Cronache dal dopo vita

di Giovanni Iozzoli

[In occasione dell’uscita del nuovo romanzo di Giovanni Iozzoli, Cronache dal dopo vita (Jack Edizioni, 2024), si riporta un breve stralcio, ringraziando l’editore per la gentile concessione. g.i.]

“Beniamino l’aveva spiegata bene. La gente era cambiata e l’essenza di quel luogo era indecifrabile, per uno come me, diventato sostanzialmente forestiero. Nonostante però una inevitabile atmosfera di decadenza – dovuta anche alla grande crisi dell’agricoltura dell’agro e a un certo sfaldamento della comunità che si respirava nell’aria – Frusciano non era in preda al degrado, come altri paesoni vicini.  Non era seppellita dai rifiuti, i cornicioni svirgolati non crollavano sulla testa dei passanti, non si registravano percentuali vertiginose di abbandono scolastico. Forse per le sue dimensioni – troppo piccola e tutto sommato poco appetibile -, Frusciano aveva resistito alla malefica forza di attrazione della megalopoli, non era ancora stata assorbita nella vasta fascia gravitazionale dell’hinterland napoletano.

– Ste’, te lo ricordi Michele?

– Chi?

– Michele o’ Poeta.

– Perché me lo chiedi?

– Così, mi è tornato in mente. Che nostalgia. Qualche volta arrivava fino a qua, si infilava pure in chiesa. Ogni tanto recitava per un pubblico immaginario, sulle scale della Madonna Ausiliatrice. Povero Michele.

Certo che me lo ricordo. La persona più savia del paese. Si aggirava per la campagne, povero poeta ignorato e vilipeso, nel ’74 o nel ’75, con i capelli sporchi e i vestiti laceri, e le braccia aperte, come a catturare l’aria, e si crogiolava in mezzo all’odore di verderame: questo, questo è il ventre del mediterraneo, questo è il ventre caldo d’Europa, questo è l’ultimo pezzo di cervice della Magna Grecia, questa è la terra del fecondo segreto, urlava ridendo; e roteava su se stesso come un derviscio, mentre gli zappatori lo irridevano bonari – Michè, va ‘a faticà – e lui si beava nel vedere le loro pose languide e naturali, appoggiati a una zappa o a un bastone, come tanti modelli naturali di arte figurativa sfuggiti a un museo. E loro non capivano l’importanza di Michele, il pazzo poeta che ogni paese deve avere, e la loro stessa importanza, la loro postura gloriosa in quella specie di presepe di Capodimonte che stava sgretolandosi sotto il sole dei giorni impietosi. La Campania infelix stava divorando i residui brandelli di Magna Grecia, e Michele piangeva e rideva, per essere l’ultimo, anzi l’unico testimone consapevole di quel ritiro, di quella mollezza.

Beniamino mi racconta gli ultimi frammenti della sua storia, che io non potevo conoscere.

Michele fu oltraggiato da un TSO verso la metà degli anni 80. Aveva rubato un coniglio da una gabbia e pretendeva di liberare anche un grosso maiale di un agricoltore suo vicino, che lo conosceva da quando era piccolo. Tutti erano disposti a sorvolare sulle sue mattane, sui suoi schiamazzi, ma la roba no: non la doveva toccare.

Rimase recluso per un periodo di alcuni mesi e quando uscì non era più lucido, nè autosufficiente – ma qualcuno sostiene, ancora più ferocemente poeta. Non sembrava più in grado di raccogliere i suoi versi, almeno un minimo, in modo precario e provvisorio, com’era abituato a fare prima della sua “malattia”. Non scriveva. Anzi non declamava neanche. Adesso la poesia era diventata la sua natura, il suo gesto, i suoi vestiti lisi, i suoi capelli sporchi. Non si poteva separare la poesia da o’ Poeta. Non la si poteva distillare.  Forse un grande pittore – anch’esso rigorosamente pazzo – avrebbe potuto catturare qualche lampo di luce, negli occhi verdi di Michele – e quello era il massimo che avrebbe potuto concedere. Ma dove lo si poteva trovare un pittore pazzo che ritrae un poeta pazzo, nei tempi amari di fine anni 80, in mezzo alle campagne fruscianesi in dismissione?

– Michele, una volta al mese, andava a trovare tua zia. Una volta al mese.

– Che ne sai tu?

– Io so tutto. Anche troppo, so. Per quello ogni tanto sto male. Sapessi meno, vivrei meglio.

– Che andava a fare da mia zia? Lui era un beat di campagna. Che c’entrava cu zi’ Pasqualina?

– Lui era un illuminato. Vedeva le cose che noi non vediamo. Perciò scriveva poesie. Forse andava da tua zia perché sentiva che era come lui.

Me lo immagino, Michele. Tutto stracciato e puzzolente, con una scarpa sola, che va a bussare al basso di Pasqualina Iovene. E lei gli apre, sorride e non dice niente. Michele si siede sul gradino basso della soglia, a grattarsi e guardare il cielo ancora azzurro; lei esce cu na’ tazzulella e ‘cafè in mano e si siede anche lei, sulla vecchia sedia impagliata; e non si parlano, non si guardano neanche – Michele scrive le sue poesie nell’aria, con il dito. Poi fa un segno a Pasqualina, che sorride e capisce al volo: e stavolta esce con un bel bicchiere di vino.

– Chi li ha visti ha detto che non parlavano mai. Tua madre non lo voleva, là intorno. Una volta l’ha anche cacciato con la scopa, perchè puzzava troppo. Ma lui, prima o dopo tornava. Anche diversi cani randagi facevano così. Lei dava sempre qualcosa a tutti.


In pieno XXI secolo, dal cimitero di un paesino rurale della Campania, all’improvviso scompare il cadavere di una vecchia signora morta in odore di santità negli anni ’80 del secolo precedente.

Inspiegabilmente, intorno a quella fossa vuota cominciano ad aggirarsi personaggi improbabili e inquietanti: vecchi capicamorra, ulema iraniani, malati disperati e devoti squinternati. E anche un lontano nipote, affascinato dalla scomparsa e dalla vita imperscrutabile di quella stramba parente.
Sembrano tutti a convegno intorno alla fossa vuota; tutti alla ricerca di qualcosa che ha a che fare, in un modo o nell’altro, con il corpo occultato di Pasqualina Iovene, mistica e veggente di un mondo che forse non c’è più, ma che fatica a scomparire del tutto.

Tra campagne esauste e periferie tristi, questo è il racconto del viaggio di un uomo solo in un’Italia insondabile, che custodisce tante disillusioni e qualche vecchio mistero.  

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