Intersecare giornalismo e attivismo: una nuova prospettiva oltre la crisi dell’informazione

La traduzione italiana dell’editoriale scritto da Anna Irma Battino e Giovanni Marenda, membri dell’ECG (Editorial Coordination Gropu) del progetto S-Info (Sustainable Information), finanziato dal programma Europa Creativa della Commissione Europea. Il progetto ha come capofila Tele Radio City (editore delle nostre testate) ed è portato avanti con altre tre realtà europee (S-Com del Belgio, Repubblika di Malta e Context della Romania). L’articolo originale è stato pubblicato lo scorso 25 maggio sul sito del progetto.

S-Info nasce per costruire ponti tra le organizzazioni della società civile e il mondo del giornalismo indipendente, ovvero tra la sfera dell’attivismo e quella dell’informazione. Si potrebbe aprire un ampio dibattito su vicinanze e lontananze, similitudini e differenze tra attivismo e giornalismo, ambiti i cui confini possono essere tanto netti quanto sfumati. L’abitare questo spazio grigio e talvolta contraddittorio tra azione e narrazione, tra il raccontare gli eventi e l’essere parte dei processi, fa parte della nostra storia da quando nel lontano 1976 nasceva Radio Sherwood, una delle prime radio indipendenti in Italia, che ancora oggi è di proprietà di Tele Radio City.

L’esperienza delle radio libere nell’Italia degli anni ‘70, nata come pratica politica di “controinformazione”, è stata spesso indicata nelle analisi accademiche come antesignana dell’uso autonomo degli strumenti di comunicazione. Con l’avvento della rete alla fine degli anni ‘90, queste pratiche hanno assunto le caratteristiche di quello che definiamo “mediattivismo”, le cui tecniche, strumenti e piattaforme si intrecciano con quelle dell’azione diretta e della disobbedienza civile tipiche dei movimenti sociali[1]. In questo senso, come mediattivisti assumiamo l’informazione come campo di battaglia e il nostro ruolo come parte di un impegno sociale e politico volto al cambiamento, nella consapevolezza che non esiste giornalismo “neutrale” e non esistono narrazioni “oggettive”, ma che ogni nostra parola e ogni nostro silenzio definiscono una scelta di campo.

Tuttavia, se lo sviluppo del web ha aperto la strada ad un accesso di massa alle informazioni e alla produzione di contenuti, oggi ci troviamo al contrario ad affrontare la progressiva monopolizzazione di questo settore, tanto che gli stessi mezzi che utilizziamo quotidianamente per leggere e scrivere sono controllati da poche multinazionali. La rete, invece di affermarsi come bene comune e spazio cooperativo, è preda del cosiddetto “capitalismo delle piattaforme”, basato sul controllo e la vendita di grandi dati e su forme di lavoro precario[2]. Questi cambiamenti hanno coinvolto anche e soprattutto il giornalismo, sempre più composto da giovani freelance dal futuro incerto, messo in crisi dal declino della carta stampata e dalla disponibilità pressoché infinita di informazioni gratuite online.

Inoltre, in molti paesi europei vediamo il riemergere di pratiche di censura e controlli stringenti sia da parte dei governi che delle stesse multinazionali delle piattaforme, mentre assistiamo al progressivo allineamento dei cosiddetti media “mainstream” su posizioni appiattite rispetto agli interessi economici e politici dominanti. In Italia, questa restrizione silenziosa degli spazi di libertà e del pluralismo si è resa evidente, per esempio, non appena dei giornalisti di inchiesta hanno provato a svelare la corruzione delle grandi aziende del fossile[3], così come nelle rappresentazioni unilaterali che caratterizzano l’attuale dibattito pubblico sui conflitti internazionali[4].

Allo stesso tempo, la recente affermazione dei social network come palcoscenico informativo primario – soprattutto per le giovani generazioni – ha portato alla proliferazione di contenuti mediatici individuali e fai-da-te, dai canali telegram alle stories su TikTok e Instagram. Se da un lato questi strumenti consentono a chiunque di trasmettere il mondo in diretta e diffondere informazioni spesso oscurate nel mainstream, dall’altro pongono un serio problema di attendibilità e sono molto spesso veicoli incontrollabili di fake news, oltre che ad una progressiva banalizzazione dei concetti e spoliticizzazione dei contenuti. A venire sacrificati nell’informazione istantanea e diretta dei social sembrano essere gli sforzi di narrazione, inchiesta e interpretazione propri della professione giornalistica, capace di fare ricerca sul campo, di creare dinamiche redazionali aperte e multidisciplinari, di essere voce di battaglie sociali per la giustizia e l’uguaglianza.

Queste sono a nostro avviso alcune tra le sfide epocali che oggi il mondo del giornalismo si trova ad affrontare di fronte ad una crisi che non è solo economica ma ontologica.

Quali sono oggi i confini del giornalismo? Qual è la sua funzione nella società? Ha ancora senso essere giornalisti?

La nostra risposta parte dal voler recuperare quell’attitudine di comunicazione militante che ha fatto la storia della controinformazione prima e del mediattivismo poi. È un appello per un nuovo giornalismo “lento”[5], partecipativo, approfondito, insubordinato, libero, che guardi alle fonti primarie e vada oltre la mediazione istituzionale. Ma soprattutto un giornalismo situato, ovvero capace di prendere parte al cambiamento sociale, orientato verso i valori oggi imprescindibili della giustizia sociale e ambientale, della democrazia, dell’allargamento dei diritti.

Come recita l’editoriale[6] con il quale The Guardian ha inaugurato la sua nuova linea editoriale nell’ottobre 2019, con particolare riferimento alla catastrofe climatica in atto, il giornalismo non può più avere una posizione “neutrale”. In questo senso, rafforzare il legame tra giornalismo e attivismo, come si propone il progetto S-Info, vuol dire rafforzare la società civile europea e dare una nuova centralità al giornalismo nel cambiamento sociale.

Per questo siamo tra le realtà promotrici di questo progetto, che pone al centro da un lato la necessità concreta di rendere il giornalismo parte attiva dei processi di emancipazione, dall’altro di fornire all’attivismo maggiori strumenti professionali che aumentino la sua capacità di avere un impatto reale nella società. Infatti, se il giornalismo deve porsi come strumento per le organizzazioni che si impegnano a produrre i cambiamenti necessari per affrontare le molteplici crisi del mondo contemporaneo, d’altro canto il metodo e le competenze giornalistiche si rendono necessarie per tradurre queste istanze senza lasciarle in balia dell’auto-narrazione e affinando le capacità di comprendere la complessità del reale.

Dare corpo allo spazio ibrido e di convergenza che sarà S-Info – facendo collaborare i professionisti dell’informazione e gli attivisti delle CSO nel percorso di formazione e in un comune lavoro di inchiesta – non significa sovrapporre e schiacciare queste due figure una sull’altra, negandone le specificità e gli ambiti di azione. E non significa nemmeno svuotare il giornalismo del suo ruolo di mediatore tra fatti e narrazione. Ma significa inserirsi in una dialettica generativa, fatta anche di contraddizioni, ma con un senso e una prospettiva nuovi. Per costruire dal basso un futuro comune.  


[1] Pasquinelli, M. (2002). Media activism: strategie e pratiche della comunicazione indipendente: mappa internazionale e manuale d’uso. DeriveApprodi.

[2] Vecchi, B (2020). Il capitalismo delle piattaforme. Manifestolibri.

[3] Battino, A.I. La censura preventiva di ENI: il caso della trasmissione “Petrolio”, Globalproject.info 2 marzo 2024.

[4] Gli scontri alla Fiera dell’Oro e la necessità di ribaltare le narrazioni, Globalproject.info 25 gennaio 2024.

[5]Secondo Laufer, lo “slow journalism” è un giornalismo “di sostanza, che mira all’equità, all’accuratezza, alla chiarezza”. È un approccio filosofico ma anche un metodo di lavoro. Le caratteristiche che contraddistinguono lo slow journalism sono: verifica delle fonti, selezione attenta e ragionata degli argomenti, indipendenza dai tempi delle breaking news e dall’agenda del giorno, approccio analitico e approfondito ai fatti, attenzione al pubblico, sostenibilità del progetto (P. Laufer, 2014; J. Rauch, 2018; A. Puliafito e D. Nalbone, 2019).

[6] Viner, K. Today we pledge to give the climate crisis the attention it demands, The Guardian, 16 ottobre 2019.

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