Massimo Carlotto: perché Trudy è letteratura del conflitto

L’impegno di Massimo Carlotto per le battaglie sociali è ormai noto da tempo. Basti ricordare la sua grande esposizione nel “caso Grafica Veneta”, l’appello fatto a editori e scrittori per schierarsi a fianco dei lavoratori vittime di caporalato, la prefazione del fumetto “Ismael e gli altri” che ha contribuito a imprimere quella vicenda nell’immaginario collettivo.

Trudy, però, è qualcosa di più di un romanzo impegnato, di una presa di posizione: è un continuo immedesimarsi nelle tante forme che assume lo sfruttamento odierno e nelle dinamiche di controllo ossessivo che queste producono. Lo sfondo è il settore della sicurezza privata e il suo rapporto con il mondo del lavoro, il ruolo di ex poliziotti e carabinieri, contractors con trascorsi militari. Ma anche la relazione con il mondo della politica e dell’alta finanza, gli intrecci con le grandi organizzazioni criminali.

Massimo Carlotto racconta “il sistema”, ma questo non è una novità nei suoi noi. Con Trudy lo fa dando maggior peso alla prospettiva di classe, donne e uomini che lotta quotidianamente per la sopravvivenza a ogni tipo di violenza e angheria, sindacati conflittuali che diventano spesso il primo bersaglio di un meccanismo che rischia di diventare quasi perverso. Ma poi c’è la speranza, della lotta, delle relazioni, di una scintilla che non muore mai. E tutto questo è emerso con grande potenza alla presentazione di venerdì 14 giugno a Sherwood Festival, dove Massimo Carlotto ha interloquito con Paolo De Marchi, di Adl Cobas.

La prima questione che De Marchi pone a Carlotto e se i suoi libri, che escono fuori dallo schema di letteratura di genere, si avvicinano a quel filone che definiamo letteratura working class. Per Carlotto il noir è sempre stata una scusa per raccontare quello che c’è intorno, una lente di ingrandimento con cui l’autore vede la realtà e la racconta. Negli ultimi anni ci si è posti il problema all’interno del noir su che tipo di letteratura ci fosse dietro e la risposta a questa domanda – soprattutto in Italia – è stata produrre una letteratura di tipo consolatorio, cioè che andasse a risolvere le contraddizioni in favore dello Stato. «Io credo invece che ci sia una necessità di una letteratura del conflitto, che sia realmente in grado di leggere e raccontare le contraddizioni sociali, andando a raccontare le storie negate e legandosi a movimenti esistenti o possibili». Il confronto con la letteratura working class è però più complesso, «perché quello che manca oggi è una definizione teorica, da sinistra, di questo tipo di letteratura».

Ci si addentra poi all’interno del romanzo, sempre dando attenzione allo sfondo più che alla storia, ed emerge con chiarezza il ruolo delle agenzie private. Secondo Carlotto, la privatizzazione della sicurezza è la conseguenza diretta della privatizzazione della guerra e va letto nell’ottica di un totale asservimento della sicurezza, intesa in senso allargato, agli interessi della classe dirigente. Nel mondo del lavoro questo è ancora più evidente, ad esempio con il sistematico spionaggio che viene fatto ai dipendenti con il quale il confine tra azione legale e illegale si sfuma completamente. «Nel romanzo io li chiamo “i pretoriani”, perché effettivamente tra di loro si chiamano così, perché sono quella cosa sotto alla classe dirigente che ne tutela gli interessi a qualsiasi costo».

Nel libro si parla molto di come la sicurezza privata entri direttamente all’interno dei conflitti sindacali. «È molto analizzare il ruolo della sicurezza privata nel caso di Gkn, con il drone che sorvolava l’area nei giorni del Festival Working Class, o nei diversi tentativi di sabotaggio del presidio». In questo caso è emblematico il fatto che la sicurezza privata rappresenta una articolazione precisa rispetto al controllo del conflitto, «ma questo è anche determinato dal fatto che negli ultimi decenni il concetto di “sicurezza” è talmente pregnante, che in suo nome si può commettere qualsiasi violazione o sopruso».

«L’obiettivo principale di queste violenze è il sindacalismo di base» prosegue Carlotto, che nel romanzo parla di tre casi «il primo totalmente inventato, che è quello di Sabatini, ma gli altri due sono assolutamente veri ed è incredibile che quando vai a recuperare informazioni nella cronaca non trovi neppure nomi e cognomi, proprio perché questi casi devono essere il più possibile silenziati e anonimizzati».

Nella parte conclusiva del talk si torna a parlare del ruolo della letteratura che, a detta di Carlotto, ha abbandonato il tema del lavoro da molti anni. Questo perché si tratta di una dimensione estremamente osteggiata dall’industria culturale che ha due obiettivi: produrre prodotti vincenti da un punto di vista mercantile ma estremamente consolatori e prodotti che servono al consenso di questo tipo di democrazia. Un discorso diverso avviene nei paesi anglosassoni, dove però si corre il rischio contrario che la letteratura parla molto di lavoro, tutto ciò produce mercato e viene assorbito: «è un pericolo grossissimo che non significa che bisogna rimanere esterni all’industria culturale, ma puntare alla qualità del messaggio».

Al termine della presentazione vengono poste alcune domande dal pubblico. Una di queste riguarda il tema dell’emancipazione femminile che attraversa tutta la storia di Trudy. «In questo libro le donne sono le uniche figure positive, quelle maschili provengono da mondi dove cultura patriarcato è dominante. Il personaggio Trudy cresce all’interno del romanzo, ma capisce che se non incontra altre donne da sola non ce la fa. In generale scrivere dell’universo femminile oggi per un autore è la cosa più interessante». 

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