L’Europa s’è destra

Ci sarà modo e tempo per analizzare in profondità il risultato di questa tornata elettorale europea. Lo faremo senza dubbio con il dibattito di lunedì 17 giugno a Sherwood Festival insieme a Sandro Mezzadra, Judith Revel e Raul Sanchez Cedillo.

Per ora ci limitiamo a qualche giudizio evidente e sommario, consci che il terremoto politico scaturito dalle urne, oltre alle ripercussioni immediate in alcuni Paesi (vedi le dimissioni di Macron in Francia e De Croo in Belgio), avrà effetti soprattutto nel lungo periodo, tanto sui piani nazionali che a livello globale. E se di terremoto si è trattato, per quanto per certi versi ampiamente prevedibile, è bene dire subito che l’epicentro di questo sisma si colloca proprio in quell’asse franco-tedesco che ha sempre condizionato le sorti del continente.

Va, però, anche detto che l’exploit dell’estrema destra tanto in Francia quanto in Germania ha poco a che vedere con il voto “anti-establishment” che ha connotato l’ascesa delle forze politiche reazionarie alcuni anni fa, quando meglio di altre avevano cavalcato e riempito il significante vuoto del populismo. Tanto Rassemblement National che Alternative für Deutschland non si pongono più come forza (fintamente) anti-sistema; sono realtà politiche purtroppo consolidate, che hanno già annoverato non poche esperienze di governo, sebbene non a livello nazionale, e soprattutto sono in grado di far valere tutto il loro peso in termini di alleanze strategiche nazionali e internazionali. “Siamo pronti a governare” è stata la prima dichiarazione di Marine Le Pen dopo l’exploit del partito guidato dal suo delfino Bardella. Non lo sappiamo, ma di sicuro le elezioni francesi del 30 giugno hanno tutta l’aria di essere un momento estremamente delicato e importante. Alcuni rumors già parlano di un possibile accordo tra RN e repubblicani, che potrebbe ancora di più polarizzare il voto. Nel frattempo, la piazza ha già tuonato, raccogliendo nelle strade della capitale migliaia di manifestanti antifascisti, sia la notte dopo il voto che ieri pomeriggio.

Da più parti viene indicato come la sconfitta di Macron e Scholz sia direttamente proporzionale al ruolo che hanno avuto nel favorire l’escalation militare in Ucraina. Se questo è vero, è vero anche che la risposta elettorale non va nella direzione di una soluzione pacifica a quel conflitto o comunque di una attenuazione delle tensioni belliche e politiche. Le elezioni non solo confermano la logica dei blocchi di guerra, ma la rafforzano, in un quadro che vede militarismo e autoritarismo viaggiare sempre più a braccetto.

Oltre a Francia e Germania, l’estrema destra guadagna terreno pressoché ovunque. Tra i risultati più significativi, ci sono la vittoria di conservatori e reazionari in Belgio (costata, come si scriveva, le dimissioni di De Croo) e il boom della FPÖ che è primo partito in Austria e mai così in alto dai tempi di Jörg Haider. In Spagna grande successo dei popolari, che limita Vox come era già accaduto nelle politiche del 2023.

Nulla di nuovo nella maggior parte dei Paesi dell’Est, dove il blocco tra conservatori e reazionari è ormai prassi consolidata da tempo e non sembra al momento avere alternative credibili. Anche in Ungheria, dove assistiamo a un sensibile calo di consensi per il partito di Orbán (che comunque supera abbondantemente il 40%), la forza politica che lo insidia appartiene all’area liberal-conservatrice. Da segnalare che in Romania il numero dei voti dei due partiti nazionalisti (Alleanza per l’unione dei rumeni ed S.O.S. Romania) supera quello dei partiti che formano la grande coalizione di governo, Partito socialdemocratico e Partito nazionale liberale (Pnl).

Ma quali saranno le conseguenze di questo spostamento a destra dell’asse politico europeo? Sul piano degli equilibri parlamentari, è il Ppe ad avere in mano quasi tutte le carte. Al momento l’ipotesi più probabile è la conferma della “maggioranza Ursula”, ossia popolari, socialisti, liberali e verdi. Ma attenzione, perché su alcuni temi cruciali la maggioranza può essere variabile e gran parte dei giochi si decideranno nel Consiglio Europeo, dove l’estrema destra potrebbe avere un peso tutt’altro che simbolico. Ad esempio, su questioni che riguardano il clima già nel luglio scorso avevamo visto il blocco conservatori-liberali votare compatto contro la Nature Restoration Law. Per cui è molto probabile che questo blocco si riformi su tutta l’enorme partita che si gioca attorno al Green Deal. E ovviamente lo schema potrebbe ripetersi anche per altre questioni, come politiche migratorie e diritti civili, dove la destra potrebbe compattarsi e portare l’Europa in una condizione generale di arretramento.

L’ultima considerazione generale riguarda il concetto stesso di Europa che esce in questa nuova cartografia politica. Se è vero che un progetto di Europa politica non è forse mai realmente esistito o si è plasmato attorno a un modello tecnocratico, è vero anche che la spinta centrifuga nazionalista non aveva mai esercitato un peso così forte nella storia dell’Unione. Siamo sull’orlo del ritorno allo Stato-nazione? Ovviamente no, ma c’è da interrogarsi su quale sarà ruolo del “rinato” interesse nazionale e nazionalista all’interno dell’attuale riconfigurazione capitalista, che come sappiamo ha messo la guerra al centro del suo progetto.

Passando al dato italiano, non possiamo che esordire con l’enorme soddisfazione nel vedere a Strasburgo sia Ilaria Salis che Mimmo Lucano, tra l’altro con preferenze da capogiro. Per Lucano c’è anche la doppia soddisfazione di aver riconquistato la poltrona di sindaco di Riace, dopo una delle più grandi ingiustizie politico-giudiziarie che questo Paese ricordi. Lo scrivevamo nell’articolo che precedeva il voto che non si trattava solo di una scelta etica, ma di uno smacco politico al governo Meloni, di quelli che saranno difficili da digerire.

Il voto di Salis e Lucano porta Avs alla soglia del 7%, laddove nessuna più rosea previsione lo avrebbe spinto. E se consideriamo che la lista è la terza più votata dagli under 30 (dietro, tra l’altro, a Pd e Movimento 5 Stelle) si può parlare se non di successo politico quantomeno di scelte che hanno pagato. Positivo anche il risultato del Pd che si rilancia dopo gli ultimi flop elettorali, pur prendendo meno voti in termini assoluti rispetto alle europee di 5 anni fa (dove però la percentuale di astenuti era oltre 4 punti in meno).

A destra, nonostante i proclami, le elezioni consegnano alla premier Meloni più grattacapi che buone notizie. Nonostante FdI sia nettamente il primo partito, è sotto la soglia simbolica del 30%, ma soprattutto Giorgia Meloni forse non avrà negli equilibri continentali il peso che sperava di avere, anche perché, paradossalmente, il successo di Marine Le Pen la relega al ruolo di seconda sponda a destra per Ursula von der Leyen. Per il resto, continua la discesa di Matteo Salvini, superato da Forza Italia e tenuto a galla in Europa solo “grazie” all’ultrareazionario generale Vannacci (un quarto dei voti della Lega sono per lui, sic!). Se pensiamo che 5 anni fa la Lega trionfava andando ben al di sopra del 30%, ci fa capire come i flussi elettorali siano in questa fase storica una delle cose più instabili che esistano. Ed è anche in questo magma caotico, che i movimenti devono sapersi conquistare agibilità su tutti i terreni.

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