCHI Torquato», redatta il 27 aprile 1948 dal maggiore Mariano de Luise, che nel 1943 era il comandante dei carabinieri di Pola. Dalla relazione veniamo a sapere che Petracchi
«la stessa sera del 3 ottobre, verso le 20,15 venne prelevato da alcuni partigiani che lo condussero prima nella ex caserma dell’Arma e poi, dopo averlo brutalmente percosso, a notte, insieme con altri 25 detenuti di Parenzo e paesi vicini, lo trasportarono su un autocarro ad Antignana.»
In pratica tutto il canone della cossettologia è costruito a partire da una cronologia che non trova conferma nelle fonti, anzi, ne è smentita.
Ci pare dunque ragionevole proporre la seguente cronologia:
■ Norma Cossetto viene arrestata a casa sua a Santa Domenica/Labinci il 2 ottobre e successivamente trasportata e incarcerata a Parenzo;
■ nella notte tra il 3 e il 4 ottobre viene trasportata ad Antignana con altri 25 prigionieri.
■ Ad Antignana i prigionieri sono detenuti per alcune ore nella caserma del paese.
■ La sera del 4 vengono condotti a Surani dove vengono uccisi nella notte tra il 4 e il 5 ottobre.
Per capire qualcosa di questa vicenda e del modo in cui è stata raccontata, per capire perché molti membri della famiglia Cossetto vengano arrestati dai partigiani e perché sia significativa una differenza di sei giorni nelle date dell’arresto di Norma Cossetto, è necessario ricostruire cosa sta succedendo in Istria in quei giorni d’autunno del 1943 e come ci si è arrivati, quali sono gli eventi del 26 settembre, quelli del 2 ottobre e quelli del 4 ottobre.
Ripartiamo, dunque, dagli elementi raccolti nella seconda puntata di questa pentalogia dedicata a Norma Cossetto, ampliandoli e integrandoli con gli elementi nuovi acquisiti nel frattempo.
2. Insurrezione
Quando l’Italia dopo la prima guerra mondiale incorpora la cosiddetta Venezia Giulia**, scopre con un certo stupore che tra i circa 900mila abitanti delle nuove province gli italofoni sono meno della metà. La maggioranza dei nuovi sudditi parla sloveno o croato, e una piccola minoranza parla tedesco. Come se non bastasse, l’Italia scopre che la classe operaia delle città “giuliane” è matura e ben organizzata, ed è refrattaria alle parole d’ordine nazionaliste.
Le politiche persecutorie verso le minoranze linguistiche e la repressione contro il movimento operaio cominciano già prima dell’avvento del fascismo. In continuità con la politica liberalnazionale, il fascismo di confine è particolarmente violento e razzista e per un ventennio opera con tutti i possibili mezzi legislativi, economici e militari per disarticolare le comunità slovena e croata, chiudendo le scuole, vietando la pubblicazione di libri e giornali, confiscando terreni, sopprimendo istituzioni bancarie, mandando al confino centinaia di «elementi allogeni», istituendo processi farsa e condannando a morte attivisti politici.
Non è quindi sorprendente che in Italia la prima resistenza armata al fascismo nasca tra gli sloveni e i croati, già negli anni Venti.
Nell’aprile del 1941 l’Italia, insieme alla Germania, invade e occupa la Jugoslavia, annettendosi Lubiana e la Dalmazia. La “Venezia Giulia” diventa così retrovia dell’esercito invasore, e la resistenza jugoslava trova immediato supporto dietro le linee nemiche tra gli sloveni e i croati che già da prima vivevano all’interno dei confini italiani.
Dal 1941 la “Venezia Giulia” è zona di guerriglia e di sabotaggi, con il prevedibile corollario di rappresaglie, stragi e deportazioni da parte del regio esercito. Anche il Partito comunista d’Italia comincia già alla fine del 1942 a organizzare i primi gruppi armati a supporto delle formazioni partigiane slovene e croate a guida comunista. Quanto accade nella regione subito dopo l’8 settembre 1943 segue dinamiche solo in parte riconducibili a ciò che accade nel resto d’Italia.
Nel momento in cui il maresciallo Badoglio rende pubblico l’armistizio firmato con gli Alleati a Cassibile, i piani tedeschi per l’invasione dell’Italia sono pronti da mesi. Nome in codice: Achse. Il comando delle operazioni è affidato per l’Italia del nord al feldmaresciallo Erwin Rommel (Heeresgruppe B), mentre per l’Italia del sud al feldmaresciallo Albert Kesselring (Heeresgruppe C).
L’esercito italiano si disgrega in poche ore. Le principali città del nord cadono in mano tedesca senza che i soldati italiani sparino un colpo. Anche Roma viene presa con poco sforzo. Solo a Napoli un’insurrezione popolare riesce a tenere testa ai tedeschi per quattro giornate, fino all’arrivo degli Alleati. Nella “Venezia Giulia” il comportamento degli alti gradi dell’esercito non è diverso. A Trieste il generale Ferrero abbandona la città e la sua guarnigione nelle mani della Wehrmacht. La stessa cosa succede a Pola/Pula e a Fiume/Rijeka, dove l’ammiraglio Strazzeri e il generale Gambara di fatto consegnano i loro soldati ai tedeschi, che li caricano sui treni merci per deportarli in Germania. Il generale Gambara, come premio per la sua performance, verrà nominato capo di stato maggiore dell’esercito fascista repubblicano. A Gorizia la divisione Torino resiste per un paio di giorni prima di arrendersi.
Il 10 settembre le autorità tedesche istituiscono la Zona d’operazioni del litorale adriatico (Ozak), che comprende il Friuli, la “Venezia Giulia” e la ex provincia di Lubiana, ed è sottoposta all’amministrazione militare e civile diretta del Terzo Reich.
Ciò che rende diversa la situazione della “Venezia Giulia” rispetto al resto del paese è che nel momento del crollo totale dello stato italiano e del suo esercito irrompono sulla scena i partigiani sloveni e croati, a cui si aggregano subito moltissimi antifascisti italiani. A Monfalcone gli operai dei cantieri navali abbandonano in massa la fabbrica e si aprono la strada a mani nude verso Gorizia, dove costituiscono la Brigata Proletaria, prima unità combattente della resistenza italiana. Per due settimane combattono insieme ai partigiani della Compagnia Triestina d’assalto, unità italo-slovena dell’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia (EPLJ) attiva fin dal 1942. Ripiegheranno poi verso le montagne della Slovenia, entrando a loro volta nell’EPLJ.
Più a sud, nelle zone in cui si svolge la vicenda della famiglia Cossetto, la situazione è ancora più intricata ed esplosiva: nei giorni immediatamente successivi all’8 settembre l’intera Istria insorge in un moto in gran parte spontaneo. Mentre le città di Pola e Fiume cadono in mano tedesca, nelle campagne dell’interno e nelle città minori della costa i presidii militari italiani si arrendono agli insorti consegnando le armi. Sulla costa occidentale, a Parenzo/Poreč e Rovigno/Rovinj, a guidare l’insurrezione sono prevalentemente quadri comunisti italiani. Nell’interno invece la guida è prevalentemente croata, ed esprime diversi orientamenti: oltre ai comunisti (croati e italiani) ci sono cattolici e nazionalisti croati.
Sulla costa orientale l’insurrezione ha carattere spiccatamente di classe, e ha il suo centro nella cittadina mineraria di Albona (Labin, dove già nel 1921 i minatori in sciopero avevano proclamato la repubblica sovietica). Si forma la prima brigata partigiana, intitolata a Vladimir Gortan, antifascista istriano condannato a morte dal Tribunale speciale per la sicurezza dello stato e fucilato nel 1929.
Gli atti di sabotaggio si moltiplicano rapidamente. Il 12 settembre i partigiani nella zona di Kanfanar/Canfanaro fanno saltare un tratto della ferrovia e assaltano un treno diretto in Germania, liberando centinaia di soldati italiani destinati ai campi di concentramento. Una parte dei soldati liberati si unisce ai partigiani.
La rappresaglia tedesca non si fa attendere: il 16 settembre i tedeschi entrano a Kanfanar coi carri armati, incendiano otto edifici e su delazione dei fascisti locali arrestano e fucilano sul posto 26 abitanti del villaggio. Il 14 settembre, approfittando dell’allentamento della sorveglianza durante il passaggio di consegne tra militari italiani e tedeschi, 190 dei circa 800 detenuti politici del carcere di Pola riescono a disarmare le guardie e a evadere. Nei giorni successivi i tedeschi ne catturano 25 e li fucilano nei dintorni di Fasana/Fažana. Nel frattempo si insediano un po’ ovunque, in modo disordinato e caotico, i poteri popolari. La capitale dell’insurrezione è Pazin, cittadina situata nel centro dell’Istria.
Il 13 settembre il comitato degli insorti proclama l’annessione dell’Istria alla Croazia, all’interno della nuova Jugoslavia socialista e federale. Questa decisione spiazza gli antifascisti italiani, che da un momento all’altro si trovano davanti alla cruda realtà: in Istria lo stato italiano è esistito per soli venticinque anni, non esiste più, non esisterà più. Devono scegliere se proseguire la loro lotta antifascista sotto la guida jugoslava o deporre le armi.
Se per la componente comunista dell’antifascismo italiano la scelta è relativamente facile, non lo è affatto per le altre componenti. Da quel momento in poi, in molti si troveranno a vivere in una situazione liminare, a volte ambigua, spesso pericolosa. Chi non ha nessun dubbio invece sono i fascisti, che si schierano subito dalla parte dei tedeschi. In questo clima sospeso gli insorti operano centinaia di arresti: nel mirino ci sono i fascisti, i padroni e i rappresentanti del potere italiano, e spesso le tre categorie coincidono.
Tra gli arrestati ci sono diversi membri della famiglia Cossetto, tra cui lo zio Emanuele, arrestato il 24 settembre, e Norma, arrestata il 2 ottobre.
Il principale luogo di detenzione è il castello di Pazin. Secondo le direttive di Joakim Rakovac, uno dei principali dirigenti dell’insurrezione, gli arrestati dovranno essere giudicati e condannati in regolari processi. Non sempre però le cose vanno così, e sono numerosi gli episodi di jacquerie, di giustizia sommaria, di vendette personali.
Il 26 settembre a Pazin si insedia il primo parlamento degli insorti, e viene pubblicato un proclama in cui si comincia a delineare la fase costituente del potere popolare. Tra le altre cose, viene ribadita l’annessione dell’Istria alla Jugoslavia socialista, vengono riconosciuti i diritti nazionali della minoranza italiana, e viene decretata l’espulsione degli italiani che dopo il 1918 si erano stabiliti in Istria con lo scopo di snazionalizzare e sfruttare il popolo croato; viene inoltre decisa la riapertura delle scuole in lingua croata e viene lanciata una campagna di mobilitazione a sostegno dell’esercito di liberazione nazionale.
3. Giuseppe Cossetto e la colonizzazione «agricolo-militare» dell’Istria
Come si posiziona in questo contesto la famiglia Cossetto? A sentire Frediano Sessi, i Cossetto sono sì fascisti, ma non proprio fascisti fascisti. Il loro è un «fascismo “terzo”». Cosa sia questo fascismo terzo non è chiaro. Sessi dice che è diverso sia da quello «romano» sia da quello «di confine». Sembrerebbero essere fascisti non violenti, benefattori forse un po’ paternalisti, romantici innamorati dell’italianità in una zona di confine. Sono rispettati da tutti e non immaginano proprio che qualcuno possa voler loro del male.
Eppure, tutto ciò che Licia Cossetto e Andreina Bresciani raccontano a Sessi suggerisce esattamente il contrario.
Il pater familias, Giuseppe Cossetto, è un proprietario terriero ed è uno squadrista della prima ora, ha partecipato alla marcia su Roma. È stato segretario del fascio e podestà di Visinada, ufficiale della milizia e commissario governativo delle casse rurali. In quest’ultimo ruolo, secondo sua figlia Licia, ha agito da filantropo, aiutando i contadini bisognosi.
Ci permettiamo di dubitarne.
Come spiega Lavo Čermelj nel suo Sloveni e croati tra le due guerre (Editoriale stampa triestina, 1974), a partire dagli anni venti il controllo del credito agricolo è una delle principali leve per disarticolare le comunità rurali slovene e croate. Entro il 1929 tutte le cooperative di credito agricolo slovene e croate vengono smantellate. Comincia così a prendere corpo il progetto di espulsione dalle campagne dei contadini «slavi». Questi, costretti a indebitarsi con istituti finanziari italiani, in particolare con l’Istituto federale di credito per il risorgimento delle Venezie, vengono espropriati dei propri beni e terreni, che sono poi messi all’asta e venduti a prezzi risibili.
Dal 1931 i beni messi all’asta cominciano a essere rilevati dall’Ente di rinascita agraria delle Tre Venezie, che adotta per questo preciso scopo un nuovo statuto. Le terre così acquisite a partire dal 1935 dovrebbero in teoria essere distribuite a coloni italiani. Tuttavia sulle terre espropriate spesso rimangono gli ex proprietari, come coloni dei nuovi padroni italiani.
Nel 1937 un decreto del governo autorizza l’Ente a espropriare qualsiasi proprietà agricola «slava». Nel 1939 Italo Sauro, consigliere speciale del governo per le «questioni slave», mette in cantiere un progetto che prevede di «minare la proprietà slava attraverso tutte le operazioni del credito e del fisco» e di «favorire l’emigrazione di rurali slavi in altri centri lontani del Regno e delle colonie» (Alberto Buvoli, Il fascismo nella Venezia Giulia e la persecuzione antislava, in «Patria Indipendente», 27 febbraio 2005).
L’invasione della Jugoslavia nel 1941 segna un ulteriore punto di svolta nella politica delle confische: il contesto di guerra porta a una radicalizzazione dell’azione colonizzatrice, con sottrazioni di beni e deportazioni di contadini «sospetti». Per reazione cominciano a diffondersi atti di sabotaggio e nascono bande armate che minacciano i coloni italiani assegnatari dei terreni confiscati, costringendoli ad abbandonarli.
Alla fine del 1942 il commissario dell’Ente nazionale Tre Venezie – così nel 1939 era stata modificata la denominazione dell’Ente di rinascita agraria – Emiliano Carnaroli nel suo rapporto intitolato L’attività dell’Ente nazionale Tre Venezie nella zona orientale, 26.12.1942 – citato in: Andrea di Michele, Terra italiana. Possedere il suolo per assicurare i confini 1915-54, Laterza, Bari 2023 – propone di realizzare forme nuove di colonizzazione agricolo-militare assegnando i poderi a famiglie di membri della milizia confinaria, in grado di difendere con le armi le loro terre e il territorio circostante.
Al momento non abbiamo fonti che attestino un ruolo di Giuseppe Cossetto in operazioni di questo tipo in qualità di commissario governativo delle casse rurali. Ma non c’è nemmeno nessuna fonte che attesti i suoi presunti e decantati meriti filantropici. Ci limitiamo a osservare che un gerarca fascista che ricopre la carica di commissario governativo delle casse rurali nell’Istria degli anni Quaranta è piuttosto lontano dall’idea che abbiamo di un benefattore.
Dopo l’8 settembre Giuseppe Cossetto lascia l’Istria e si stabilisce a Trieste. La figlia Licia ci tiene a sottolineare che non lo fa per paura, ma per senso del dovere. I suoi superiori lo hanno richiamato a Trieste affinché «si metta a disposizione». A disposizione di chi, a Trieste, dopo l’8 settembre?
La domanda è ovviamente retorica. A Trieste in settembre si costituisce la prima unità della Repubblica sociale italiana (RSI), il Battaglione speciale OP, sottoposto al comando militare tedesco. La 5a compagnia fucilieri del battaglione è comandata da Giovanni Downie ed è l’unica unità italiana che nell’ottobre del 1943 partecipa alla massiccia campagna di rastrellamenti dell’Unternehmen Istrien. È proprio inquadrato in questa unità che Giuseppe Cossetto rientrerà in Istria intorno al 2 ottobre.
4. Il razzismo antislavo che Sessi occulta
Di Norma Cossetto sappiamo che è una studentessa di lettere all’Università di Padova, che insegna alle magistrali di Parenzo e che è iscritta al GUF di Pola. Pare sia fidanzata con un ufficiale della X Mas. L’amica Andreina Bresciani la descrive così a Frediano Sessi:
«Ricordo che partecipava con entusiasmo alle manifestazioni per la guerra d’Africa e non faceva mistero del suo nazionalismo spinto. Posso dire che sentiva molto decisamente la sua italianità. E diceva sempre che in Istria erano gli sloveni e i croati a essere fuori posto, perché gli italiani abitavano quella terra con più diritti. Su questo punto era molto intransigente.»
È importante sottolineare che «sentire decisamente la propria italianità» e ritenere che «gli sloveni e i croati siano fuori posto in Istria» non sono «sentimenti non violenti», come sostiene Sessi: sono posizioni che indicano l’adesione consapevole a un progetto violento di snazionalizzazione delle comunità slovena e croata. Essere fascisti in Istria non significa prendere la tessera del fascio per quieto vivere.
Licia Cossetto non ha mai fatto mistero di essere convintamente fascista. Il 4 maggio 1944 la troviamo citata in un trafiletto del Piccolo come madrina del battaglione bersaglieri «Benito Mussolini» a Trieste, tra canti e «strofette bersaglieresche».
Solo pochi giorni prima, sempre a Trieste, i tedeschi hanno impiccato 51 antifascisti detenuti nel carcere del Coroneo e li hanno lasciati esposti al pubblico per diversi giorni, come rappresaglia per un attentato in cui due partigiani azeri inquadrati nel IX Korpus dell’EPLJ hanno fatto saltare in aria cinque ufficiali tedeschi. Nel settembre del 1944 Licia Cossetto sposa Guido Tarantola, un ufficiale dell’aviazione della Rsi.
Tra i vari appartenenti al clan Cossetto citati nelle cronache e nei necrologi del Piccolo nell’autunno del 1943 troviamo Mario Bellini, marito di Noemi Cossetto, tenente del genio e capomanipolo della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (le cosiddette Camicie nere). Rientrerà anche lui in Istria insieme a Giuseppe Cossetto, inquadrato nell’unità di Giovanni Downie sotto il comando tedesco. Infine troviamo Eugenio Cossetto, padre di Noemi, squadrista, sciarpa littorio, infoibato a Villa Surani.
5. «Ripulire» l’Istria
La preoccupazione maggiore per gli occupanti tedeschi nel settembre del 1943 è che lo stato di insurrezione in Istria possa favorire uno sbarco alleato. L’ipotesi di uno sbarco in Istria è tutt’altro che irrealistica: rimane effettivamente sul tavolo degli Alleati fino alla fine della guerra. Per questo motivo il comando supremo della Wehrmacht decide di dare il via a una vasta operazione di Säuberung, di «ripulitura» dell’Istria dalle «bande partigiane». A tale scopo utilizzerà reparti specializzati in azioni antipartigiane rientrati dall’Ucraina.
Il 24 settembre 1943 viene diramato a tutte le unità operative nell’Ozak il seguente Führerbefehl (incluso in Giorgio Liuzzi, Violenza e repressione nazista nel Litorale Adriatico 1943-1945, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, Trieste 2014):
«Viene comunicato all’Heeresgruppe B l’ordine del Führer di schiacciare con spietata durezza il movimento insurrezionale sloveno-comunista in Istria. Coloro che opporranno resistenza dovranno essere fucilati immediatamente, indifferentemente dalla nazionalità (indifferentemente se è soldato sloveno o italiano o se agisce come ribelle di altri popoli). L’impiego e l’entità delle forze dovranno essere tali da conseguire un grande successo e da rendere il grosso delle unità impiegate, rapidamente disponibili per altri compiti. Dopo di che la popolazione slovena non dovrà più costituire alcun pericolo.»
Il 25 settembre parte l’ordine d’inizio delle operazioni. Le istruzioni dettagliate prevedono che
«nel territorio d’operazione tutti i maschi tra i 15 e i 70 anni [siano] da considerare sospetti banditi e [vadano] arrestati. Solo i contadini residenti, che portano avanti il loro lavoro e forse non hanno nulla a che fare con le bande, possono essere esentati dall’arresto.»
Il trattamento da riservare ai prigionieri è il seguente:
«a) I prigionieri di nazionalità slovena, serba o croata, in qualunque caso se con l’uniforme o come civili, sono da trattare come prigionieri di guerra. Questo vale anche per gli appartenenti al vecchio esercito italiano, con l’eccezione degli ufficiali, che devono essere subito fucilati
b) I comandanti delle bande dopo essere stati perquisiti e interrogati vanno fucilati
c) I prigionieri alleati non devono essere trattati come gli altri prigionieri ma devono essere subito condotti al più vicino Comando per la Sicurezza.»
Nelle istruzioni per gli interrogatori si specifica che
«I prigionieri appartenenti alle bande sono da interrogare. Si deve appurare l’organizzazione e la consistenza del nemico. Le informazioni importanti sono quelle che riguardano la forza, l’armamento, il sostentamento e i nomi dei Capi delle bande, ma soprattutto se in queste vi sia una influenza o guida angloamericana.»
Questa operazione prende il nome di Unternehmen Istrien, e nella storiografia jugoslava è considerata parte della Sesta offensiva. Le offensive, sette in tutto, nella storiografia jugoslava indicano esclusivamente le operazioni su vasta scala messe in campo con il preciso scopo di annientare i partigiani.
Tra il 26 e il 29 settembre le unità corazzate tedesche riprendono il controllo della zona di Gorizia. Le formazioni partigiane, pur al costo di numerose perdite, riescono a ritirarsi ordinatamente verso est, nella selva di Tarnova / Trnovski Gozd.
L’offensiva in Istria e verso Fiume, invece, parte il 2 ottobre e vede in azione circa 50.000 uomini, 110 panzer e 140 cannoni, oltre a una squadriglia di Stukas. Le truppe impegnate includono reparti d’élite delle SS tra i quali spicca la divisione corazzata «Leibstandarte-SS Adolf Hitler».
Come abbiamo anticipato, l’unica unità italiana che partecipa all’operazione è la 5a compagnia fucilieri del Battaglione speciale OP, comandata da Giovanni Downie, in cui sono inquadrati anche Giuseppe Cossetto e Mario Bellini.
Le truppe si dividono in tre colonne. La prima colonna si muove da Trieste verso Fiume, per chiudere la penisola istriana in una sacca. La seconda e la terza si muovono da nord verso sud, una lungo la costa occidentale e l’altra nel centro della penisola. Da Pola altre unità tedesche si muovono verso nord lungo la costa orientale per chiudere l’accerchiamento.
L’impatto dell’avanzata tedesca è violentissimo. Il 3 ottobre l’aviazione bombarda Buie uccidendo 13 civili. Tra il 2 e il 3 ottobre le truppe a terra cominciano i rastrellamenti. A Grisignana/Grožnjan le SS entrano in paese e uccidono, tra gli altri, il podestà, il segretario comunale e un impiegato, a riprova del fatto che nemmeno essere rimasti fedeli alle autorità collaborazioniste è garanzia di salvezza durante i rastrellamenti. Il 4 ottobre a Nova Vas/Villanova i tedeschi radunano in piazza tutti gli abitanti del paese e su delazione dei fascisti locali individuano 18 sospetti partigiani e li fucilano sul posto.
Davanti all’avanzata tedesca, ai partigiani non resta che tentare di ripiegare a est, verso i gruppi montuosi dell’Učka/Monte Maggiore, e quindi verso le foreste del Gorski Kotar, alle spalle di Fiume. È proprio in questa fase che avviene la quasi totalità degli infoibamenti di prigionieri da parte dei partigiani. Nel loro ripiegamento infatti i partigiani trasportano in fretta anche i prigionieri, da Parenzo e da Pisino verso Albona, perché lasciarli liberi significherebbe in primo luogo mettere in pericolo se stessi e le proprie famiglie; quando però i partigiani si trovano accerchiati, l’azione conseguente, che sia per ordine superiore o per iniziativa autonoma, è quella di liquidare i prigionieri e di darsi alla macchia.
La mattina del 4 ottobre i tedeschi attaccano Pazin da nord, muovendosi da Montona/ Motovun lungo la valle di Vermo/Beram. Possiamo ricostruire in modo abbastanza dettagliato gli eventi del 4 ottobre grazie alla relazione stilata dal dott. Marcello Cordovado su incarico del Comitato di liberazione nazionale triestino alla fine del 1943. Anche questa si può leggere nel libro di Giorgio Liuzzi.
Alle 11 del mattino una squadriglia di Stukas bombarda il paese. Verso mezzogiorno le truppe di terra entrano a Pazin con l’artiglieria sparando su tutto quello che si muove.
Gran parte dei partigiani hanno già abbandonato la città, lasciando una retroguardia a tenere la posizione finché possibile. Molte case sono in fiamme. Il rastrellamento si estende alla campagna circostante. La maggior parte dei prigionieri detenuti nel castello sono stati evacuati durante la notte e portati ad Albona. All’arrivo dei tedeschi i prigionieri rimasti escono dal castello, ma i tedeschi aprono il fuoco anche su di loro uccidendone uno. L’intervento di un prigioniero che parla tedesco riesce a evitare una strage. Tra i prigionieri liberati dai tedeschi ci sono anche Emanuele e Giovanni Cossetto. Alla fine delle operazioni di rastrellamento quella sera a Pazin si contano 157 morti per mano tedesca.
6. Perché non vada come a Kanfanar
Abbiamo visto che nella notte tra il 3 e il 4 ottobre è partito da Parenzo il pullman che trasporta il gruppo di 26 prigionieri di cui fa parte Norma Cossetto, probabilmente diretto ad Albona. Il pullman si è fermato ad Antignana/Tinjan, villaggio che si trova 7 chilometri a ovest di Pisino, e i prigionieri sono stati sistemati nella ex caserma del paese.
Non sappiamo se la pausa sia stata programmata in anticipo o se sia dovuta all’attacco tedesco. Quello che però appare evidente è che dalla mattina del 4 ottobre non è più possibile spostarsi da Tinjan verso est, e che continuare a indossare le insegne partigiane equivale a un suicidio. Cosa accada in quelle ore non lo possiamo sapere, ma l’epilogo a questo punto è abbastanza scontato.
La sera del 4, quando fa buio, i partigiani di Tinjan si sbarazzano dei prigionieri uccidendoli e gettandoli nella foiba di Surani, appena fuori dal villaggio. Probabilmente si sbarazzano anche delle divise e ritornano alla vita da civili. La decisione ha una sua cruda razionalità: i prigionieri se liberati potrebbero denunciarli ai tedeschi; è già successo a Kanfanar e a Nova Vas/Villanova.
I partigiani che sono riusciti a sganciarsi verso est trovano sbarrata la via verso il Gorski Kotar, perché nel frattempo i tedeschi hanno preso il controllo del vallone tra Trieste e Fiume. Anche loro nei giorni successivi elimineranno i prigionieri, nella foiba di Vines vicino ad Albona.
La 5a compagnia fucilieri comandata da Downie è segnalata a Buje il 4 ottobre. In quei giorni Giuseppe Cossetto potrebbe aver saputo dell’arresto della figlia. Secondo quanto riferito da Emanuele Cossetto a Maria Pasquinelli, Giuseppe Cossetto e Mario Bellini il 6 ottobre partecipano ai rastrellamenti nella zona di Visinada/Vižinada, e arrestano un certo numero di partigiani. Da questi avrebbero ottenuto una falsa informazione sul luogo in cui sarebbe stata detenuta Norma Cossetto. Recatisi sul luogo vengono uccisi dai partigiani in un agguato e dopo qualche giorno i loro cadaveri vengono gettati in una foiba a Castellier di Visinada/Kaštelir.
È evidente che retrodatare l’arresto di Norma Cossetto al 26 settembre ha consentito alla narrativa cossettologica dal 1945 in poi di rendere credibile che Giuseppe Cossetto decida di tornare in Istria solo dopo aver saputo dell’arresto della figlia, quando invece è già in azione per «ripulire» la regione insieme alle SS.
L’offensiva tedesca si conclude il 9 ottobre. Sul Piccolo dell’8 ottobre esce un primo bollettino in cui i tedeschi rivendicano di aver ucciso circa 3700 «banditi» in cinque giorni, e di averne catturati 4900. Il 13 ottobre sempre il Piccolo pubblica un secondo bollettino in cui si parla di 13.000 «banditi» uccisi o fatti prigionieri. Da un’analisi ripulita dalle amplificazioni propagandistiche e basata su documenti e riscontri incrociati il bilancio considerato più attendibile dagli storici è di circa 2800 morti, per lo più civili, e di 2500 prigionieri, di cui diverse centinaia deportati nei campi di concentramento.
Il movimento partigiano in Istria è sconfitto, ma non annientato. Nel corso del 1944 si ricostituiranno diverse brigate che continueranno la guerriglia fino alla liberazione nella primavera del 1945. Per il momento, nell’ottobre del 1943, il Piccolo può scrivere che l’ordine regna a Pisino.
7. Il Terzo Reich inventa la propaganda sulle foibe
Appena la situazione sul campo lo consente, la propaganda nazista organizza una vasta operazione di recupero dei cadaveri dalle foibe istriane, accompagnata da una martellante campagna mediatica sul Piccolo e sul Corriere Istriano. A guidare le esplorazioni è il maresciallo dei vigili del fuoco di Pola Arnaldo Harzarich. Tra il 15 ottobre e il 20 dicembre vengono estratti circa 200 cadaveri, dei quali circa 150 vengono riconosciuti. Per gli amanti delle statistiche, tra questi una decina sono di donne.
La propaganda nazista nell’Ozak è gestita integralmente da Karl Lapper, uomo di fiducia di Goebbels. Fino a tutta la primavera del 1944, quando cominceranno a emergere rivalità e dissidi tra vari settori dell’amministrazione tedesca (SS, Wehrmacht, dipartimento propaganda ecc.), non c’è libro, trasmissione radiofonica, film, spettacolo teatrale, giornale, volantino che non sia approvato dal dipartimento diretto da Lapper.
È Lapper a ideare e mettere in pratica la grande operazione propagandistica della riesumazione dei cadaveri dalle foibe istriane. I giornali ne parlano diffusamente con reportage quotidiani. Si stampano migliaia di manifesti e opuscoli con le foto dei cadaveri putrefatti da esporre e distribuire in ogni villaggio.
Per capire come funziona la propaganda nazista nell’Ozak è istruttivo leggere il rapporto inviato a Berlino da Lapper nel novembre del 1943, pubblicato e commentato da Enzo Collotti sulla rivista Studi Storici, 4, 3, 1963, pp. 521-537. Tra le altre cose Lapper scrive:
«Nel settore della propaganda attiva (Aktivpropaganda) si lavora molto con la propaganda orale (Mundpropaganda). Qui io collaboro strettamente con l’Alto capo delle SS e della polizia, SS-Gruppenführer Roessener-Lubiana e con lo SS-Gruppenführer Globotschnigg-Trieste servendomi di agenti di collegamento da una parte per sentire che cosa agita la popolazione e dall’altra per dare la controparola.»
Come spiega Fulvia Albanese su Qualestoria (1, 1997), sul territorio agiscono squadre di cinque/sette uomini (Einsatztruppen) che hanno il compito specifico da un lato di registrare il sentimento popolare, dall’altro di orientarlo in senso antipartigiano, diffondendo disinformazione e mettendo l’una contro l’altra le diverse comunità nazionali.
Chiunque voglia fare storia orale sull’Istria del 1943-1945 e non tenga conto di questo dato ambientale dà prova come minimo di colpevole ingenuità, a voler essere buoni. È in questa miscela di propaganda e disinformazione che si coagulano e prendono forma le leggende nere sulle foibe, dai rituali di infoibamento alla «superstizione balcanica» del cane nero, dagli stupri parasatanici alle sevizie gratuite o simboliche. Proprio quelle leggende che Spazzali chiama «incontrollate fantasie», insomma. Ma è lecito domandarsi se queste fantasie non siano, al contrario, molto ben controllate e dirette.
8. Il salto della decima quaglia
Arriva la primavera del 1945. Le cose sono molto cambiate rispetto all’autunno del 1943. È ormai chiaro che la Germania ha perso la guerra, è solo questione di tempo. Ciò non toglie che milioni di persone dovranno ancora morire prima che si giunga alla capitolazione.
Le cose sono cambiate anche tra gli alleati: gli angloamericani e i sovietici stanno già disegnando il mondo a venire, diviso in due blocchi contrapposti. In Grecia si è visto nel dicembre del 1944 che una volta vinta la guerra gli angloamericani sono disposti a riabilitare e riarmare persino i fascisti, loro nemici fino al giorno prima, pur di evitare che i comunisti prendano il potere. Anche l’Italia è investita in pieno da questa dinamica, soprattutto nelle sue regioni nord-orientali. Approfittando di questa crepa, c’è chi si prepara a fare il salto della quaglia. Il più spregiudicato a cimentarsi in tale disciplina è Junio Valerio Borghese, comandante della X Mas, unità militare della RSI specializzata in rastrellamenti e azioni antipartigiane al servizio dei tedeschi.
Dalla Lunigiana al Friuli, ovunque si muova, la X Mas lascia dietro di sé una scia di sangue. Dal gennaio del 1945 Borghese comincia a prendere contatti con l’esercito cobelligerante del sud e con gli alleati. Tenta anche di stabilire un’alleanza tattica con i partigiani bianchi della Osoppo in funzione anti-jugoslava (cfr. i documenti riportati integralmente in: Nicola Tranfaglia, Come nasce la Repubblica: la mafia, il Vaticano e il neofascismo nei documenti americani e italiani 1943-1947, Bompiani, Milano 2004). Per accreditarsi presso gli alleati imbastisce una grottesca operazione di riverniciatura, presentando la X Mas come una specie di unità indipendente, che combatte sia contro gli jugoslavi sia contro i tedeschi e che ha come unico scopo quello di difendere «l’italianità» della regione.
In questo contesto un ruolo particolare lo svolge la già citata Maria Pasquinelli, militante fascista di lunga data, attiva nel servizio di intelligence della X Mas, che nel marzo del 1945 si reca in Istria a raccogliere testimonianze sui «crimini jugoslavi». I suoi appunti sono un brogliaccio in cui compaiono articoli di stampa, materiale proveniente dalla propaganda nazista, resoconti di testimonianze e di conversazioni private e considerazioni personali. Tra le varie testimonianze raccolte c’è anche quella di Emanuele Cossetto, di cui abbiamo parlato all’inizio.
Lo scopo immediato di Pasquinelli è mettere insieme un dossier che possa servire a convincere gli alleati a compiere uno sbarco in Istria, in modo da anticipare le truppe jugoslave che stanno risalendo la costa dalla Dalmazia. Lo sbarco non ci sarà, ma le carte di Pasquinelli faranno un lungo giro, e dopo essere passate per le mani di Borghese, finiranno in quelle del governo italiano, che ne inserirà una parte nella documentazione che presenterà alla conferenza di pace di Parigi. Maria Pasquinelli invece finirà in carcere per aver ucciso il generale de Winton, comandante della guarnigione inglese di Pola, il 10 febbraio 1947, nel giorno della firma del trattato di pace che assegnerà l’Istria alla Jugoslavia.
9. I padri della patria che celebra i «martiri delle foibe»
Non c’è solo lo squalo Borghese a fare il salto della quaglia, ma anche una serie di pesci grandi e piccoli. Tra i pesci piccoli c’è Arnaldo Harzarich. Nel 1945 è un uomo braccato, ricercato dalle autorità jugoslave, e ha un disperato bisogno della protezione degli angloamericani. A luglio lo interroga un funzionario anonimo dell’intelligence alleata, probabilmente a Pola. Il funzionario compila una relazione in cui le dichiarazioni di Harzarich sono integrate con altre informazioni provenienti dalla stampa, e anche dagli opuscoli della propaganda nazista. Questa relazione è impropriamente chiamata “Rapporto Harzarich”, e finirà anch’essa nelle mani del governo italiano.
Tra i pesci più grandi invece c’è il collaborazionista Luigi Papo. Anche lui è ricercato dalle autorità jugoslave, e per qualche tempo finisce in un campo di prigionia dalle parti di Lubiana, nella primavera/estate del 1945, ma è rilasciato perché non viene riconosciuto. In precedenza lo troviamo segnalato in Istria a Montona/Motovun il 3 ottobre 1943 (alla vigilia dell’attacco a Pisino), intento a rifondare i fasci di combattimento del paese. È arrivato lì al seguito delle truppe tedesche, o forse italiane, durante l’Unternehmen Istrien.
Nel 1949, sotto il falso nome di Paolo De Franceschi, Papo dà alle stampe un libercolo intitolato Foibe. Il capitolo su Norma Cossetto riporta una parte della testimonianza di Emanuele Cossetto e alcune informazioni contenute nel “Rapporto Harzarich”, contraddette peraltro da altre dichiarazioni successive dello stesso Harzarich citate nelle pagine seguenti.
Il tutto è impreziosito da un elaborato lavoro di fantasia dal gusto alquanto necrofilo. Nel racconto di Papo compare ad esempio per la prima volta la storia degli assassini di Norma Cossetto obbligati a vegliarne il cadavere putrefatto prima di essere falciati dai mitra tedeschi.
«La salma fu composta nella cappella mortuaria del piccolo cimitero di Castellier e i sedici banditi furono condotti là per ritrovarsi soli con la loro vittima; e soli rimasero, soli e chiusi per una notte intera, una notte d’amore d’inferno, chiusi in quella piccola cappella mortuaria che sul marmoreo letto ospitava Norma. Tre impazzirono in quella notte ma certo nessuno scontò neppure con la morte che giunse più tardi dai mitra tedeschi, i delitti che in vita avevano compiuti.»
Papo sarà per decenni uno dei principali animatori dell’associazionismo esule. Il suo «Albo d’oro» diventerà testo di riferimento ufficiale per l’attribuzione delle medaglie ai “martiri delle foibe” assegnate dal presidente della Repubblica italiana in occasione del Giorno del ricordo a partire dal 2005.
Questi che abbiamo elencato sono i testi che fondano il canone della cossettologia. Da questi testi deriva tutto quel che viene dopo: Rocchi, Pitamitz, Rumici, Petacco, Sessi… Ognuno di questi autori ci ha poi messo del suo, lavorando di fantasia a seconda del proprio estro, aggiungendo questo o quel dettaglio morboso o patetico.
L’arco narrativo della vicenda di Norma Cossetto, però, è costruito a partire da un dato falso. La retrodatazione del suo arresto crea una sorta di “settimana fantasma” che può essere riempita a piacimento.
Aver stabilito correttamente la data non solo consente di riscrivere i movimenti del padre, non solo toglie spazio al patetico e al morboso, ma colloca la sua morte in un flusso di eventi ben differente da quello che sembrava ormai fissato nel “senso comune”. La questione della laurea ad honorem, ricostruita in modo completo nella puntata precedente di quest’inchiesta, oltre ad averci offerto l’occasione di riaprire il nostro fascicolo sul caso Norma Cossetto, è rivelatrice, un’ulteriore conferma del quadro generale emerso nelle cinque parti di questa inchiesta.
Inutile girarci intorno: una parte importante della religione civile della repubblica italiana del XXI secolo è fondata in ultima analisi su materiale velenoso prodotto dall’ufficio propaganda dell’occupante nazista tra il 1943 e il 1944; trasportato in ambito atlantista dalle quaglie della X Mas nel 1945; infine riciclato negli anni Novanta dalla bicamerale della memoria, presieduta da Fini e Violante sotto l’occhio benevolo di Cossiga.
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* Nicoletta Bourbaki è un gruppo di lavoro sul revisionismo storiografico in rete, sulle false notizie a tema storico e sulla riabilitazione dei fascismi in tutte le sue varianti e manifestazioni. Il gruppo si è formato nel 2012 in seguito a una discussione su questo stesso blog e ha al suo attivo molte inchieste e diverse pubblicazioni. Nel 2017 ha ideato e curato lo speciale «La storia intorno alle foibe» per la rivista Internazionale. Nel 2018 ha pubblicato on line la guida didattica Questo chi lo dice? E perché? Nel 2022 ha pubblicato per le edizioni Alegre il saggio d’inchiesta storiografica La morte, la fanciulla e l’orco rosso. Il caso Ghersi: come si inventa una leggenda antipartigiana. Lo pseudonimo collettivo «Nicoletta Bourbaki» è un détournement transfemminista di «Nicolas Bourbaki», maschilissimo gruppo di matematici francesi attivo dagli anni Trenta agli anni Ottanta del XX secolo. Nicoletta Bourbaki è su Medium e su Telegram.
** “Venezia Giulia” è il nome coniato dai geografi irredentisti alla fine dell’800 per indicare le terre rivendicate dal regno d’italia a est dell’Isonzo.