di Sandro Moiso
Diego Gabutti, Evasioni. Spillane, Adorno, Cocco Bill e altre torte con la lima, Milieu edizioni, Milano 2024, pp. 240, euro 17,90
Per chi scrive è sempre un piacere recensire un nuovo testo oppure, come spesso capita, una nuova raccolta di testi di Diego Gabutti. Soprattutto in questo caso, visto che i primi dodici capitoli (su 32 complessivi che compongono l’opera) erano già comparsi su Carmilla on line nella serie “Esperienze estetiche fondamentali”.
E’ un piacere, infatti, occuparsi di un autore che ha fatto del rimescolamento “pop” della cultura alta e bassa del Novecento il suo tratto distintivo, sia quando si tratti di recensire un libro oppure di intervenire, quasi sempre, in maniera leggera e intelligente su argomenti generali della politica e della società attuale. Elemento distintivo poiché, nonostante gli sforzi di rinnovamento messi in atto da molti media e intellettuali mainstream nei confronti di ambienti culturali che definire asfittici (a destra, a sinistra e al centro) è ancora soltanto un eufemismo, il presunto rinnovamento risulta essere quasi sempre di facciata, in super bonus 110% style, più simile ai classici “sepolcri imbiancati” e niente affatto paragonabile all’arguzia e alla vivacità dello sguardo del giornalista torinese.
In quest’ultima opera, per la prima volta insieme, sono presenti due cardini essenziali dell’universo gabuttiano: Amadeo Bordiga e Indro Montanelli. Due personaggi agli antipodi l’uno dall’altro, anche se entrambi appartenenti ad un’epoca decisamente ”altra” rispetto all’attuale, ma che si sono intrecciati, quasi ineluttabilmente, nel percorso culturale e di vita dell’autore.
Secondo la stessa testimonianza di Gabutti, infatti, Montanelli lo invitò a scrivere per la pagina culturale del Giornale proprio dopo aver letto il suo romanzo Un’avventura di Amadeo Bordiga, pubblicato per la prima volta nel 1982 dalle edizioni Longanesi e più recentemente riproposto proprio da Milieu (2019). E ad entrambi dedica pagine in qualche modo riconoscenti e critiche allo stesso tempo; una critica che, però, è comunque stemperata da un certo grado di ammirazione per la capacità di tutti e due gli autori di creare propri universi narrativi e un proprio linguaggio (storico, politico o giornalistico non importa) capace di dar vita a fantasmagorie letterarie capaci di raccontare la realtà superandola oppure, come capita spesso, semplicemente accantonandola.
Bordiga e Montanelli, circondati da un universo pop-politico-letterario che soltanto nelle pagine di Gabutti si può ritrovare, in mezzo a personaggi (veri e immaginari) come Pecos Bill, Lemmy Caution, André Malraux, Philip José Farmer, Theodor Adorno, Tex Willer, Léo Malet, Jorge Luis Borges e così via (chi più ne ha, più ne metta), appaiono comunque come due maestri di scrittura per il nostro. Nonostante le loro cattive frequentazioni politiche, a giudizio dell’autore: il comunismo novecentesco per il primo e il fascismo storico per il secondo.
Bordiga, che viene prima di Montanelli nell’indice (da pagina 110 a 116 l’uno e da pagina 163 a 170 l’altro):
Come Frank Kane, di cui abbiamo parlato all’inizio, e come altri vecchi autori di pulp, è stato dimenticato, insieme ai suoi personaggi ricorrenti, gli eroi e i villain, le dark ladies: Lenin, Engels e Marx, Gramsci, il proletariato, la Storia, il capitale, la rivoluzione socialista. Come Lester Dent, che aveva per eroe Doc Savage, l’«uomo di bronzo», fisico da culturista e Q.I. einsteiniano, anche Bordiga aveva il suo eroe mascherato: il partito storico, o per cosi dire The Masked Historical Party, oggi negletto.
Con “partito”, in altri pulp dell’epoca, s’intendeva un eroe collettivo, o meglio corale: non un singolo vigilante ma un’intera folla di raddrizzatorti e di “spaccaculi”, talvolta vere e proprie moltitudini, come nella Cina della Rivoluzione culturale e nelle scene di massa dei Dieci comandamenti di Cecil B. De Mille. Molto più in grande, Bordiga con “partito” intendeva una persona sola, se stesso, e se aggiungeva storico non era per snobismo o per smania di grandezza, benché ci fosse in questo anche un po’ di presunzione e di snobismo, ma per illustrare meglio il concetto: l’eroe dei pulp – spiegazzato, malpagato, solitario, disprezzato, preso a pacchere dagli sbirri e a revolverate dai criminali, mai una stabile relazione amorosa ma giusto un inguacchio ogni tanto, e generalmente per pieta – e non di meno il solo a sapere che cosa sono, nella sostanza, Legge e Giustizia. E il solo a prendersene carico, il solo a conservarne la memoria1.
Una volta servito e liquidato il sogno del comunismo novecentesco, con le sue pretese anticipatorie e le sue risolutive e “scientifiche” indicazioni che non sono, però, mai andate definitivamente in porto nel corso degli esperimenti insurrezionali, Gabutti analizza i tratti del comunista scrittore e la sua intrinseca originalità linguistica.
Gli altri dimenticavano, o se ne fottevano, e talvolta lo ignoravano, oppure fraintendevano quel che c’era in gioco, ma Bordiga scriveva storie che ribadivano quelle che lui, raramente accigliato, sempre uno sberleffo sulla punta della penna, chiamava con allegra serietà le Leggi della Storia: due parole chiave che si lasciava sciogliere in bocca come cioccolatini. Gli davano del «teorico», ma naturalmente non lo era. Era un romanziere, specializzato in storie d’avventura, non diversamente da Dan Barry e Rafael Sabatini. […] Circondato da vecchi e giovani “compagni”, come si chiamavano tra loro, il vecchio trottatore era gentile con tutti, fingeva d’ascoltare con interesse tutte le opinioni, non rifiutava un caffè quando uno dei ragazzi glielo offriva in un bar di Spaccanapoli o di Via Chiaia, talvolta li riceveva in casa [e] costoro erano i principali (diciamo pure gli unici) lettori delle sue storie. Ne erano ispirati come i fan dei Marvel Studios dall’ultimo blockbuster.
Si dicevano l’un l’altro che le storie di Amadeo Bordiga erano la chiave per comprendere gli eventi passati e prevedere quelli futuri. [Ma] Sapevano o almeno sospettavano che il “bordighismo” era un noir, non una dottrina, e che non basta dichiararsi ortodossi per scansare l’eresia. Bordiga li teneva sotto incantesimo. Sedeva davanti a un’Olivetti 22 nella sua bella casa napoletana vistamare e lì inventava le sue storie hard boiled. Scritte in ameno slang partenopeo-marxista, non erano importanti per “cosa” dicevano, come la saggistica barbosa che circolava quando io m’imbattei in un’opera bordighista per la prima volta, ma per come lo dicevano. Sembrava di leggere i romanzi gialli di Carlo Manzoni, compare di Giovannino Guareschi al «Candido» dei tempi d’oro: Che pioggia di sberle, bambola, Un calcio di rigor sul tuo bel muso, Ti spacco il muso, bimba2.
Personaggio talmente “pulp” da far sì, come si è già detto prima, Gabutti abbia dedicato proprio a Bordiga e alle sua avventure il suo primo e più riuscito romanzo. In un vortice di avventure, circondato da personaggi veri e inventati (dall’ammiraglio Canaris a Nero Wolfe), Amadeo, in arte Bordiga, arriverà a confrontarsi con il villain per eccellenza, Josif Stalin, in occasione del Sesto esecutivo allargato dell’Internazionale Comunista, che lascerà come un autentico eroe alla Clint Eastwood oppure alla Bruce Willis in Last Man Standing, dopo aver sconfitto e sbeffeggiato (almeno a parole) il futuro massacratore di comunisti “eretici”.
Ma se Bordiga era, secondo l’autore, importante per il suo saper inventare un linguaggio nuovo (e spesso ironico) per narrare storie che altrimenti sarebbero risultate trite e ritrite, Montanelli invece è apprezzato come autentico inventore di storie e notizie.
Montanelli sapeva raccontare le storie. Non era un pensatore originale né un filosofo e le sue analisi politiche, sempre improntate a buon senso e prudenza, non erano mai particolarmente brillanti. Ma erano ben raccontate, perché Montanelli non soltanto sapeva raccontare le storie ma sapeva trasformare qualunque cosa, anche un ragionamento poco azzeccato e pomposo, in una storia interessante. Una delle cose che mi svelò quando, per un po’, lavorai per lui al Giornale e qualche volta ci capitava di passeggiare e conversare, fu che il giornalismo è fabula, mito, rappresentazione, racconto.
[…] Questo per dire di che materia erano fatti i suoi Incontri e che idea si fosse fatto della Storia d’Italia, la sua più lunga e duratura infilata di best seller. E anche per dire, più in generale, quale precisamente o meglio imprecisamente fosse il rapporto con la realtà del giornalismo classico […]. Non c’è mai stato altro modo di riprodurre la realtà che quello di sceneggiarla e poi metterla in scena, elevandola a racconto drammatico, oppure comico, spesso (ahinoi) disgraziatamente tragico, e trasformandola in pettegolezzo, retroscena, cronaca desnuda della vita privata dei vip, diffamazione o apologia. Non accade per una particolare attitudine del giornalismo alla diffusione di tarocchi e moralismi e lezioncine da terza elementare. C’è anche questo, naturalmente, o non si spiegherebbe il giornalismo italiano degli ultimi trent’anni, dalle storpiature del Fatto quotidiano al tono greve e impettito delle cazzullate. Ma all’origine della fabula c’è in primis la Musa che orienta e ispira le gazzette: una Musa letteraria, che sparge virgolettati nelle cronache e aggiunge descrizioni vivaci e sintetiche al plumbeo succedersi delle osservazioni seriose e delle smorfiose battute di spirito. Fabula, metafora; il resto e insulsaggine.
Per capirci: Moby Dick è una storia, un romanzo, per di più con tratti biblici e metafisici, ma il Capitano Achab, con la sua fiocina, arpiona la realtà e rende conto, sceneggiandola, della condizione umana. […] Idem la Storia d’Italia di Montanelli, tutta aneddoti, in gran parte fantastici. Idem, soprattutto, i suoi Incontri, che stanno alle gesta del giornalismo italiano come Mondo piccolo, di Giovannino Guareschi, e Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, di Carlo Emilio Gadda, alla storia della letteratura nazionale: evergreen, opere destinate a durare. Personalmente, alle eccellenza di Gadda, Guareschi e Montanelli, aggiungerei anche i fumetti di Benito Jacovitti, Cocco Bill in testa, e il comunismo a tre piste, con clown e funamboli, d’Amadeo Bordiga, marxista buontempone 3.
Et voilà, eccola qui, la capacità di raccontare storie come arte suprema, destinata a fondare miti, narrazioni in grado di sfrondare l’esistenza umana dalle derive ideologiche e riportarla alla sua essenza: quella di condividere storie e prospettive (per quanto inventate). La Storia, con la S maiuscola, come insieme di storie e il giornalismo come narrazione di fatti non “veri”, ma verosimili (come avrebbe detto un altro Manzoni, quello degli sposi promessi).
E questa visione, in cui sono i grandi affabulatori ad esercitare il loro fascino su Gabutti4, a rendere credibile la visione della Storia come fabula che difende da tempo. Una storia in cui tutto è caduco, soprattutto gran parte delle ideologie novecentesche come quelle, opposte, rappresentate da Montanelli e Bordiga. Peccato, però, che ancora una volta, con fascismo e comunismo, l’autore si dimentichi di seppellire anche l’altra faccia della medaglia di entrambi, forse ancor più caduca e provata dal tempo: il liberalismo, sempre e soltanto presunto, democratico.
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Amadeo Bordiga in D. Gabutti, Evasioni. Spillane, Adorno, Cocco Bill e altre torte con la lima, Milieu edizioni, Milano 2024, p. 110. ↩
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Ivi, pp. 110-111. ↩
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Indro Montanelli in D. Gabutti, op. cit., pp. 163-164. ↩
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Ma anche sul sottoscritto che ha sempre apprezzato le cronache montanelliane, all’epoca ritenute impubblicabili dal «Corriere della sera», dell’insurrezione ungherese del 1956 (I. Montanelli, La sublime pazzia della rivolta. L’insurrezione ungherese del 1956, Rizzoli Editore, Milano 2006) che costituiscono ancora, nonostante siano rimaste inedite per cinquant’anni, il miglior reportage italiano su quei giorni di rivolta, sangue e speranza. ↩