Di Roberto Valtolina
Nella nostra vicenda nazionale degli ultimi ottant’anni non c’è stata una personalità che abbia inciso così a fondo nella viva carne del Paese come Silvio Berlusconi. E ora un libro cerca di indagare i motivi profondi del suo ciclonico agire e incidere sulla scena italiana, avviando un percorso di revisione storica. Dal 28 maggio, ad un anno di distanza dalla sua scomparsa, è nelle librerie Silvio ha fatto anche cose buone, edito da Ponte alle Grazie. Lo ha scritto Ferruccio Pinotti, giornalista del Corriere della Sera e autore di libri d’inchiesta significativi, coadiuvato dall’autore di queste righe.
Il titolo dell’opera è provocatorio. Un elogio di Berlusconi? Non proprio, dato che mostra l’inganno della narrazione che volle il Cavaliere come l’imprenditore che si fece da solo: il sostengo di Bettino Craxi e di Giulio Andreotti furono decisivi per favorirne l’ascesa economica. Berlusconi è stato un uomo di governo dedito quasi esclusivamente alla cura dei suoi enormi interessi economici, all’autotutela giudiziaria ottenuta con leggi atte a scansare indagini e processi, e a un’intensa vita sessuale divenuta anche strumento di selezione politica. Il Cavaliere non fu mai un liberale come volle far credere. Dalla modernizzazione tecnologica del Paese all’abbassamento delle tasse, dall’intolleranza nei confronti della concorrenza e del dissenso – certificata dal duopolio «Raiset» e dalle continue censure ed epurazioni delle voci discordi – alla cinica alleanza con il Vaticano, l’elenco delle promesse mancate è lungo. Il Cavaliere condusse una politica estera basata quasi del tutto sui legami amicali e questo fu un limite grave, perché gli uomini passano, ma gli Stati restano. Se il decisore politico conduce una diplomazia povera di lungimiranza politica, ai suoi eredi lascia solo problemi, anche se è indubbio che oggi il modus operandi berlusconiano sarebbe stato utile all’Italia e alla Ue nei rapporti con la Russia di Putin, di cui Berlusconi fu sempre un sostenitore.
Eppure, lontana sia da intenti apologetici che da toni liquidatori, la ricostruzione scandaglia in tredici capitoli ogni aspetto della sua personalità irruenta e debordante e mostra come Silvio abbia fatto realmente «cose buone»: dalla legislazione tutelante l’universo rosa – come la norma che impose le “quote rosa” nei cda dei collegi sindacali delle aziende quotate, al punto che il 6% di donne nei cda medesimi è divenuto 36%, insidiante il 40% norvegese – ad alcune norme sulla sanità ad opera del suo ministro Ferruccio Fazio; dalla sua alleanza geo-politicamente strategica per il nostro Paese con la Libia di Gheddafi alla sua presidenza del Milan, ovvero la stagione in assoluto più ricca di trofei della storia rossonera.
Guardando retrospettivamente l’Italia di quegli anni, visti i danni inflitti nel frattempo dal neoliberismo al Paese in termini di disuguaglianze, si può ascrivere al medagliere berlusconiano un paradossale merito: quello di non aver mantenuto la promessa della tanto annunciata “rivoluzione liberale”, i cui risvolti liberisti avrebbero presentato al Paese un conto ancor più salato in termini di coesione sociale e di salute economica del tessuto produttivo. Per capire ciò, è utile un confronto con Germania e Francia. Se un’economia si affida al mercato, la composizione della struttura produttiva è decisiva per l’impiego di strategie competitive diverse dalla compressione dei costi. È quello che ha fatto la Germania e, in misura minore, la Francia. L’Italia no: con una struttura produttiva tarata sull’arredo casa, l’agroalimentare, l’automazione meccanica e l’abbigliamento e con l’80% del tessuto produttivo fatto di imprese con meno di cinque dipendenti, il Paese ha subito la concorrenza dei paesi emergenti, in grado di produrre le stesse merci a costi straordinariamente inferiori. Il fatto che il 30% circa del nostro Pil sia frutto del nero non è solo un problema morale, ma anche economico. Berlusconi lo capì e si mosse di conseguenza, convinto che, senza un sostegno alla domanda interna, non c’è deriva illegale che salvi dall’impoverimento e dalla svendita all’estero delle nostre attività. E dato che il sostegno non può venire dalla bilancia dei pagamenti, strutturalmente in disavanzo per lo spread della composizione della nostra offerta industriale rispetto a quella dei nostri vicini tedeschi e francesi, non è disposto a rinunciare alle «esportazioni interne» garantite dalla spesa pubblica: vero e unico ubi consistam di un sovrappiù che andrebbe altrimenti sprecato, compromettendo ancor di più i livelli di sussistenza delle masse. Berlusconi è stato l’unico a dire parole di verità sull’Europa quando, pur in modo contraddittorio, tentò di spiegare che il debito pubblico non è la causa principale dell’andamento dello spread sui tassi d’interesse, che risiede semmai nella struttura dell’eurozona e nelle politiche di «austerità», le quali non fanno altro che accrescere gli squilibri.
Conti alla mano, gli esecutivi del Cavaliere hanno praticato le virtù di un keynesismo strizzante l’occhio all’illegalità, ma pur sempre keynesismo. Secondo i dati del Ministero dell’Economia e delle Finanze, negli otto anni di governo di Berlusconi compresi tra il 2000 e il 2011 le imposte aumentarono di 176 miliardi di euro a fronte di un rialzo della spesa pubblica corrente pari a 206 miliardi di euro; nei due anni di governo Prodi, l’aumento delle imposte è stato pari a 52 miliardi di euro a fronte di un aumento della spesa di 60 miliardi; durante il governo Monti la spesa aumentò di 8 miliardi a fronte di un aumento delle imposte di 20 miliardi. Dunque, mentre il governo Prodi ha perseguito il pareggio di bilancio e il governo Monti ha conseguito un ferreo avanzo, i governi berlusconiani hanno preservato una linea di deficit spending.
In sintesi, l’eredità di colui che nel 1994 “scese in campo” rimane pesante. Con il Cavaliere si è accelerato – anche se non solo con lui – il processo di precarizzazione del mercato del lavoro, il culto del denaro come primaria fonte di legittimazione sociale, il dilagare di una concezione proprietaria delle relazioni sociali e il conflitto d’interessi come normalità. E gli iter di riforma dell’attuale governo in materia di giustizia e di libertà di stampa sono eredi dell’ascendente piduista che lui fece proprio: dall’abolizione del reato di abuso d’ufficio ai pesanti limiti nella durata delle intercettazioni, dall’introduzione dei test psico-attitudinali per le toghe al divieto di pubblicazione delle ordinanze di misura cautelare prima del termine delle indagini preliminari, dall’aumento della quota politica nel CSM alla separazione delle carriere fra giudici e pm: una inesorabile deriva verso inedite forme di autoritarismo “dolce”.
Di Roberto Valtolina
16.06.2023
Roberto Valtolina. Classe ’87, scrittore e ricercatore, Valtolina ha collaborato con la firma del Corriere della Sera Ferruccio Pinotti a vari libri d’inchiesta: “Untold. La vera storia di Giangiacomo Feltrinelli”, “Attacco allo Stato” (sulle autobombe del 1993), “La ragazza che sapeva troppo” (caso Orlandi) e “Silvio ha fatto anche cose buone”. È autore con Maurizio Fiorentini di The masquerade, edito da Serradifalco Editore (2023).