Luca Rastello e le parole 2 (II parte)

di Franco Pezzini

[Qui la prima parte]

2. Sui tempi penultimi, tra Undici buone ragioni per una pausa e I Buoni

Il terzo capitolo del saggio di Elia Faso La vivisezione. Responsabilità e scrittura in Luca Rastello – intitolato “Undici buone ragioni per una pausa: netto come una lama di rasoio e calmo come una conversazione” – riguarda non un romanzo ma una raccolta di racconti, incentrati non casualmente sul tema della penultimità. Il fatto è che a fianco della scrittura di articoli e saggi giornalistici, Rastello deve occuparsi di Madame Problema, la malattia terribile che gli conta i giorni: di qui la riflessione sulla penultimità come tempo di cui riflettere e parlare. La lunghissima gestazione di Piove all’insù è giunta a maturazione dopo la scoperta della malattia, ma questa lo costringe a un lavoro anzitutto interiore e a un sapore diverso – non lugubre e non disperato, ma segnato da un’urgenza – di una serie di esperienze e lettura delle cose. Nella raccolta tornano argomenti e – persino accentuate – tecniche stilistiche (enumerazioni caotiche, enunciati troncati a metà, strategie di rarefazione della soggettività…) già incontrati in Piove all’insù e già in La guerra in casa:

un mancato re­portage sulla dismissione della Casa Militare Umberto I per i veterani delle guerre nazionali in Storie di soldati; l’abban­dono e il suicidio di una ragazza tossicodipendente al carcere delle Vallette in Un fico; l’anziano Mario scopre che a uno dei suoi migliori amici, militare in pensione come lui, è sta­ta diagnosticata una malattia oncologica in Najone (Un’altra storia di soldati); un ex ladro di reperti archeologici asiatici ricorda con l’amante le avventure giovanili e le opere salvate dalla distruzione in Torino-Milano; il primo viaggio in Bosnia per salvare i profughi dalle guerre jugoslave nella Leggenda di Delfino; le commemorazioni a Rosario dell’attivista Claudio Lepratti, assassinato dalla polizia durante le proteste del 19 dicembre 2001 contro la crisi argentina in Passanti; un maia­le con dubbiose speranze sul futuro che spiega le differenze fra la macellazione artigianale e quella industriale della sua specie in Ti faccio vedere come muore il maiale; il viaggio di ritorno di Nune, compagna del guerrigliero armeno Karen Ochanjanyan, nella città distrutta di Yerevan e il suo trasferi­mento ad Agdam in Cornici concentriche; l’occupazione e la riattivazione delle macchine da parte degli operai di una fab­brica di ceramiche a Neuquén in Patagonia in L’infinito (qui, ora e adesso); l’autore riesce a recuperare all’ultimo momen­to l’introvabile zainetto con bambole incorporate chiesto in regalo per Natale dalla figlia piccola in Noir con bamboline; i disagi di alcuni pazienti oncologici dovuti all’ospedalizzazio­ne e al caldo in Luglio.

Su certe espressioni quasi stenografiche, che rimandano a episodi vissuti difficilmente o impossibilmente ricostruibili, è interessante riandare alle annotazioni autografe dei diari di Rastello – una messe di materiali virtualmente ricchissima ma quasi indecrittabile – a base di nomi, parole-chiave, frantumi d’espressione pressoché incomprensibili anche per le persone a lui più vicine, e le cui implicazioni sottese restano nella penna.

Anche in Undici buone ragioni per una pausa è in gioco la dialettica fra chiarezza e oscurità tipica della narrativa di Ra­stello: quanto più la serie di racconti si avvicina al genere del re­portage o alla materia biografica dell’autore, tanto più i referenti reali si opacizzano, producendo un senso di indeterminatezza e rarefazione della narrazione.

E si è parlato di ricorso a qualcosa di simile all’effetto bokeh, che vede sfocare lo sfondo di una fotografia fino a renderlo irriconoscibile, lasciando però a fuoco la figura in primo piano. Il trattamento così enfatizzato non riguarda solo la materia biografica, ma anche i generi di scrittura – ed è interessante notare come i racconti della raccolta si relazionino con suoi articoli e saggi: con la differenza che al rigore dell’informazione in questi ultimi offerta, in chiave di racconto si può sottrarre una serie di elementi, lasciando spazio a divagazioni e riflessioni. Tanto più che “(r)endersi conto dell’ineluttabilità delle cose ultime permette di vivere diversamente le penultime”. “Rastello si rappresenta sempre più come uno spettatore incapace di comprendere ciò che gli succede intorno”: se insiste sull’io è per denunciarne la relativa difficoltà conoscitiva – e non per sedurre il lettore a una complicità, ma per denunciare limiti propri o del sistema, e la maturità non è del personaggio ma del narratore. Di nuovo a sfuggire alle strettoie narcisistiche dell’io è funzionale il cedere la parola ad altri, con l’uso del tu.

Ma la dimensione enigmistica di espressioni presenti come cifrate torna nell’indice, dove aggiunge ai titoli alcuni concetti – o parole-chiave – tra parentesi: qualcosa che offre latitudini interpretative più ampie. La consuetudine a udir parlare l’autore apre del resto connessioni anche diverse. Dove nell’intermezzo Pausa tra questi racconti Rastello scrive:

Basta guardare la quinta enigmatica di un rebus, un tavolino con un mazzo di carte di cui si scorge una figura, un fiasco che viene tappato da un uomo in camicia mentre due gendarmi trascinano via una donna in catene, la pianta di sapone, le ranocchie arboree e una rosa pallida dimenticata sul selciato, per sentire che il tempo si è fat­to immobile e la corsa è sospesa: è evidente che la “Settimana enig­mistica” è scritta da Dio in persona (,)

 

si tratta di un’immagine, la piazza del rebus, che tornava con frequenza nel suo modo di esprimersi e di immaginare. Quell’immagine che troviamo per esempio la sera in certe piazzette dei borghi piemontesi fuori dall’osteria in cui abbiamo appena bevuto un bicchiere: un tavolo sulla piazza con un mazzo di carte e qualche oggetto surreale all’ombra del campanile, un clima sospeso e onirico, lunare, vagamente enigmatico – o enigmistico, in riferimento alla surrealtà delle illustrazioni dei rebus. E, in fondo, della nostra vita.

Come nel rebus finale di Piove all’insù in riferimento alle linee narrative del romanzo,

l’indice di Undici buone ragioni per una pausa fornisce la possibilità di una lettura delle singole storie come emblemi o allegorie, scene in miniatura il cui enigma è risolvibile scoprendo che significa qualcos’altro (etimologia, appunto, di “allegoria”). Ecco perché questi racconti sono insieme “cose penultime” (UBR, p. 9, corsi­vo nel testo) e pause: l’estrapolazione di un tratto temporale dal suo contesto permette alla narrazione di sospendere il tempo, con un’immersione di narratore e narratario in una realtà che estromette (almeno per la durata del racconto) le “forme obbli­gatorie […] dei giorni feriali” (UBR, p. 100), il flusso della quoti­dianità che impedisce di vedere le cose diversamente dalla loro apparenza superficiale.

E tra le cose penultime figurano i sogni, in questa raccolta presenti in più forme. Non solo quelli di Piove all’insù, relativi a un’intera generazione, ma i nostri personali: di nuovo, tornando alla vita dello scrittore, merita ricordare le lussureggianti epopee oniriche che regalava agli amici e poi dimenticava, ma a quel punto venivano conservate da altre memorie. Spesso vi entravano un palazzo labirintico e pagine di avventure più o meno scatenate e surreali (ma non è questa la sede per parlarne).

Un buon modo per guardare il mondo è giocare a riconosce­re i luoghi abitati da un dio” (UBR, p. 118, corsivo nel testo), si legge in Penultimissima, la parte finale della cornice. Abbiamo già visto come questi riferimenti mistico-esoterici di Rastel­lo non abbiano un significato propriamente magico-religioso, ma siano piuttosto metafore per le oasi di senso da cercare in un deserto di insensatezza e fallimenti. È lo stesso autore che precisa: “Aver perso il numinoso è un guaio. Il numinoso è il contrario del sacro da predicatore e delle certezze dei fonda­mentalisti” (UBR, p. 118, corsivo nel testo); anzi, in Penultimis­sima una delle vie che portano al numinoso sono i paradossi delle speculazioni matematico-filosofiche di Pitagora, Zenone di Elea, Galileo Galilei e Georg Cantor su continuo e disconti­nuo, infinito e finito.

Dove però lo stesso concetto di infinito trova declinazione un po’ particolare, illuminata nell’indice dal riferimento aggiunto tra parentesi: “9. L’infinito (qui e ora e per adesso) (comunismo)”, guardando alla “scommessa utopica contro l’ordine economico-sociale dell’aldiquà, di cui si è ormai introiettata l’inevitabilità a livello globale”. Altre parole chiave sono il polisemico fantasma/fantasmi, e sosta. Ma il rischio a fronte di una simile raccolta, avverte Faso con una serie di esempi dalla critica, è la sovrainterpretazione – in particolare delle “fonti”.

Altro tipo di sovrainterpretazione, si può aggiungere, è quello circolante a livello pubblico sull’ultima opera trattata nel saggio di Faso al capitolo quarto, “I Buoni: l’inferno delle buone intenzioni” – un’opera pure ascrivibile, nella sua urgenza, alla stagione della penultimità. Non è il caso di soffermarsi a lungo in questa sede su quanto scritto a suo tempo e qui da Faso molto ben sintetizzato, il giochino stantio delle presunte corrispondenze puntuali tra figure del romanzo e personaggi reali (al netto di ispirazioni effettive ma assai più generali, relative a fenomeni e profili umani non così rari nel mondo dell’impegno solidale, più che a ritratti di individui particolari – che non meriterebbero tutta quell’attenzione). E neppure sulla pagina penosa che ha visto figure di pubblico peso – persone oltretutto che dovrebbero considerare la fattispecie prova come sacra – stigmatizzare un romanzo che doveva ancora uscire e dunque difficilmente avevano letto, elencandone episodi inesistenti con una superficialità che basta a valutare la qualità e fondatezza delle loro recensioni.

Adriano Sofri, che in precedenza aveva dato la stura a questa serie di critiche discutibili, in un commento pungente alla risposta di Rastello, mostra di non aver capito lo spirito e la personalità dell’autore, laddove questo scriveva di “‘un male che io per primo mi porto dentro…’” e aggiungeva “Don Silvano [il vilain della vicenda] sono io”. Al netto di una certa dimensione beffarda, birichina, che in Rastello è presente, quando Sofri pontifica che “‘Io per primo’ è certo un’esagerazione, forse una superbia”, non ha capito affatto l’uomo dietro l’autore e i suoi rovelli personalissimi per aver controfirmato per anni certe logiche a carico di parti più deboli. Era di questi soggetti privi di corifei illustri che Rastello ricordava i visi umiliati e le sofferenze passategli davanti, prima ancora delle maschere degli “eroi” a cui una certa critica mostrava invece tanta ossessiva attenzione.

Il vuoto tiro al piattello avviato da questi critici si colloca del resto a monte di una serie di reazioni scomposte: possiamo ricordare Rastello stupito più che arrabbiato quando all’improvviso presentazioni del libro già programmate “saltavano”, con imbarazzate non-giustificazioni dei Don Abbondi di turno, e sui social gli sciacalli impazzavano contro di lui. Come scrive Faso,

Ognuno è responsa­bile delle proprie interpretazioni discutibili, autore compreso; ma non è stato lui a inquinare il dibattito in partenza con re­azioni scomposte e insinuazioni personali, al contrario di chi scrive di una “partecipazione corale all’assalto da parte di diversi esponenti della fu Lotta continua” (l’unico “esponente della fu Lotta continua” è Sofri, che ha solo scritto una recensione), di chi promette che “brinderà” quando “un giudice non si berrà la storia del romanzo. Anzi, potrebbe essere un’aggravante” e di chi si chiede “già, chi vuol mettere le mani sui beni confiscati?”, come se Rastello appartenesse a qualche lobby talmente potente da poter scalzare Libera. Tutto questo ha ostacolato un dibattito costruttivo su argomenti etico-politici fondamentali e sulla forma concreta con cui venivano affrontati nel romanzo.

Faso dubita della concreta utilità di alcune argomentazioni di Rastello a riportare il discorso sul senso del romanzo: il “Don Silvano sono io” – che i distratti recensori non hanno infatti capito – e il tono apocalittico con cui chiudeva la sua replica agli accusatori:

il finale del romanzo, che Gian Carlo Caselli (forse con un rifles­so […] professionale) legge come un’istigazione al linciaggio, è in­vece una metafora che ora posso a cuore saldo applicare a me stesso e ai miei illividiti accusatori: arriva per tutti, immancabilmente, un dies irae. Il mio non è neanche fra molto e io so, con coscienza se­rena e pulita, che il loro sarà peggiore.

La morte, lo sapeva, per lui si avvicinava: e nel dicembre in cui raccontava agli amici che la battaglia medica era perduta, e le spiegazioni richieste all’oncologo (“In concreto, cosa mi succederà?”), relazionava anche gli sviluppi del caso I Buoni. Ma sul punto – che in fondo coinvolge tutto il romanzo – torneremo. Diciamo fin d’ora che le reazioni scomposte degli accusatori confermano il quadro critico evocato nel suo romanzo, e l’urgenza di un grosso esame di coscienza in quel mondo. Che si è invece richiuso sterilmente a riccio: e lucidissime restano le parole di Daniele Giglioli (Per Luca Rastello. Piove all’insù. I Buoni) che Faso riporta a proposito delle critiche aggressive di Caselli e Nando Dalla Chiesa.

I Buoni, di nuovo un lavoro sulle parole e il loro utilizzo, si articola in tre parti con tre personaggi come focus (Andrea in L’uomo dal paradiso, Aza in Scuola di empietà e Adrian in L’uomo dall’inferno), in moto idealmente inverso alla Commedia dantesca. Dal sottosuolo da incubo di Bucarest oggetto di un vecchio reportage di Rastello, ed esplorato qui dal giornalista e “operatore umanitario” Andrea Vitaliano, si passa al panorama delle sue mitologie rassicuranti, delle buone intenzioni che non recano aiuto sostanziali ma una smaccata autolegittimazione, e soprattutto a una lingua “maledetta perché riesce a persuadere in modo magico non solo la destinataria, ma anche l’emittente (‘Ci crede mentre lo dice’)”: laddove Aza, che in quel mondo vive e ascolta le promesse di lui, lo richiama vanamente alla responsabilità delle parole, “che per essere tale deve essere non intermittente”.

E quando lei si presenta nella città di Andrea (non menzionata, come peraltro prima Bucarest, ma riconoscibile come Torino) e viene avvicinata dai suoi partner – prima Mauro e poi lo stesso Andrea – alla onlus In punta di piedi, poi abbreviato I piedi, del carismatico don Silvano, si renderà presto conto che l’apparente paradiso è in realtà un’azienda spregiudicata, dove “per avere risultati bisogna sporcarsi le mani”. Rastello ha in mente l’evoluzione che nella Torino postindustriale degli anni Ottanta conduce molte organizzazioni del sociale a trasformarsi in aziende per mantenersi e competere in un mercato che dispone di poche risorse. Con un’istituzionalizzazione della relazione di aiuto alla base dell’azione solidale organizzata che evolve in relazione di potere trasformando cittadini in utenti, e traghettando a due riforme occulte: quella del welfare privatizzato, e quella del lavoro, con la decostruzione dei diritti del lavoro dipendente. E senza controlli, perché il prestigio morale dei Piedi vi rende possibile una serie di brutture. Il fatto è che “nel sociale si può tutto”, il dissenso è represso tra lusinghe, manipolazioni dei sensi di colpa e aggressioni verbali (e qualche volta fisiche) e l’omertà è imposta per timore di ritorsioni.

Aza stessa – ribattezzata Lea dal Grande Capo don Silvano – impara che nel gruppo vi sono due codici diversi, uno palese per gli illusi, l’altro occulto per chi sale nella piramide e “rende peccatori. Dunque perdonabili. E attraverso il perdono il capo ti possiede. È solo a quel punto che fai davvero carriera. Altrimenti sei una meteora”. Da cui un atteggiamento di dissociazione dei piani (Faso cita il distinguo tra codice “posizionale” e “proposizionale” studiato da Alessandro Grilli) che sarebbe inadeguato definire ipocrita: “i personaggi dei Buoni sono since­ramente convinti della necessaria dissociazione dei ‘due piani della realtà’”, quello buono dove tutto è innocente e l’altro dove tutto è lecito perché si parla di organizzazione e soldi. Insomma le parole, ancora.

Tanto più che il codice palese con le sue mitologie plasma “la forma del mondo”: come commenterà lo stesso Rastello,

(q)uesta manipolazione retorica dei linguaggi che diventa costru­zione sociale della realtà è uno degli aspetti che più mi interessava affrontare nel romanzo.

Io creo la realtà dominando il linguaggio. In tutte le comunità chiuse, non importa se profit o non profit, in tutte le comunità “fi­nalizzate”, la costruzione sociale della realtà attraverso il linguaggio diventa costruzione totalitaria.

Attraverso un’intera biblioteca di letture tra cui brilla ancora una volta Furio Jesi (in particolare Cultura di destra): i valori di don Silvano e dei suoi accoliti sono quelli che Jesi definisce “linguaggio delle idee senza parole”, cioè quello che dice e insieme cifra in simboli, non importa quanto poveri e stereotipati. E in riferimento a tutto un linguaggio sciattamente retorico – che Rastello conosce da anni di frequentazioni del terzo settore, non solo del Gruppo Abele – ecco fornirne ironicamente un piccolo prontuario:

Aza scrive, impara, conserva, dosa: […] non dimentica di spor­carsi le mani, metterci la faccia, mettere testa, di non tirarsi indie­tro, senza se e senza ma, e di guardare avanti, costruire futuro, speranza, e la memoria che si fa impegno, a piccoli passi ma con molta forza, e la fatica, il cammino, il primato della persona, soprattutto la condivisione, un cammino di condivisione, condivisione da co­struire, senza se e senza ma, appunto, e il morso che ti permette di lavorare senza stipendio, la frusta dell’oltre, e sì, anche il passo lento del montanaro, e i muri che parlano e restituiscono memoria, dalla sede dei Piedi e dai beni confiscati, e soprattutto la legalità, e sempre la memoria.

Parole-chiave che diventano feticci: e se già in La guerra in casa si sviluppava il tema dei “pericoli della memoria che instaura diritti proprietari sul passato”, anche qui troviamo una “legittimazione identitaria nel culto del passato e nel culto dei morti”. Qualcosa che entra in un sistema più ampio di comunicazione social:

Sarebbe semplificante ridurre tutto ciò al kitsch della comu­nicazione massmediatica; al contrario, “poiché si tratta di mani­polazioni e tecnicizzazioni”, sono “operazioni con precisi fini […] politici”: da una parte, costruiscono “un’ideologia e un assetto ben definito di rapporti sociali”; dall’altra si pongono come una “di­dattica esoterica” che fornisce fini superiori in cui credere […].

A capo, come ben lo delinea Giglioli in Critica della vittima, spicca una “delle figure sociali sempre più diffuse nella politica contemporanea, il leader (vittimista) delle vittime”, che brandisce un vittimismo ricattatorio per sfruttare un legame emotivo tra parti dagli interessi diversi: fondamentale a quel punto l’individuazione di un nemico di cui dichiararsi vittime.

“Al feticcio della memoria proprietaria e vittimista si affianca il feticcio della legalità”. Questa dovrebbe essere un utile metodo, una procedura sana ma non un valore in sé (che è piuttosto la giustizia, da essa concettualmente ben distinta): altrimenti per esempio lo stato nazista, fortemente legalitario, sarebbe stato un’epifania di equità. Ma il paradosso della feticizzazione della legalità a tutela delle gerarchie del gruppo è che

sono i Piedi stessi a non rispettarla con lo sfruttamento lavorativo e con la prevaricazione verbale e fisica dei sottoposti; appena qualcuno lo fa notare, se va bene viene insultato con epiteti come ‘sindacalista da stracci’ (B, p. 139) e se va male viene picchiato, come Luciano quando insiste nel richiedere la regolarizzazione della sua posizione lavorativa.

I valori esonerano da responsabilità, e in loro nome si può esser pronti a falsificare i dati reali: e la scena di don Silvano che si trova costretto a scrivere (far scrivere da Aza) a Luciano “per indurlo a ritirare la denuncia a suo carico […] diventa il miglior esempio di come il narratore vivisezioni le tecniche discorsive di falsificazione della realtà”. Con un profluvio di virgolette “ironiche” che richiamano quanto scritto da Victor Klemperer sul loro utilizzo in LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo (Giuntina, 1998), “per ‘insinuare dubbi sulla veridicità’ e far ‘apparire menzogna l’affermazione riportata’”.

La manipolazione del passato si accompagna alla manipolazio­ne del presente, resa possibile anche da chi si dovrebbe opporre ad essa ma manca di quella precisione che, come abbiamo visto, secondo Rastello è necessaria a decostruire i discorsi che alterano la realtà.

E i “dialoghi vivisezionano le buone intenzioni dei membri di In punta di piedi, perché rivelano con crudezza quali rapporti di potere vengono legittimati dall’ordine del discorso vigente”: delusa e impotente, Aza sceglie di voltare le spalle e sparire nel nulla.

Lasciando comparire Adrian, L’uomo dall’inferno, “a cui è rimasta solo la Bibbia per interpretare il mondo che gli sta intorno: per questo si attacca ad essa in modo monomaniacale”. In particolare alcuni libri anticotestamentari – il libro di Ezechiele – hanno fornito lingua a questa parte del romanzo: e le lotta dell’ex-bandito Adrian contro l’idolatria lo vedrà andare in collisione coi feticci di don Silvano e dei suoi accoliti. “Anche queste caratteristiche di Adrian trovano riferimenti pre­cisi in Cultura di destra di Jesi: la violenza e l’integralismo religio­so del protagonista ricordano quelli dei legionari della Guardia di Ferro, romeni come lui”. Attraverso vari dialoghi, Adrian cerca di capire: ed escogita alla fine una soluzione che però risulta fallimentare – torniamo alla categoria del fallimento in Rastello – perché magari elimina don Silvano, ma non la sua macchina mitologica.

Faso aveva anticipato la valutazione che I Buoni sia “significativo per la resa formale e per i temi affrontati ma forse meno riuscito come romanzo”, e a questo punto giustifica la sua valutazione (di preziosa pacatezza, va detto):

La finzione romanzesca di Piove all’insù era riuscita a mesco­lare la storia pubblica con la vita particolare del protagonista; la dialettica fra tempo circolare e tempo lineare aveva permes­so un’apertura a spirale verso il futuro, invece di una chiusura del cerchio con una giustizia poetica che ricorda certi finali di Quentin Tarantino; lo stile sobrio si valeva più dell’alternanza di narrazione e riflessione che di uno specifico tono del rac­conto, che per quanto sostenuto rischia di cadere nella mo­notonia; la chiarezza, nella sua dialettica con l’oscurità, per­metteva una produzione di senso che apriva il campo a diverse opzioni, proprio perché non si poneva come definitiva. Nei Buoni, invece, l’intonazione profetica polarizza la contrad­dizione fra chiarezza e oscurità: in questo modo il narratore rende lucido e inequivocabile il suo giudizio sui personaggi, ma sacrifica le possibilità romanzesche che emergevano dal chiaroscuro di Piove all’insù.

E un ulteriore motivo di debolezza starebbe nella “postura sdegnata del narratore”, visto che “la dizione aforistica si esaspera in un continuo sarcasmo che smaschera il Male peggiore, cioè quello coperto dai valori superiori”. La voce narrante

non si ferma all’obbiettività che sarebbe richiesta a un etnologo, ma sceglie a sua volta la crudeltà: l’analisi diventa giudizio satirico, la decostruzione diventa vivisezione; in questo modo il narratore si pone come un divoratore crudele che solo dopo aver fatto a pezzi il corpo discorsivo di una collettività malefica può inghiottirlo, cioè raccontarlo, nel proprio corpo discorsivo: “la crudeltà del divoratore stinge preliminarmente sul cibo, che altrimenti non gli riuscirebbe appetibile” [cfr. F. Jesi, Il tempo della festa].

Il genere romanzo,

nel suo sviluppo moderno, si è interessato “più di capire che di giudicare”, e quindi “di commedia piuttosto che di satira”; nei Buoni, però, questo “processo di transizione da satira a romanzo” sembra essersi bloccato al suo primo stadio:

e laddove il narratore-protagonista di Piove all’insù nell’interpretazione della realtà aveva fatto i conti con i propri limiti, la voce narrante de I Buoni “subordina la comprensione della realtà al giudizio spietato su di essa”. Il tutto, con un montaggio del testo che nel primo caso conciliava complessità e chiarezza, nel secondo intricava la lettura tra dentro e fuori romanzo (intendendosi con ciò anche gli autocommenti dell’autore) con un continuo ancoraggio alla realtà empirica che produce anche effetti testuali. Al rischio di restare troppo attaccato all’attualità vorrebbe fare bilanciamento l’intonazione profetica con l’apertura a temi di portata generale e forse universale, ma tale postura “monopolizza il tono della narrazione e rischia di opprimere il racconto con la condanna dell’oggetto della rappresentazione”.

La satira: vero, come accennato, chi conosceva Rastello ricorda una certa dimensione di beffa, diciamo pure di risata, che lui sapeva ben iniettare anzitutto nella serietà della vita (Madame Problema compresa: nella Lettera alle pulci in forma di testamento parlerà di “Quella vita per cui mi sono sempre sentito fortunato, per cui la sera mi veniva da ridere – anche nei momenti infernali – ed era pura gioia”) e poi anche nella scrittura. Il suo amore per Tolkien – radicato in letture di quegli anni Settanta in cui Il signore degli anelli era noto come “la bibbia degli hippie” prima dell’imporsi dei tentativi di espropriazione da parte di una vulgata falsante e becera dell’estrema destra pre-meloniana (alcune parole di lei su Tolkien sono indicative di una lottizzazione che nulla c’entra coi contenuti reali) – gli faceva certo ricordare l’episodio in cui Galdalf, con una risata, spezza l’incantesimo di Saruman. Di fronte al potere e alle sue magie (quella della parola sopra ogni altra), il beffardo Till Eulenspiegel di Torino risponde coi suoi mezzi, trasformandone la retorica in filastrocche e mostrandone la bieca dis-sacertà – l’empietà citata nel testo –, contro ogni paludamento. È il buffone che a esso si ribella (consideriamo che gli attacchi siano venuti da posizioni di potere e relativi cortigiani), non per cooptare spazi – come altri intellettuali della piazza, grandi narcisi sempre con la paletta alzata dell’io, io, io – ma in funzione di libertà. Salvo constatare raggelando di essere stato lui pure partecipe dell’empietà: ecco la vergogna – che altri, a differenza di lui, non conoscono, ignorando un intero ventaglio di redde rationem che prelude persino a qualunque esito metafisico. Che, vorrei dire, prelude persino al dato di bilanci di fine vita, di una “Pallida mors [che] aequo pulsat pede pauperum tabernas regumque turres”: infatti quando sentiamo registrazioni o leggiamo interviste gonfie di retorica dei buoni e dei loro cortigiani, grazie al lavoro di Rastello quelle parole rivelano echi diversi, incespicano, esplodono in chiazze d’unto. Dunque I Buoni è satira? In qualche dimensione sì, ma il lavoro sulle parole è troppo sapiente e sottile per ridurre il risultato a elegante pasquinata. La costruzione del tutto è genuinamente letteraria, a partire dal gioco di ambiguità in scena, dal rondò di poteri che si rapportano, si inanellano, a volte si scontrano.

E infatti,

(n)onostante tutte le sue imperfezioni, I Buoni non cede al “ricatto della proposta” (B, p. 117) per concentrarsi sulla pars destruens della forma di vita, cioè del “complesso di norme divenute habitus”, dell’azione solidale organizzata. Se eccede in crudeltà appesantendo il tono del romanzo, almeno la vivisezione non si rovescia nella consolazione di un lieto fine e lascia la pars construens ai lettori che preferiranno altre forme di vita. Per quanto possa essere attrezzato dal punto di vista letterario o ideologico, uno scrittore non può produrre una nuova prassi etico-politica o trasformarne una vecchia da solo: se si vantasse di avere la soluzione pronta sarebbe l’ennesimo mitografo.

Si possono condividere senz’altro le perplessità e l’analisi di Faso: la domanda che possiamo porci è sul perché Rastello, ben consapevole della maggiore solidità di altri sistemi di costruzione della voce, abbia scelto per I Buoni un registro tanto distante da quello di Piove all’insù. Le risposte possibili potrebbero essere varie.

Anzitutto il dato contingente – maledettamente serio – del tempo che gli sfuggiva dalle mani e dunque di un senso di urgenza che non permetteva il lunghissimo, complessissimo lavoro di cesello condotto sul primo romanzo. Intendiamoci, l’autore restava un perfezionista e probabilmente per quello ci resta tanto poco del romanzo che stava scrivendo alla fine, Dopodomani non ci sarà: la fretta non gli permetteva uno stile frettoloso. Ma un parallelo tra I Buoni e il primo romanzo si impone. La distanza tra Piove all’insù come uscito in libreria e la protoversione condivisa con amici anni prima era assai marcata: non solo il testo è stato asciugato drasticamente (in parte per riconsiderazioni autonome dell’autore, in parte per i consigli dell’editor) riducendone di molto la lunghezza ed eliminando/unificando personaggi e storie, ma sono cambiati anche alcuni toni (per esempio, alcune sfumature di incertezza sono state “risolte” con una voce più netta). Nel caso invece de I Buoni, il testo condiviso coi protolettori era molto simile a quello poi uscito – anche perché, va detto, l’autore si era a quel punto smaliziato parecchio nella scrittura, e gli editor sono certamente intervenuti assai meno.

D’altra parte Rastello pensava a I Buoni da anni. C’è stata una lunghissima elaborazione durante la quale la storia ha preso forma (per molto tempo in termini assai vaghi) raggiungendo in ultimo l’assetto di quella pubblicata. Sembra difficile pensare che a quel punto, tempo stringente a parte, il romanzo potesse svilupparsi come troppo diverso.

La sensazione è in effetti che la minore perfezione come romanzo conduca fuori da un’analisi letteraria in senso stretto. Piove all’insù è stato costruito con enormi ricerche sul passato, con le domande di un panorama storico e una serie di perplessità dell’autore. I Buoni guarda invece alla scottante situazione dell’oggi, e se non userei a cuor leggero il termine “denuncia”, è un fatto che entri a piedi uniti in una situazione che gridava un bisogno di chiarezza. Di questi temi nessuno parlava, per una serie di ricatti retorici che per essere smontati richiedevano una doppia competenza, politica e culturale, e un curriculum inattaccabile. Inattaccabile sul passato, per le esperienze indiscutibili dell’autore, ma – vorrei dire – anche sul futuro, perché il tumore divorante di Rastello (situazione nota, anche se lui non ne ha mai fatto ostentazione) non permetteva ai buoni di attaccarlo troppo apertamente. Gli attacchi ci sono stati, tanti e velenosi, ma chi credeva di riconoscersi doveva mostrare pietas almeno apparente… e soprattutto non suscitare polveroni. La risata, la beffa, li stanava – li ha stanati.

D’altronde proprio quella condizione, il sapersi alla fine, gli doveva far sentire leciti toni che altrimenti sarebbero apparsi sopra le righe. A chi scrive e, mi auguro, a grandi numeri di lettori di questo libro è ignota l’esperienza di trovarsi condannati a morte, con tutte le angosce e fatiche relative per la durata di anni: a quel punto il tono profetico mi sembra non solo concesso ma in qualche misura inevitabile dato il punto di osservazione, e tale da influire sugli assetti normali di scrittura. Questo romanzo è già un testamento, ne echeggia la lingua “solenne”, la forza d’urto (il pensiero va al testamento di Petronio, pieno d’ironia, con cui accusava Nerone demolendone l’immagine): anche per questo ha fatto tanta paura ai buoni. Si aggiunga quanto espresso da Faso nelle Conclusioni:

Credo che con I Buoni Rastello abbia pagato un prezzo molto alto al tentativo di una critica non reazionaria all’“azione solidale organiz­zata”, catechismo e consolazione tutt’ora ritenuti intoccabili da buona parte della popolazione moderata e progressista italiana; il costo di questa sfida si sente nel monologismo esasperato del narratore, probabile espressione della consa­pevole solitudine in cui si trovava l’autore parlando esplici­tamente di questi argomenti.

Tanto più che le grida di dolore di Rastello erano trasparentemente “dall’interno” del mondo solidaristico: non volte dunque – lo si ripete per i duri di comprendonio, o i critici in malafede – a danneggiare l’impegno civile, ma solo a chiedergli un sacrosanto rigore. A chiedergli non affari spregiudicati ma servizio serio, e autocritica su meccanismi che altrimenti lo ricondurrebbero a sottotipologia di un mero neocapitalismo sregolato.

Proprio pensando senza santini all’uomo Rastello – viscerale, appassionato, ispido, spesso tempestoso nelle reazioni – ne troviamo la voce ne I Buoni senza minuetti o infingimenti: non è più il tempo della diplomazia, e può mostrare il groppo (non lo sterile rancore di cui è stato accusato con meschinità da qualcuno) tenuto dentro per anni in seguito al contatto ulcerante con le storture di varie realtà dell’“impegno”. Tanto più che ormai vede le oscenità evolvere in prassi politica ed economica sempre più diffusa, in abusi delle parole sempre più smaccati. Con tutti i sensi di colpa e la vergogna per aver accettato troppo a lungo simili pratiche e storytelling.

Il che riporta a uno dei nodi del volume: assai più che di vilain più o meno sgomitanti, lui sta parlando di parole. Di artifici retorici, di strategie di conquista degli animi (e delle anime) con un linguaggio che ne I Buoni viene superbamente notomizzato. Quasi come in un saggio, forse più che in un romanzo “classico”: ma con risultati di lucidità rara, ed era questo che gli interessava anzitutto portare alla pubblica attenzione.

Un romanzo formalmente più equilibrato e meno satirico, posto che l’autore avesse tempo e voglia di scriverlo, sarebbe servito meglio allo “scopo”? Sinceramente è difficile dire. Se per Piove all’insù, a fronte di una struttura tanto complessa, alcuni critici non hanno saputo riconoscere che la storia si conclude eccome e altri ne hanno travisato il significato, qui la provocazione doveva essere chiara. Resta il fatto che I Buoni è un romanzo – non il migliore dell’autore, si può serenamente concordare, ma ricco e intelligente, lucidissimo e per qualità di scrittura non esauribile in una mera satira – che guarda all’esterno della macchina narrativa in un modo molto particolare. Accordandosi in questo ad altre opere “strane” degli ultimi decenni, oggetti narrativi non identificati eccetera. Le recenti parole di Goffredo Fofi sul “Corriere del Mezzogiorno – Campania” 28 aprile 2024 confortano questo tipo di analisi.

I suoi nemici contavano del resto sul fatto che la voce di Rastello si spegnesse rapidamente e un sipario venisse tirato sul suo lavoro: l’ottimo testo di Faso e la quantità di iniziative in memoria dello scrittore stanno mettendo in scacco tali aspettative.

Le Conclusioni sono avviate da una citazione da Dopodomani non ci sarà, o meglio da ciò che ne resta: un moncone, che non lascia presagire quanto il risultato concluso sarebbe stato, come I Buoni, esplosivo (e altri, diversi buoni non sanno di potersi asciugare la fronte per il sollievo della mancata uscita). Scrive Faso che nella scrittura di Rastello

la mediazione della narrativa non è né una menzogna dilettevole né un ricorso all’immagina­rio da parte di chi non sa essere pragmatico; al contrario, come scrive Adorno della mediazione dialettica, essa è “il processo di risoluzione del concreto in sé stesso”: nell’indagine della vita particolare la letteratura diventa una “conoscenza veramente allargante”, perché “indugia presso il singolo fenomeno finché, sotto l’insistenza, il suo isolamento si spezza” e coltiva in sé “la duplice e simultanea esigenza di lasciar parlare i fenomeni come tali – il ‘puro osservare’ – e di tener presente ad ogni istante il loro rapporto con la coscienza come soggetto”.

[…] I Buoni risulta non riuscito appieno proprio perché la crudel­tà della critica ha preso il sopravvento sulle opzioni della me­diazione narrativa. Forse anche perché Rastello, in quel libro, sembra essersi convinto, con Adorno, che “non si dà vita vera nella falsa”, cioè che non ci sia redenzione possibile di un’esi­stenza individuale e sociale così mistificata dal Male; il resto della sua opera, invece, anche quella postuma, tiene ferma l’e­sigenza che ha portato Fortini a correggere Adorno: “non si dà vita vera se non nella falsa”. È lo stesso Rastello a scrivere che la “tensione alla verità” portata dalla precisione “ha i caratteri di un’utopia, di qualcosa a cui si può soltanto tendere, a cui ci si può tutt’al più approssimare all’infinito” […] Chi conosce soltanto “la forma del vero e non quella del necessario” è capace di un’opposizione radicale, ma è destinato al fallimento davanti alla complessità morale dei suoi simili.

Negli altri libri Rastello ha preferito rappresentare personaggi “relativi”, capaci di cambiare dopo i fallimenti cercando fra il vero e il necessario la mediazione del possibile e rinunciando alle proprie convinzioni narcisistiche: alla debolezza biologica e al male sociale non rispondono con un collasso nel nichilismo, ma “trasformando il proprio principio di individualità in un luogo di raccolta” dei tu incontrati quasi per caso, vivi e morti, la cui singolarità ricorda il loro “inscalfibile diritto di residenza […] nella vita”. Non eroi che “oppongono un no radicale alla ‘prosa del mondo’”, ma “figuranti” disposti alla “negoziazione con l’esistente” […]

Siano essi i testimoni reali della Guerra in casa, i genitori ro­manzeschi di Piove all’insù o le diverse persone incontrate in Undici buone ragioni per una pausa, queste “approssimazioni d’uomini” vivono nella prosa del mondo e insieme le resistono con scelte responsabili, spesso non rivendicate, che permettono loro di prendersi cura delle relazioni con gli altri. È la vivisezio­ne che il narratore compie su sé stesso e sulle rappresentazioni date a permettergli di interpellarli e riscoprirli.

E conclude:

la canonizzazione postuma da tanta parte di un mondo editoriale e accademico che ai tempi ave­va isolato Rastello, era rimasto indifferente o aveva alzato solo una timida difesa nei suoi confronti, suona più come un modo (inconscio o meno che sia) per legittimare i superstiti, piutto­sto che per fare i conti con un’eredità esigente; lo stesso libro che state leggendo non sarà esente da questi rischi. E forse an­che per questo la ricezione migliore dell’opera di Rastello si trova più fuori da quel mondo che dentro: nella compagnia del Teatro Patalò, che dal 2020 porta in giro per l’Italia una lettura scenica di Dopodomani non ci sarà, commovente perché capa­ce di riprodurre sul palco la sobrietà stilistica del testo; negli operatori sociali che, identificandosi nei discorsi di Rastello, hanno messo in discussione il proprio attivismo e i gruppi di cui facevano o fanno parte; nelle testimonianze di familiari e amici raccolte nel documentario Un passo più in là, in cui si può vedere e sentire quanto la conoscenza di Rastello abbia segnato le loro vite; nelle parole del profugo bosniaco Samir Zenkić che si trovano nel retro di copertina di Dopodomani non ci sarà: “Se salvi anche uno solo salvi tutto il mondo. E pensa a quante vite ha salvato Luca. Finché ci saranno persone come lui esisterà il mondo”.

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