Il processo di Budapest. Come l’Ungheria sta sfruttando un ambiguo meccanismo dell’UE per dare la caccia agli antifascisti in tutto il continente

La versione originale di questo articolo è stata pubblicata su turningpointmag.org. Traduzione di Emma Purgato.

Il 28 marzo 2024, le strade nei pressi del Palazzo di Giustizia di Milano brulicavano di agenti dei diversi dipartimenti delle forze dell’ordine italiane. La Polizia Municipale aveva mobilitato una pattuglia, parcheggiata a fianco di un chiosco dei giornali. La Polizia di Stato e i Carabinieri erano appostati nelle vie laterali, in assetto antisommossa, nelle camionette dei tipici colori azzurro e blu. Questo scenario non si presenta come particolarmente insolito, in una città le cui strade sono sempre più militarizzate.

Tuttavia, gli agenti in borghese della DIGOS (Divisione Investigazioni Generali e Operazioni Speciali), impegnati a filmare tutto e tutti, fanno intuire che stia accadendo qualcosa di diverso dall’ordinaria amministrazione, durante le ore altrimenti silenziose del primo pomeriggio.

Alcune decine di persone iniziano a formare un presidio di fronte al tribunale. La folla, che conta quasi 60 persone, sta aspettando notizie sul processo a Gabriele Marchesi. “Né prigione né estradizione – Free all Antifas – Da Milano a Budapest”, si legge sullo striscione che due persone stanno appendendo tra i lampioni. Il 23enne Marchesi è accusato di aver assalito due neonazisti a Budapest, in Ungheria, nel febbraio del 2023. Gli inquirenti sostengono che abbia agito seguendo gli ordini di una “organizzazione criminale internazionale di estrema sinistra”.

Marchesi è sottoposto a misure preventive come arresti domiciliari e divieto di comunicazione dal novembre del 2023, istituite in seguito al suo arresto da parte delle autorità italiane per un Mandato di Arresto Europeo (MAE). La Corte di Appello di Milano sta deliberando rispetto alla sua estradizione verso l’Ungheria, dove dovrebbe rispondere alle accuse di un sistema giudiziario progressivamente deteriorato a causa del susseguirsi di governi di estrema destra. Tutti guidati, a partire dal 2010, dal Primo Ministro autoritario Viktor Orbán e dal suo partito Fidesz. In Ungheria, verrebbe condannato alla detenzione per un massimo di 16 anni.

La Corte milanese ha rinviato la decisione sull’estradizione cinque volte, in attesa di chiarimenti da parte dell’Ungheria rispetto alla condizione dei carcerati, lo stato di diritto e l’indipendenza degli organi giudiziari nel Paese.

Quella di fronte al Palazzo di Giustizia di Milano è una scena simbolica all’interno del più grande processo agli antifascisti della nostra generazione. Grande quasi dieci volte il Colosseo, il tribunale di 30.000 metri quadrati rappresenta l’eredità architettonica più significativa, grottesca e minacciosa del regime di Benito Mussolini nel capoluogo lombardo. Progettato nel 1930 da Marcello Piacentini, “il più influente architetto dell’epoca fascista”, l’esterno del foro combina elementi essenziali del modernismo con pompose iconografie romane e citazioni latine sulla ivstitia. Di fronte a questo colossale e minaccioso monumento del regime fascista, viene naturale immaginare che dalle sue porte non sia uscito nulla se non brutte notizie. Gli appelli dei sostenitori di Marchesi rimbalzano sulle impenetrabili, bianche pareti di marmo di Valle Strona, alte 60 metri.

Quando il pomeriggio volge al termine, arrivano notizie: “Gabri è libero!”. Il giudice si è pronunciato in favore di Marchesi, vietando l’estradizione con riferimento al “rischio reale di un trattamento inumano e degradante” in Ungheria, al “rischio concreto di violazione dei diritti fondamentali” e alla “inosservanza del principio di proporzionalità”. I domiciliari e il divieto di comunicazione sono stati rimossi nella stessa sentenza.

La notizia ha detonato una potente gioia tra gli amici e i sostenitori di Gabriele. Tuttavia, la decisione del giudice ha chiuso solo uno degli atti del dramma giudiziario internazionale in corso, il cui fulcro si trova a quasi mille chilometri di distanza, e che è ben lontano da una conclusione.

Una caccia continentale

Gabriele Marchesi è solo una delle 17 persone indagate dalle autorità ungheresi in relazione alle iniziative antifasciste svoltesi l’11 febbraio 2023 nella capitale. Ilaria Salis, una donna italiana proveniente da Monza, si trova in carcere a Budapest da allora. [Dal 23 maggio Ilaria Salis si trova agli arresti domiciliari a Budapest, ndR] Anche altre due persone, entrambe di cittadinanza tedesca, sono state arrestate e portate in carcere dalla polizia ungherese. L’11 dicembre 2023, un antifascista tedesco è stato arrestato a Berlino e la stessa sorte è toccata il 5 maggio 2024 a un’altra persona a Norimberga. Attraverso un meccanismo dell’Unione Europea chiamato Mandato di Arresto Europeo, le autorità ungheresi hanno potuto perseguire altre 11 persone sospettate in tutta l’UE.

Il fatto che il braccio della legge ungherese sia in grado di raggiungere ogni angolo del continente getta una lunga ombra sul futuro degli accusati. Ilaria Salis ha documentato la sua permanenza in carcere nel dettaglio: atti giudiziari non tradotti, interrogatori senza la presenza di un avvocato difensore, penitenziari sovraffollati e infestati di scarafaggi, topi e cimici, malnutrizione… La lista continua per 18 pagine. Questi racconti, inviati per lettera al consolato italiano a Budapest, sono stati in seguito pubblicati attraverso i suoi avvocati.

A febbraio 2024, il caso Salis ha raggiunto una portata internazionale quando le immagini di lei trascinata al guinzaglio dentro un tribunale di Budapest hanno fatto il giro d’Europa. È immediatamente diventata un simbolo di quello che i critici, come l’Hungarian Helsinki Committee, definiscono la natura “crudele, inumana e degradante” del sistema penale ungherese.

“I Mandati d’Arresto Europei diventano problematici quando vengono utilizzati da paesi le cui condizioni detentive sono pessime e dove esiste il rischio che non sia garantito il diritto a un processo equo”, ha dichiarato Rexhino A., uno degli imputati che ha combattuto contro l’estradizione in Ungheria dalla Finlandia. Quando l’abbiamo intervistato, stava aspettando la sentenza della Corte Suprema sull’estradizione, misura che lui percepisce come una persecuzione politica.

“Nella tv ungherese, vengono spesso menzionati i cosiddetti ‘terroristi antifa’, per rafforzare alcune narrazioni e influenzare l’opinione pubblica”, spiega Rexhino. Anche i documenti presentati dalla difesa al processo sull’estradizione sostengono che il caso sia politico, facendo riferimento ai commenti di alcuni membri del governo ungherese su media nazionali e sulla piattaforma X.

Come è tipico nei casi di MAE, Rexhino si trova agli arresti domiciliari con monitoraggio GPS, in attesa del giudizio della Corte Suprema. A prescindere dalla sentenza, il procedimento potrebbe avere già causato effetti di lungo termine sulla sua persona.

“A causa di queste misure restrittive, potrei non avere accesso a determinati lavori che richiedono l’approvazione della polizia o dei servizi di sicurezza”, spiega Rexhino in riferimento agli effetti del MAE e delle relative accuse. Il settore informatico, parti della pubblica amministrazione, il settore della sicurezza privata e le aziende che trattano informazioni sensibili sono esempi di professioni interdette a chi abbia ricevuto condanne penali. Inoltre, in Finlandia, i servizi di sicurezza possono prendere in considerazione anche i carichi pendenti nella decisione di garantire il nulla osta per motivi di sicurezza.

Nei documenti inerenti le accuse e il conseguente MAE non risulta immediatamente chiaro quale sia di preciso l’associazione criminale che unirebbe i 17 imputati in tutta Europa. Il codice penale ungherese (Articolo 459) definisce in modo ambiguo un’associazione criminale come “un gruppo formato da almeno tre persone, stabilito per un lungo periodo di tempo, con un’organizzazione gerarchica, che opera in maniera cospiratoria per commettere atti criminali intenzionali punibili con almeno cinque anni di carcere”.

Per descrivere questa associazione, le autorità ungheresi hanno mostrato filmati CCTV, attrezzi per l’edilizia e altri indizi materiali, nonché una narrazione frammentaria dei fatti avvenuti a Budapest intorno all’11 febbraio 2023. Tralasciando le altre problematiche, è evidente che tale documentazione non dimostri la coerenza tra l’accusa e il criterio del “lungo periodo di tempo” menzionato nell’Articolo 459.

A questo punto, le argomentazioni delle autorità ungheresi diventano circostanziali e difficili da seguire. L’accusa suggerisce (senza fornire prove concrete) che gli imputati, provenienti da diversi paesi europei, facciano tutti parte di un fenomeno regionale sviluppatosi nella Germania dell’Est, battezzato “Hammerbande” dalla stampa tedesca. Traducibile come “banda del martello”, questo nome era stato assegnato a un gruppo di persone perseguite per aver assalito diversi neonazisti negli stati tedeschi della Turingia e della Sassonia, tra il 2018 e il 2020. Il 31 maggio 2023, quattro antifascisti tedeschi sono stati condannati al carcere per aver costituito un’associazione a delinquere con lo scopo di perpetrare queste aggressioni.

Nel processo ungherese, la connessione con l’Hammerbande, corredata da una notevole assenza di prove, fabbrica una narrazione che unisce quanto accaduto nelle strade di Budapest con fatti risalenti a un periodo di tempo più ampio, soddisfando così l’ultima condizione per la definizione di associazione criminale stipulata dal codice penale ungherese.

“È questa la strategia della polizia tedesca e ungherese. È questa la cornice all’interno della quale si vogliono muovere,” spiega Rexhino. “Per giustificare un’operazione su larga scala in tutta Europa, hanno costruito una narrazione che vede una ‘enorme associazione criminale’ diffusa in tutto il continente, il cui obiettivo è picchiare la gente.”

La nozione alquanto peculiare di un’associazione paneuropea il cui scopo è organizzarsi per picchiare la gente va vista alla luce degli eventi dell’11 febbraio 2023 a Budapest.

Una giornata di revanscismo nazista

L’11 febbraio ha luogo in Ungheria la più grande mobilitazione neonazista dell’anno, il cosiddetto Giorno dell’Onore. È una giornata dedicata alla nostalgia del Terzo Reich e al revanscismo in commemorazione della guarnigione Waffen della Wehrmacht delle SS, stanziata a Budapest, e dei suoi alleati ungheresi abbandonati a difendere la città dalle truppe dell’Unione Sovietica. L’11 febbraio 1945 è il giorno in cui il distaccamento nazista ha tentato la fuga provando a rompere l’assedio dell’Armata Rossa, alla fine della Seconda Guerra Mondiale.

L’avvenimento era stato pressoché dimenticato durante il dominio sovietico ed è stato riesumato solo dopo l’indipendenza dell’Ungheria, coincisa con l’arrivo nel paese di una fiorente sottocultura nazi-skin negli anni ‘90. I neonazisti hanno rovesciato la narrazione della conquista del paese da parte di Hitler, trasformandola in un’epica eroica: la difesa dell’Europa occidentale dal comunismo.

“Questa versione non riconosce il fatto che gli eserciti tedeschi e ungheresi abbiano difeso il Terzo Reich di Hitler, ovvero il nazismo e la sua ideologia,” spiega Hunyadi Bulcsú, esperto di estreme destre presso il centro di ricerca ungherese Political Capital Institute. “La commemorazione è partecipata da accaniti estremisti di destra e neonazisti provenienti dall’Ungheria e da altri paesi, come Serbia, Francia, Bulgaria, Italia, Polonia, e, in particolare, Germania.”

Negli anni, il Giorno dell’Onore è cresciuto fino a diventare una delle più grandi mobilitazioni neonaziste nell’Europa orientale, attirando centinaia, se non migliaia, di partecipanti da tutto il continente. Secondo Bulcsú, il gruppo Legio Hungaria, uno dei principali organizzatori, ha stabilito “strette collaborazioni con altre organizzazioni neonaziste e di estrema destra” in molti paesi europei.

A quanto riferito, l’evento è stato attraversato di frequente da gruppi come Blood and Honor, Combat 18 e il Nordic Resistance Movement, così come dalle organizzazioni tedesche Die Dritte Weg e Die Rechte. Ai membri di Blood and Honor è vietato l’accesso a diversi paesi in quanto costituiscono minaccia di terrorismo. Il Nordic Resistance Movement, invece, è stato coinvolto in una serie di attentati in Svezia e messo al bando dalla Finlandia in seguito all’uccisione di un passante durante un evento nel centro di Helsinki nel 2016 da parte di un militante dell’organizzazione.

La commemorazione del Giorno dell’Onore è stata proibita dalla polizia di Budapest da diversi anni, tuttavia il divieto non è stato fatto rispettare in modo costante. In un modo o nell’altro, l’evento viene organizzato ogni anno. Ha avuto luogo anche nel 2024 in una sede privata tenuta segreta. Invece l’Outbreak Tour, il secondo principale appuntamento organizzato per celebrare l’occasione, continua a ricevere il patrocinio statale sotto forma di armi, uniformi, e cimeli nazisti provenienti dal Museo di Storia Militare ungherese, ma anche di trasferimenti di denaro diretti, secondo due recenti interrogazioni poste all’interno del Parlamento Europeo.

“Nonostante i due eventi, e i relativi partecipanti, siano differenti, il messaggio trasmesso da entrambi è lo stesso ed è completamente falso, una celebrazione dell’ideologia nazista,” dice Bulcsù confermando il continuativo supporto statale all’Outbreak Tour. Nel 2023, i due fondatori dell’organizzazione che sta dietro all’evento, Zoltán Moys e Oszkár Kenyeres, sono stati decorati con delle Grandi Croci dell’Ordine al Merito della Repubblica ungherese.

Il Primo Ministro ungherese Orbán è noto per coltivare legami con movimenti di estrema destra dentro e fuori dall’Ungheria. Orbán ha abbracciato la teoria complottista della “grande sostituzione”, plasmandola in una ideologia statale. Secondo Bulcsù, il partito del premier Fidesz è sensibile ai temi di estrema destra e al modo in cui essi risuonano all’interno della società, in quanto perseguono il “totale controllo della destra”.

“Fidesz non affronta apertamente le organizzazioni estremiste e le loro attività sul piano pubblico e politico, ma tenta di ‘delegare’ il problema ad altre autorità come la polizia e i tribunali”, spiega. “Pubblicamente, si appropriano dei temi sollevati dall’estrema destra. Per esempio, alcuni anni fa, i media sotto il controllo di Fidesz hanno dato una copertura con toni molto positivi all’Outbreak Tour e all’idea dietro il Giorno dell’Onore.”

La collusione tra governo ungherese e movimenti di estrema destra ha contribuito non solo a creare un terreno fertile per i gruppi neofascisti locali, ma anche a offrire un porto sicuro a diverse iniziative di respiro internazionale, da tornei di boxe e concerti di suprematisti bianchi, alla casa editrice neofascista multilingue Arktos. Tra queste iniziative figura, naturalmente, anche il Giorno dell’Onore.

Negli anni, la ricorrenza ha visto un aumento dell’opposizione antifascista e di contromanifestazioni. Spesso anche antifascisti da altre città ungheresi, o addirittura dall’estero, convergano nella capitale a ridosso della data. Nel 2023, come di consueto, centinaia di nazisti si sono riuniti al Castello di Buda, sfidando il divieto. Nello stesso luogo, circa 200/250 antifascisti hanno organizzato una contromanifestazione. Mentre gli eventi ufficiali si sono svolti senza grandi tensioni, ai margini si è data una violenza senza precedenti. Tralasciando svariati incidenti legati alla violenza neonazista, i media locali si sono concentrati su quella che hanno dipinto come una serie di blitz da parte di persone mascherate ai danni di nazisti.

Tutte e 17 le persone che le autorità ungheresi stanno perseguendo appartengono allo schieramento antifascista. Sono accusati dei sopracitati attacchi, alcuni dei quali documentati in filmati CCTV, oltre che per aver costituito un’associazione criminale. Questa, a sua volta, sarebbe un’estensione di qualche tipo del gruppo della Germania dell’Est.

I Mandati di Arresto Europei: un ginepraio legale

Ancora prima di iniziare, il processo di Budapest è diventato un punto focale per i conflitti esistenti in Europa, il crescente autoritarismo e il deterioramento dello stato di diritto. Il ginepraio legale internazionale che circonda la presunta associazione criminale internazionale si è trasformato in una serie di processi sui diritti umani, durante i quali è stata messa in discussione la conformità dell’Ungheria con le norme UE in merito.

Un esempio di ciò, ampiamente denunciato dalle piattaforme per i diritti umani, è la riforma portata avanti dal governo Orbán che politicizza il sistema giudiziario del paese. Nel luglio del 2023, l’Ungheria è stata sottoposta a sanzioni disciplinari in seguito a una imbarazzante conferenza stampa in cui i commissari europei hanno fatto di tutto per non menzionare troppo spesso Polonia e Ungheria con i loro nomi durante la presentazione dei rapporti annuali sullo stato di diritto. Il paese è stato condannato dalla Corte Europea per i Diritti Umani (CEDU) per aver non aver perseguito e arginato la violenza fascista, attenendosi agli obblighi internazionali sulla protezione delle minoranze etniche, in particolare del popolo Rom e di quello ebraico.

In seguito al Giorno dell’Onore del 2023, la polizia ha investigato la violenza neonazista in termini di reati molto leggeri, principalmente disturbo della quiete pubblica e lesioni personali. Secondo la brochure informativa della campagna di sostegno a Ilaria Salis, nella vasta maggioranza dei casi riportati, i colpevoli sono stati prontamente rilasciati. Nei giorni immediatamente successivi al Giorno dell’Onore, la questura di Budapest ha tenuto una conferenza stampa diffusa su tutti i canali in cui non è stato fatto trasparire nulla rispetto a tali processi.

La conferenza stampa è stata invece interamente dedicata alla task force composta da 24 agenti messa in campo in fretta e furia per dare la caccia agli antifascisti. Questa unità operativa speciale contava inoltre sul supporto di servizi segreti ungheresi ed esteri. Con l’accusa di associazione a delinquere – che aggrava notevolmente le iniziali accuse di lesioni – Salis, Marchesi e molti altri rischiano fino a 16 anni di carcere.

“L’aspetto preoccupante di questo processo è il salto di livello [di repressione], con l’utilizzo delle accuse di associazione a delinquere contro un gruppo politico e contro persone che portano avanti attività politiche”, spiega Eugenio Losco, l’avvocato difensore italiano di Salis e Marchesi.

Definizioni ambigue di associazione criminale o terrorista sono note per fornire una zona grigia legale a stati autoritari come la Turchia. Questo permette di imprigionare figure dell’opposizione, giornalisti, dissidenti e attivisti in assenza di una chiara motivazione legata alle azioni della persona. Le accuse di affiliazione a un’associazione criminale, o di diffusione di propaganda terrorista, non associano reati penali ad azioni individuali proscritte chiaramente definite. In questo caso l’affiliazione, per esempio, non è definita come nei casi comuni (ovvero l’essere membri), ma può includere qualsiasi tipo di associazione remota o informale, come il contatto telefonico o l’incontrarsi di persona in orari sospetti.

“Quindi tutte le persone che si sono trovate nel gruppo di antifascisti che ha partecipato alla contromanifestazione sono considerate sospette e chi è stato identificato è ovviamente accusato di affiliazione a un’associazione criminale”, continua Losco. Nonostante la sua grande esperienza, l’avvocato difensore sembra allibito, definisce le accuse per associazione a delinquere come ridicole.

Gli inquirenti ungheresi non hanno mostrato alcuna prova relativa alla creazione di quest’organizzazione, la sua struttura gerarchica (richiesta dall’Articolo 459), il registro dei suoi membri o i ruoli degli imputati al suo interno. Di fatto, manca l’evidenza di qualsiasi contatto o connessione a lungo termine tra le persone accusate e anche una descrizione, per lo meno generica, dello scopo, la struttura e il funzionamento dell’organizzazione.

“Non c’è alcun cenno di un’attività investigativa in questo senso nei documenti relativi al processo […]. Quindi esisterebbe un’associazione perché in Germania sono avvenuti dei fatti simili e alcuni tedeschi si trovavano in Ungheria. Non c’è molto altro”, riassume Losco, aggiungendo che alcuni degli antifascisti tedeschi erano stati imputati nei precedenti processi in Germania.

Le autorità ungheresi hanno trovato difficile stabilire una connessione riconoscibile tra gli individui perseguiti e gli atti di violenza perpetrati da assalitori mascherati. Tuttavia, la ricostruzione evidentemente post factum della presunta associazione criminale ha permesso loro di espandere l’azione penale dai presunti colpevoli ai loro associati, nonché ai potenziali associati di questi ultimi. In totale, 17 persone sono indagate per appartenenza ad associazione criminale, alcune si trovano in carcere da più di un anno, mentre altre vivono in clandestinità o nel limbo dell’estradizione, quando non si riesce a dimostrare nemmeno l’esistenza di tale organizzazione.

La direzione presa dall’accusa ungherese è diametralmente opposta agli ammonimenti sulla libertà di associazione, che insistono sul fatto che l’appartenenza di un individuo a qualsiasi tipo di organizzazione non debba essere penalizzata – anche nel caso in cui l’esistenza di tale associazione sia inconfutabile e chiaramente documentata – a meno che l’organizzazione stessa non sia già stata proscritta da un organo giuridico indipendente. Tuttavia, l’utilizzo ambiguo dell’accusa di affiliazione a un gruppo criminale, estremista o terrorista non è una peculiarità dei sistemi turco o ungherese, ma si tratta di una pratica sempre più radicata in Europa, come si è potuto osservare nel caso dei primi processi ad antifascisti in Germania.

“Questa [disputa sulla natura di un’associazione criminale] nasce con tutta probabilità dall’input delle autorità governative e giudiziarie tedesche, che hanno collaborato attivamente nei processi ungheresi”, sostiene Losco.

In Germania, per esempio, non è raro provare l’appartenenza a un’organizzazione terrorista attraverso prove puramente circostanziali, come registri di telefonate e attività politiche legali, per esempio l’organizzazione di manifestazioni, eventi culturali o proteste. Di recente, la condotta delle autorità tedesche ha fatto sì che le Nazioni Unite chiedessero la protezione degli attivisti climatici accusati di associazione a delinquere.

Anche alcuni paesi nordici si stanno muovendo nella stessa direzione. La Svezia lo ha fatto apertamente, per accontentare Recep Tayyip Erdogan in cambio dell’ingresso del paese nella NATO, seguendo così l’esempio della Finlandia. Tuttavia, Losco considera il suo paese natale come il “campione del mondo” nelle accuse di associazione a delinquere.

A causa della sua lunga storia di criminalità organizzata, l’Italia vanta la cassetta degli attrezzi meglio fornita d’Europa per quanto riguarda la soppressione delle associazioni criminali. Losco riporta due esempi di condanne per associazione a delinquere utilizzate per penalizzare l’attività politica: un’associazione milanese che si opponeva agli sfratti e un sindaco calabrese che aveva accolto dei rifugiati nel territorio del suo comune. Secondo l’avvocato, i pubblici ministeri utilizzano anche l’accusa di terrorismo, in particolare ai danni del movimento anarchico, anche se al giorno d’oggi solitamente le corti rifiutano queste imputazioni.

Il vero problema continentale nasce dal fatto che tutti gli stati membri dell’UE sono vincolati dal meccanismo del Mandato d’Arresto Europeo. Strumenti simili, come le Liste Rosse dell’Europol e dell’Interpol, sono state ripetutamente criticate in quanto vulnerabili agli abusi da parte di regimi autoritari. La Turchia, per fare un esempio, è addirittura riuscita a sfruttare il sistema dei Documenti di Viaggio Rubati e Smarriti dell’Interpol per dare la caccia agli oppositori di Recep Tayyip Erdogan.

I MAE, tuttavia, funzionano in modo diverso da altri meccanismi, in quanto si basano sulla supposizione di uno stato di diritto e di uno standard di rispetto dei diritti umani comuni all’interno dell’UE. L’Agenzia UE per i Diritti Fondamentali riassume il funzionamento dei MAE in un rapporto recente: “[Il mandato] deve essere eseguito celermente dallo Stato Membro di esecuzione, senza che esso esamini la sostanza del mandato, nello spirito di fiducia e riconoscimento comuni”.

“C’è pochissimo margine d’azione per la difesa di una persona perseguita con un MAE, perché è impossibile costruire una difesa basata sui meriti dell’accusa”, spiega Losco, facendo riferimento al divieto posto dai MAE per i tribunali di estradizione di esaminare la sostanza effettiva del mandato. Secondo il legale, fino al 90% dei casi di MAE risultano nell’estradizione dell’accusato.

Alla difesa, i MAE permettono solo quella che Losco definisce una “valutazione estremamente generica” sul rispetto dei diritti fondamentali nello stato richiedente. L’estradizione di Marchesi è stata fermata dal tribunale milanese proprio sulla base del rispetto dei diritti umani, ma il meccanismo stesso dei MAE non disciplina la verifica di questi diritti.

Contrariamente al caso di Marchesi, la corte distrettuale di Helsinki non ha mostrato la stessa comprensione per Rexhino, nonostante il tribunale abbia riconosciuto le lacune sistemiche del sistema penale ungherese. L’interpretazione del giudice, alquanto controintuitiva, ha ritenuto che le violazioni dei diritti umani dell’Ungheria fossero “solo sistemiche”, e che non fosse possibile provare che queste sarebbero state applicate personalmente a Rexhino, escludendo quindi il rischio immediato per l’accusato di vedere i propri diritti fondamentali violati. Dopo il rifiuto della Corte Suprema finlandese di riesaminare in modo opportuno la sentenza, Rexhino ha immediatamente richiesto l’intervento della CEDU, che ha negato qualsiasi “misura provvisoria” immediata contro la Finlandia, ma che si sta attualmente occupando del caso.

La situazione degli accusati è ulteriormente complicata dal fatto che il rifiuto di estradizione da parte di uno stato non costituisca un precedente a cui attenersi per i restanti paesi UE. Pur essendo stata bloccata l’estradizione di Marchesi dall’Italia, il mandato d’arresto emesso dall’Ungheria rimane intatto. Pertanto, Marchesi rischia di trovarsi coinvolto in un nuovo MAE con conseguente processo per la sua deportazione in tutti gli altri stati europei, qualora decidesse di viaggiare all’interno dell’UE.

Questo pericolo è stato di recente sperimentato da Carles Puidgemont. In questo caso, la Spagna ha perseguito il leader indipendentista catalano attraverso emissioni e ritiri tattici di Mandati di Arresto Europei in Belgio, Finlandia e Germania, nel tentativo di trovare l’anello debole che avrebbe permesso la cattura di Puidgemont.

“Il rischio è presente e Gabriele al momento si trova in una sorta di limbo”, conferma Losco. L’avvocato aggiunge di aspettarsi l’utilizzo da parte dell’Ungheria di un meccanismo globale, chiamato “allerta rossa”, per perseguire il suo assistito. Mentre esprime soddisfazione per il verdetto milanese, ricorda che la situazione andrà affrontata in modo complessivo in un secondo momento.

Alla luce della struttura legale del MAE, questo limbo si protrarrà probabilmente fino a quando le accuse andranno in prescrizione, l’Ungheria porrà un termine alla sua impresa internazionale, oppure l’UE approverà una riforma del meccanismo dei MAE. In ogni caso, potrebbero essere necessari diversi anni.

Finora l’Ungheria non ha dato segni di volersi fermare e il percorso dell’UE non sta andando in direzioni migliori. A luglio di quest’anno, cambierà la presidenza del Consiglio dell’Unione Europea, il cui ruolo principale è “definire la direzione politica e le priorità dell’UE”. Il prossimo stato ad assumere il ruolo sarà un paese con oltre 20 miliardi di euro di fondi europei congelati a causa delle violazioni dello stato di diritto, con un governo ideologicamente più vicino a Mosca che a Bruxelles: l’Ungheria di Viktor Orbán.

La storia giudicherà

Mentre il futuro degli imputati rimane incerto, il flusso di notizie sporadico ma controverso proveniente dall’Ungheria ha nuovamente portato il paese all’attenzione internazionale. In tutto il continente, è tornata sulle prime pagine una realtà politica che era in qualche modo passata in secondo piano dopo i primi anni di consolidazione del potere di Orbán e i ripetuti scandali legati al partito Jobbik.

La prossima udienza di Ilaria Salis è programmata per il 25 maggio e il suo appello per il trasferimento agli arresti domiciliari sembra essere finalmente in via di approvazione. Con una cauzione di 40.000 euro, Salis dovrebbe passare agli arresti domiciliari a Budapest, monitorata da un braccialetto GPS. [Dal 23 maggio Ilaria Salis si trova agli arresti domiciliari a Budapest, ndR]

“Siamo molto soddisfatti”, commenta il suo avvocato italiano sulla stampa. “Finalmente l’incubo di Ilaria finisce, ma la battaglia continua”.

Ad aprile 2024, la campagna di solidarietà a Salis ha preso una nuova strada, che di certo continua a mantenere il processo di Budapest e la sua battaglia personale sulle agende italiana ed europea. Dopo settimane di indiscrezioni e speculazioni, la coalizione italiana Alleanza Verdi e Sinistra ha nominato Ilaria Salis come candidata alle elezioni del Parlamento Europeo di giugno. L’impatto del suo potenziale ruolo di eurodeputata sulla sua attuale incarcerazione rimane incerto al momento della stesura di questo articolo. Qualora Salis fosse eletta, l’Ungheria sarebbe costretta a rilasciarla e a richiedere al Parlamento Europeo di sollevare la sua immunità parlamentare prima di poter procedere con qualsiasi denuncia penale.

La candidatura di Salis appare sorprendente e anomala ma non mancano i precedenti storici. Nella storia politica italiana, sono presenti almeno altri due casi analoghi a quello di Salis.

Pietro Valpreda (1932–2002) era un ballerino di professione e un anarchico per convinzione. Nel dicembre del 1969, Valpreda è stato arrestato assieme ai principali sospettati dell’attentato di Piazza Fontana a Milano. È stato quindi sottoposto a una gogna mediatica e condannato alla prigione – rivelandosi comunque più fortunato del secondo sospetto anarchico, Giuseppe Pinelli, morto dopo essere “accidentalmente” caduto da una finestra della questura.

Nonostante la campagna di linciaggio mediatico, sia Pinelli sia Valpreda hanno suscitato empatia e sono considerati vittime di quella che in seguito è stata definita “strategia della tensione”: fascisti italiani, in collusione con i servizi segreti, commettevano attacchi terroristici addebitandoli a comunisti e anarchici, per preparare il terreno a un colpo di stato militare qualora il Partito Comunista avesse ottenuto il controllo del governo in modo democratico.

In quest’atmosfera estremamente politicizzata, il detenuto Valpreda è stato candidato nelle elezioni politiche del 1972. La sua candidatura faceva parte di una strategia per proteggere un uomo che i suoi sostenitori ritenevano una vittima innocente delle macchinazioni dei servizi segreti. Valpreda non è stato eletto, ma cinque anni dopo è stato rilasciato e scagionato da tutte le accuse.Nel 2004, più di trent’anni dopo il massacro, il Tribunale di Milano ha condannato per l’attentato di Piazza Fontana due membri dell’organizzazione paramilitare fascista Ordine Nuovo.

Antonio “Toni” Negri (1933–2023) è stato un professore di filosofia politica all’Università di Padova. Tralasciando i suoi meriti accademici, Negri era noto come un fervente leader del movimento Potere Operaio e uno dei principali teorici dell’Autonomia italiana, ovvero una rivisitazione radicale della teoria e della prassi marxista, consolidatasi in un combattivo movimento sociale, forte abbastanza da minacciare sia la Democrazia Cristiana sia il Partito Comunista.

Negli anni ‘70, Negri è stato accusato di molte cose. L’accusa di maggiore impatto lo vedeva come l’anonima mente direttiva delle Brigate Rosse, un’organizzazione di guerriglia urbana che colpiva l’establishment italiano e le organizzazioni fasciste. Negri è stato arrestato nel 1979, con l’accusa di essere il leader segreto delle BR e di aver partecipato al rapimento e all’esecuzione dell’ex Primo Ministro Aldo Moro. Il ruolo di Negri come figura rivoluzionaria di spicco non è mai stato messo in discussione, ma queste accuse sono state recepite come ridicole, false e un’ingiusta repressione nei confronti della sua attività politica, completamente scollegata dai fatti a lui imputati.

Quattro anni dopo l’arresto, Negri si è candidato dal carcere nelle elezioni politiche del 1983. Il professore ribelle è stato eletto alla Camera dei Deputati, venendo così scarcerato. Prima che il Senato votasse per sollevare la sua immunità parlamentare, Negri è fuggito in Francia, dove ha vissuto per 14 anni protetto dalla “dottrina Mitterrand”.

I tre casi distinti di Valpreda, Negri e Salis legano mezzo secolo di storia politica e ingiustizie in Italia, mentre altri casi simili in altri paesi mettono in luce l’esistenza di un ordine globale legale. I decenni passano, ma la caccia frenetica alle cospirazioni criminali, alle associazioni estremiste e alle organizzazioni terroriste – reali o percepite – continua a tenere in piedi uno stato di diritto ingiusto e subdolo.

Valpreda e Negri sono diventati i volti pubblici delle vittime dell’isteria anticomunista che ha caratterizzato gli anni ‘70. I loro processi sono esempi simbolici delle macchinazioni incontrollate dei servizi segreti che hanno imposto un giro di vite sui movimenti sociali. Sono la testimonianza dell’impunità delle istituzioni che governano la società cristallizzando un distacco insostenibile tra giustizia e applicazione della legge.

Il processo di Budapest sta già diventando un simbolo dell’ulteriore deterioramento dei diritti civili, di un anti-estremismo frenetico e del crescente autoritarismo in tutta Europa. Incarna tendenze allarmanti all’interno dell’Unione Europea, dove il fascismo è in crescita, nascosto tra le pieghe dei meccanismi liberali di “fiducia e riconoscimento reciproci”. Le opinioni sui fatti di Budapest possono essere differenti, così come le speculazioni sul ruolo degli imputati, ma un sentimento comune cresce sopra a tutto il resto: l’Ungheria sta orchestrando un’ingiustizia di dimensioni continentali.

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