I Campus occupati scuotono gli USA e possono rappresentare una rottura nella lotta globale contro il genocidio palestinese

Quali affari fa una scuola che trae profitto dalle stesse compagnie di combustibili fossili e dagli stessi profittatori di guerra che stanno uccidendo le comunità dei suoi studenti?

Naina Agrawal, 21 anni, laureata in storia a Yale.

Gli avvenimenti del 7 ottobre hanno spinto l’attenzione globale a spalancare gli occhi su una guerra da anni sopita ma radicata. In questo scenario la Palestina, presentata dalle istituzioni come “il fronte terrorista”, si vede opposta a Israele, l’alleato politico a cui da sempre fornire sostegno. Nonostante questa narrazione, numerosi movimenti, coscienti della storia che intreccia questi due popoli, e degli anni di repressione sulla popolazione palestinese, si sono attivati dando vita a un clima di continua mobilitazione.

Infatti, malgrado gli incessanti ed efferati tentativi da parte delle autorità di mettere a tacere le voci degli attivisti, i movimenti di solidarietà non sono cessati, conquistando una forza indomabile, in particolar modo, nelle università.

Nelle ultime settimane, abbiamo assistito a molteplici mobilitazioni nei campus americani da parte degli studenti, che hanno presentato la richiesta di recidere gli accordi con gli atenei israeliani ed i legami tra le università e le aziende belliche. Oltre 40 college hanno visto svilupparsi, nella forma di tendate all’interno dei campus, mobilitazioni partecipate da sempre più studenti.

Il dissenso statunitense ha bucato la scena mediatica globale lo scorso 17 aprile, quando alla Columbia University centinaia di studenti si sono accampati in segno di solidarietà per la Palestina. Una manifestazione pacifica, che comprendeva persone di diverso orientamento politico, background sociale, provenienti da contesti differenti: palestinesi, arabi, ebrei e musulmani, uniti nel denunciare la campagna israeliana.

Tra le università in protesta, a cui è seguita un’azione repressiva molto violenta, sono emerse principalmente l’università del Southern California, dove è stata annullata la principale cerimonia di apertura proprio per via delle proteste, in cui quasi 100 persone sono state arrestate; la Brown University, dove lo stesso rettore ha minacciato gli studenti accampati paventando misure disciplinari; e la Yale University, dove una cinquantina di studenti sono finiti in manette.

La risposta da parte delle istituzioni è stata l’intervento delle forze dell’ordine, che hanno attuato violentissimi arresti e atti di repressione, tramite taser, placcaggi e immobilizzazioni, dimostrando una preoccupante brutalità anche verso professori che volevano solo aiutare studenti feriti. Inoltre, sono stati segnalati avvistamenti di cecchini sui tetti dei campus. Uno scenario orrido che evidenzia una militarizzazione delle università che è in atto da tempo. Nella storia delle manifestazioni statunitensi, infatti, la violenza è sempre stata istituzionalizzata. Si pensi alla sparatoria della Kent State nel 1970, dove, durante una protesta contro l’invasione statunitense della Cambogia, la Guardia Nazionale aprì il fuoco sugli studenti, provocando 4 morti e 9 feriti.

Oltre la violenza, un altro strumento utilizzato dagli stati consiste nella manipolazione delle informazioni. Infatti, nonostante l’eterogeneità della composizione presente nelle mobilitazioni, sia Biden che Netanyahu hanno accusato le manifestazioni di antisemitismo, narrando di fantomatici attacchi verso studenti ebrei, paragonando i raduni alle proteste naziste degli anni ‘30. Contrariamente a ciò, nei luoghi occupati, gruppi di studenti celebrano indisturbati le festività ebraiche, evidenziando, quindi, la matrice non discriminatoria del dissenso. Nel frattempo, oltre 300 studenti ebrei solidali alla causa palestinese sono stati arrestati.

Di fronte a questa posizione di lotta unitaria, (entrando nel dettaglio della situazione alla Columbia University) la rettrice Minouche Shafik ha però risposto con l’intervento della polizia. Questa, per la prima volta dopo circa 50 anni, ha fatto irruzione nel campus in tenuta antisommossa, arrestando 108 studenti coinvolti nell’accampamento di solidarietà alla causa palestinese.

Non si assisteva a un episodio del genere dalla protesta del 23 aprile del 1968, in cui gli studenti occuparono il campus per manifestare contro il coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra in Vietnam.

La Columbia vanta una ricca storia di attivismo sociale. Nel corso degli anni infatti, migliaia di studenti si sono schierati nelle lotte per i diritti, per la pace e per il clima, esprimendo le proprie posizioni. Ad esempio, negli anni ‘70 migliaia di studenti decisero di opporsi alla segregazione razziale, chiedendo che le loro ricchissime scuole recidessero gli atti di intesa con coloro che la fomentavano.

La severità con cui le università stanno rispondendo mette in evidenza l’ipocrisia del mito della libertà e della democrazia, con cui spesso si descrivono gli Stati Uniti. Tra le persone arrestate vi sono anche professori, professoresse e membri del personale accademico e tecnico. Mohamed Abdou, professore presso la Columbia University, è stato condannato pubblicamente e licenziato in seguito a un’affermazione filo palestinese fatta con un post Facebook. Tuttavia, nonostante la decisione della preside, studenti e professori si sono schierati dalla parte del collega, condividendo indignazione e preoccupazione per le dimostrazioni di potere intraprese.

Pur affrontando amareggianti conseguenze, le manifestazioni non sembrano essere intenzionate a cessare. In tutto il mondo possiamo assistere ad un’instancabile mobilitazione. Tra queste, a Parigi, l’Università di Sciences Po è stata occupata per chiedere lo stop dei finanziamenti ad Israele, in cui un collettivo ebreo antisionista ha ribadito l’esigenza della lotta per il popolo palestinese e l’urgenza di smettere di strumentalizzare l’antisemitismo. Dopo due giorni di occupazione, e le successive minacce da parte dell’ateneo di sospendere la comunità studentesca coinvolta nella mobilitazione, l’ateneo ha accettato di indagare i propri legami con gli atenei israeliani, ritirando le accuse di sanzioni disciplinari.

Inoltre, da mesi in Italia, nelle principali università, gli studenti sono scesi in piazza, hanno occupato spazi, e richiesto di partecipare al senato accademico. Tali azioni sono finalizzate a spingere i propri atenei a prendere posizione, riconoscendo il genocidio in atto, cessando gli accordi con le aziende che finanziano la guerra e rifiutando di aderire al Bando Maeci 2024 (come accaduto all’Università di Torino e alla Normale di Pisa). Le proteste sono state spesso accompagnate da azioni repressive, dal continuo intervento delle forze armate, presenti ad ogni corteo, alle minacce velate del taglio di finanziamenti. A tal proposito, i Rothschild, una famiglia protagonista dell’aristocrazia mondiale, hanno inviato una lettera per fare pressioni su l’Università La Sapienza di Roma affinché non approvi la mozione avanzata dagli studenti che chiedono lo stop al bando di cooperazione accademica con Israele. All’interno del comunicato, si avvisa che la mancata cooperazione con le università israeliane comporterebbe la diminuzione del rating internazionale della Sapienza.

In un clima in cui protestare contro un genocidio comporta repressione e violenza da parte delle istituzioni, è evidente che si stia andando incontro a un autoritarismo sempre più marcato, in cui la ragione che guida le decisioni è di matrice economica.  Per questo, al fine di evitare il protrarsi di tale dinamica capitalistica, risulta essenziale continuare a mobilitarsi, partendo dal coinvolgimento universitario. Nelle prossime settimane, sono previste altre mobilitazioni in Italia, sulla scia di quelle che ancora non sono cessate.

Immagine di copertina: Wikimedia Commons.

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