Sulla polvere e sulla cenere

“VIOLENZA-A-A-A-A-A

io grido

e nessuno risponde.”

“Ma la Sapienza da dove viene?

L’Intelligenza dove si trova?”

 

“Non dalla polvere esce il dolore

Non dal terreno cresce la sciagura

Ma uomo nasce per la sciagura

Come le aquile per il volo.”

Da “Il libro di Giobbe”, a cura di Guido Ceronetti, Adelphi 1988

Con il recente saggio “I confini del dolore”, edito da Raffaello Cortina Editore, la psicoanalista Lella Ravasi Bellocchio ci consegna un’intensa, poetica e veritativa indagine sulle connotazioni del dolore umano vissuto oggi, sul lettino della stanza d’analisi dalle sue pazienti. Ovviamente l’indagine si allarga alle accezioni “ontologiche” della sofferenza  nel destino umano.

Il filo conduttore è il Giobbe dell’Antico Testamento. “Ora” la psicoanalista cerca di dare un senso a ciò che un senso non pare avere, opponendosi al fato deterministicamente preordinato della sofferenza psichica. “Allora” Giobbe pose a Dio le sue “blasfeme” domande sul motivo delle sofferenze inflittegli. Indicibilmente piagato dalla pelle sino alle ossa, e dopo aver perduto tutto, egli ne chiede “sfrontatamente” conto a Dio. La risposta che ottiene rimane un enigma.

A volte il dolore è il viàtico di una trasformazione profonda e strutturale della persona, il mezzo per qualcosa di sconvolgente ma necessario. A partire dalla sofferenza nasce talora “una nuova possibilità di stare al mondo, forti di una dignità che si riconosce nel grido di Giobbe, nel “perché?” a cui dare una risposta”.

Per la massima efficacia di quella che più che una recensione rimane una mia indicazione di lettura, preferisco farmi da parte e di seguito far parlare direttamente l’Autrice, proponendo alcuni brani tratti dal terzo capitolo del testo. Le parti in esso estrapolate dal “Libro di Giobbe” provengono dalla traduzione di Guido Ceronetti, edita da Adelphi. Alla fine della lunga citazione vi attenderà qualche mia ultima considerazione.

Storia di Giobbe

Un uomo di nome Iob era in terra di Uz

Un uomo di perfetta purità

Temeva Dio e il male aborriva

(…)

Tra tutti i figli dell’Oriente l’uomo più grande era (1, 1-3)

 

Giobbe è un uomo giusto, una persona perbene: ricco, generoso, attento agli altri, “perfetto”.

All’inizio della storia è un uomo appagato, felice. Ma arriva Satana a scommettere con Dio: facile essere giusti quando tutto va bene.

 

Ma stendi la tua mano e colpiscilo in tutto il suo

Sulla tua faccia ti maledirà (1, 11)

 

Cominciano le prove: Giobbe perde tutto, le ricchezze, i figli, ma non maledice il signore. E Satana sfida Dio a provarlo più duramente:

 

        -La pelle per la pelle. L’uomo dà tutto

Per la sua vita. Ma stendi la tua mano

E nel suo osso e nella sua carne colpiscilo

Sulla tua faccia ti maledirà-

       E a Satana il Signore disse

       -Eccolo in tua mano. Solo tienilo in vita – (2, 4-6)

 

Giobbe è perduto, piaghe, dolori fisici, la moglie lo invita a maledire Dio e a morire, finalmente. Arrivano tre amici, e da principio prendono parte al dolore di lui:

 

Per terra siedono insieme con lui

Sette giorni e sette notti senza parlargli mai

Perché vedono grandissimo dolore (2,13)

 

 Ma Giobbe comincia a urlare, non rassegnato, la sua disperazione d’esser nato:

 

Che tu sia maledetto

Giorno che mi hai partorito

E tu notte per aver detto

Un maschio è concepito  (3, 2-3)

(…)

 

Comincia a definirsi in lui l’inquietante interrogarsi sul male. È proprio Dio che vuole tutto questo male, e soprattutto se non è lui allora che è? A questa domanda gli amici si spaventano e cominciano a prendersela con Giobbe, colpevole di voler interloquire con Dio, al di là degli schemi tradizionali. E chi sei tu per osare tanto? Giobbe tiene duro e alza il tono, sempre più pesante, nel rifiutare la rassegnazione… “così va il mondo”… eh, no! Non è disposto a subire prediche, c’è in gioco qualcosa di più importante della sua stessa vita: una incoercibile dignità che lo porta a non cedere, a difendere il proprio diritto di creatura:

(…)

 

Prenderò la mia carne coi miei denti

Metterò la mia vita tra le mie mani

 

Mi uccida pure. Non cederò

Finché non abbia davanti a lui

Difeso le mie azioni

 

Anche per questo sarò salvato (13,13-16)

 

La salvezza, se ci sarà, sarà altro dalla pietà tignosa degli amici: sarà il diritto della creatura a esserci; minacciato dalla crudeltà, Giobbe sarà salvo se verrà riconosciuto il suo diritto all’innocenza. Si srotolano le parole degli amici, si alternano l’un l’altro con diversi linguaggi, sempre più irritati dalla forza di Giobbe, che va fuori dagli schemi, impedendo loro una soddisfazione “terapeutica”: e infatti uno di loro lo vorrebbe provocare:

 

 Tu fai scempio della Pietà

Tu uccidi il pensare a Dio (15,4)

 

Divine consolazioni dolci parole

Sono poco per te? (15,11)

 

Giobbe non si lascia intimorire; li liquida con parole durissime e torna all’oggetto primario, riprende a cercare il rapporto da pari a pari, non con i servi, ma direttamente con il Padrone.

 

Quante cose ho sentito come queste

Mi stomacate consolatori (16,2)

 

Fino a quando mi darete dolore

Tormentandomi con parole?

(…)

Fosse anche vero che ho peccato

Sarebbe cosa mia il peccato

(…)

Il Colpevole che ho io qua dentro

Le rete che mi soffoca è Dio

 

VIOLENZA-A-A-A-A-A io grido

E nessuno risponde (19,2-7)

 

È di albero sradicato il mio sperare (19,10)

 

(…)

 

All’interno del conflitto tra Giobbe e gli amici, nei toni sempre più alti dello scontro, nella ricerca radicale di Giobbe perché si manifesti il senso, c’è un capitolo che pare “a parte”. È l’inno alla Sapienza: in realtà il primo manifestarsi del mistero dell’esistere al di là del “male”:

 

Ma la Sapienza da dove viene?

L’Intelligenza dove si trova?

 

L’uomo ignora la sua figura

Sulla terra dei vivi non si trova

 

L’Abisso dice – In me non è –

Il Mare dice – Da me non è –  (28,12-14)

 

Agli occhi di ogni animale si nasconde

E agli uccelli del cielo si dissimula

 

La Perdizione dice

La Morte dice
– La sua fama è volata al nostro orecchio – (28, 21-22)

 

La Sapienza da dove viene? E l’Intelligenza dov’è?  È il tempo delle domande sul senso, ma è anche la presenza del limite e la visione del femminile come relazione:

 

Dio le sue vie ha scrutato

A lui solo il suo luogo è noto

(…)

 

Quando del vento il peso fissava

E dispensava l’acqua con misura

 

Quando una legge alla pioggia dava

E un alveo alla folgore che tuona

 

Allora la vide e la circoscrisse

La scandagliò e la comprese (28, 23-27)

 

È a questo punto che Dio, Signore del bene e del male, entra in scena, accetta la sfida, accetta di avere Giobbe, l’uomo Giobbe, come interlocutore:

 

Prendi le armi come un guerriero.

Io faccio le domande tu illuminami (38,3)

 

È fatta. Seguono pagine e pagine di versi in cui Yahweh racconta il potere, la forza della sua creazione, descrive macro e microcosmo, gli animali, la natura, la ricchezza; fa sfoggio della sua onnipotenza sulla creazione intera, dal mondo superno al mondo infero. Non è questo il punto; la svolta è che Giobbe ha ottenuto il faccia a faccia con Dio; è stato riconosciuto, l’ha riconosciuto. E questo salva entrambi. Giobbe accetta nell’incontro l’inesplicabile; è protagonista dell’incontro con il mistero, e questo fatto lo rende un uomo libero:

 

 E rispondendo Iob al Signore dice:

So che puoi tutto

E che sei tutti i possibili pensieri

(…)

 

Parlavo da insensato

 

Prodigi da me lontani

Che ignoro

 

Il mio orecchio aveva captato

Vaghi suoni di te

 

Ma adesso ti ha veduto

Il mio occhio

 

Perciò mi ripudio

 

E mi consolo

 

Sulla polvere e sulla cenere (42, 1-6)

 

Giobbe può accettare ora la complessità come un fatto che gli appartiene: “mi odio e mi consolo”. La vertà è nell’incontro, non nelle formule. Yahweh sta dalla parte di Giobbe, mentre gli amici vengono sconfermati:

 

Perché non avete di me parlato

Con fondamento come il mio servo Iob  (42, 7)

 

E dunque infine:

 

 

E morì Iob

Vecchio

Al colmo dei giorni (42, 17)”.

Come voi, esco stupita e desiderosa di comprendere di più da quest’esperienza di lettura. Credo che ciascuno cercherà una personale, possibile interpretazione, provenendo il testo su cui si esercita l’Autrice da tempi tanto lontani e oscuri da renderne oggi pressoché incomprensibile la logica.

A me sembra vicinissima la disperazione di Giobbe ed è grande la pena, e anche la tenerezza, per lui.  Ma fatico a comprendere la “soluzione” cui perviene.

Si consola di che cosa? Forse, il movente della sua “conversione” è l’avvicinarsi a lui del Signore: il loro “entrare in contatto” che, come afferma Ravasi Bellocchio, mentre mostra Dio allo sguardo di Giobbe, mostra quest’ultimo a sé stesso. “Mi vedo riflesso nella pupilla del Dio che mi guarda… e Dio mi stima, se vuole rispondermi”.

Grazie allo sguardo di Dio che gli conferma la sua dignità, a Giobbe non brucia ammettere d’esser stato stolto a rinchiudersi narcisisticamente nel suo dolore (come peraltro ogni malato grave di questa terra fa, perché non può fare altro). Può serenamente ripudiare quel narcisismo assoluto, odiare in sé stesso quella stoltezza e consolarsi fiero comunque di sé, d’aver osato tanto e d’aver visto tanto.

Grazie alla teofania e alla cosmogonia che Dio gli dispiega davanti, s’accorge di quanto meschino sia il suo dolore al cospetto dell’incommensurabilità del creato. Esce da sé e torna a vedere l’infinita estensione del cosmo.

Forse, il “senso” del dolore non c’è. C’è soltanto da pensare, anzi da sentire, il “senso” dell’esistenza. Anch’esso non viene dato nel racconto biblico, ma sembra implicito al partecipare alla sfolgorante bellezza del creato, al sentire ed al sentirsi a un contempo partecipi ed esclusi dallo sfarzo, dalla meraviglia e dal mistero del tutto. Forse Giobbe viene preso da una tale “Sindrome di Stendhal” al cospetto di questo sublime che in lui cade anche la necessità del domandare, resa oramai futile.  Esserci e soffrire vale perché si assiste a questo sfolgorante progetto d’assoluta bellezza.

La bellezza sembra, in questo testo sottoposto a infinite ermeneutiche, tra i pochi valori indiscutibili. Essa ha un significato talmente grande da mettere in ombra persino ogni considerazione sulla liceità dell’esistenza del male.

Manca, in questa visione, il lenimento che noi umani conosciamo al dolore, l’unico che in genere  riesce a ridurre la sofferenza: l’amore. Ma forse è implicito nello stesso avvicinarsi di Dio all’uomo, forse non traspare dal testo per motivi di linguaggio. Oppure, l’umanità dovette attendere l’affacciarsi sul mondo del Nuovo Testamento, per vedersi dipanare in tutta la sua potenza la forza dell’amore e quella della carità.  Chissà.

È tuttavia un fatto che esista un metodo terapeutico, la psicoanalisi di cui è accorata interprete Ravasi Bellocchio, che cerca di raccogliere e far suo quel messaggio, al di là di ogni riduzionismo scientifico. In questo incontro umano tra umani mossi da pìetas si gioca ancor oggi la possibilità, per un soggetto spaccato dal dolore, di emanciparsi da ferite profonde.

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