di Sandro Moiso
Norman G. Finkelstein, L’industria dell’Olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei, Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 311, 20,00 euro
“A me sembra che l’Olocausto venga venduto, più che insegnato (Rabbi Arnold Jacob Wolf – Yale University)
Ben venga il ritorno nell’attuale panorama editoriale italiano del testo di Norman Finkelstein, già pubblicato da Rizzoli nel 2002. L’edizione attuale è arricchita da un saggio dello stesso autore dal titolo “Neo-anti-semitismo” è davvero così nuovo?, da una postfazione alla seconda edizione e da un’appendice contenente una replica al saggio di Stuart E. Eizenstat intitolato “Imperfect Justice: Looted Assets, Slave Labor and the Unfinished Business of World War II”.
Un testo necessario in un momento in cui, a partire dall’operazione condotta dall’Idf nella striscia di Gaza e dal revanscismo dell’ultradestra sionista, qualsiasi critica allo stato di Israele e al colonialismo espansivo sionista è assimilata all’antisemitismo dai gazzettieri di regime e da tutti coloro che ritengono inammissibile l’esistenza di uno stato palestinese indipendente e della stessa resistenza anticoloniale del popolo gazawi.
Il testo non è direttamente collegato agli avvenimenti attuali, ma è ancora utilissimo per destrutturare il discorso sull’Olocausto sviluppatosi non dalle reali sofferenze degli ebrei d’Europa nel corso del secondo conflitto mondiale, ma dalla necessità di rafforzare l’immagine del baluardo costituito da Israele nel medio e vicino oriente a favore degli interessi imperialistici statunitensi e occidentali. Come sostiene l’autore, infatti:
“L’informazione sull’Olocausto”, osserva Boas Evron, rispettato scrittore israeliano, è in realtà “un’operazione d’indottrinamento e di propaganda, un ribollio di slogan e una falsa visione del mondo il cui vero intendimento non è affatto la comprensione del passato, ma la manipolazione del presente”1. […] Due assiomi centrali stanno a sostegno dell’impalcatura ideologica dell’Olocausto: il primo è che esso costituisce un evento storico unico e senza paragoni; il secondo è che segna l’apice dell’eterno odio irrazionale dei gentili nei confronti degli ebrei. Nessuna delle due affermazioni appare in interventi pubblici prima della guerra del giugno 1967, né, per quanto esse siano diventate la pietra angolare della letteratura sull’Olocausto, figurano negli studi critici sull’Olocausto nazista2. D’altro canto, i due assiomi attingono a componenti importanti dell’ebraismo e del sionismo.
Subito dopo la Seconda guerra mondiale, l’Olocausto nazista non era considerato un evento unicamente ebraico, tanto meno un evento storico unico. L’ebraismo americano, in particolare, si diede cura d’inserirlo in un contesto di tipo universalista. Ma dopo la guerra dei Sei Giorni la Soluzione Finale fu radicalmente ridisegnata. “La prima e più importante convinzione che emerse dal conflitto del 1967 e che divenne l’emblema dell’ebraismo americano” fu, come ricorda Jacob Neusner, che “l’Olocausto […] era qualcosa di unico, senza paragoni nella storia umana”3. In un saggio illuminante, lo storico David Stannard mette in ridicolo la “piccola industria degli agiografi dell’Olocausto che sostengono l’unicità dell’esperienza ebraica con tutta l’energia e l’ingenuità di zeloti della teologia”2. Il dogma della sua unicità, dopotutto, non ha senso3.
Anche se si potrebbe facilmente provare che «qualunque evento storico è unico, se non altro in virtù del tempo e del luogo in cui accade, e presenta tanto caratteristiche sue proprie quanto tratti comuni ad altri eventi storici. L’anomalia dell’Olocausto consiste nel fatto che la sua unicità è ritenuta assolutamente decisiva […] Come è evidente, i tratti distintivi dell’Olocausto vengono isolati allo scopo di porre l’evento in una categoria completamente separata. »4.
Cosa che si rende particolarmente evidente quando, a causa del furore della difesa dell’unicità dell’Olocausto, si dimenticano gli infiniti tratti di sofferenza e distruzione che potrebbero accomunare il popolo ebraico a quello palestinese proprio in virtù di due tragedie, di fatto, speculari e complementari: la distruzione nazista degli ebrei d’Europa e la Nabka, ovvero la cacciata degli arabi palestinesi dalle loro terre a seguito della prima guerra arabo-israeliana del 19485.
Ebreo americano e figlio di deportati nei campi di concentramento, Norman Finkelstein è uno storico, politologo e attivista statunitense. Ha compiuto i suoi studi alla Binghamton University di New York, all’École pratique des hautes études di Parigi, conseguendo infine un dottorato in Scienze politiche all’Università di Princeton. I suoi principali campi di interesse sono l’Olocausto e il conflitto arabo-israeliano, due temi strettamente intrecciati tra di loro, rispetto a cui si pone in antitesi. Sostenendo, con vigore e onestà, la necessità di liberare la memoria dell’Olocausto dalle distorsioni che la circondano perché il principale pericolo non viene solo dal negazionismo e dal revisionismo, ma anche dai sedicenti guardiani della memoria che hanno fatto dell’Olocausto un unicum che non può essere sottoposto al vaglio critico e storico.
Come è facile immaginare il suo lavoro di ricerca ha solevato, fin dall’inizio, durissime polemiche e accuse nei suoi confronti anche se è vero che:
fino a tempi abbastanza recenti, l’Olocausto nazista era quasi assente dalla vita americana. Tra la fine della Seconda guerra mondiale e quella degli anni Sessanta, solo un esiguo numero di libri e di film toccò l’argomento e in tutti gli Stati Uniti si teneva un unico corso universitario espressamente dedicato a esso2. Quando, nel 1963, Hannah Arendt pubblicò Eichmann in Jerusalem. A Report on the Banality of Evil [La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme] poté attingere solamente a due studi in lingua inglese: The Final Solution [La soluzione finale: il tentativo di sterminio degli ebrei d’Europa, 1939-1945], di Gerald Reitlinger, e The Destruction of the European Jews, di Raul Hilberg3. Lo stesso capolavoro di Hilberg dovette faticare per vedere la luce. Il suo relatore alla Columbia University, l’ebreo tedesco Franz Neumann, studioso di teoria sociale, cercò di dissuadere energicamente Hilberg dallo scrivere sull’argomento (“È il tuo funerale”) e nessuna università o editore tradizionale volle toccare il manoscritto. Quando fu finalmente pubblicato, The Destruction of the European Jews6 ricevette poche recensioni, per lo più critiche.
Non soltanto gli americani in generale, ma anche gli ebrei americani, intellettuali compresi, prestarono poca attenzione all’Olocausto nazista. In un’autorevole indagine del 1957, il sociologo Nathan Glazer riportò che la Soluzione Finale nazista (così come la nascita di Israele) “aveva avuto ben poche ripercussioni sulla vita interiore della comunità ebraica americana”7.
Mentre, negli anni successivi al secondo conflitto mondiale, anche in Israele, come ci ricorda uno dei più importanti scrittori israeliani, in un suo romanzo autobiografico8, i superstiti della Shoa erano guardati con vergogna e sospetto, come se potessero rappresentare una macchia per la narrazione trionfalistica dei successi del sionismo in terra palestinese. Come Finkelstein ancora confida al lettore:
Il mio interesse nei confronti dell’Olocausto nazista prese le mosse da vicende personali. Mia madre e mio padre erano dei sopravvissuti al ghetto di Varsavia e ai campi di concentramento. Tranne loro, tutti gli altri membri dei due rami della mia famiglia furono sterminati dai nazisti. Il mio primo ricordo, per così dire, dell’Olocausto nazista è l’immagine di mia madre incollata davanti al televisore a seguire il processo ad Adolf Eichmann (1961) quando io rientravo a casa da scuola. Anche se erano stati liberati dai campi solamente sedici anni prima del processo, nella mia mente un abisso incolmabile separò sempre i genitori che conoscevo da quella cosa. A una parete del soggiorno erano appese fotografie di parenti di mia madre (nessuna foto della famiglia di mio padre sopravvisse alla guerra). In pratica non riuscii mai a mettere in relazione me stesso con quelle facce, men che mai a immaginare quello che era successo […] Per quanto mi sforzassi, non riuscii mai, nemmeno per un istante, a fare quel salto d’immaginazione che saldava i miei genitori, con tutta la loro normalità, a quel passato. Francamente, non ci riesco neanche ora.
Ma il punto più importante è un altro: se si esclude questa presenza spettrale, non ricordo intrusioni dell’Olocausto nazista nella mia infanzia e la ragione principale sta nel fatto che a nessuno, all’infuori della mia famiglia, sembrava interessare quello che era accaduto. I miei amici di gioventù leggevano di tutto e discutevano appassionatamente degli avvenimenti contemporanei, eppure, in tutta onestà, non ricordo un solo amico (o un suo genitore) che abbia fatto una sola domanda su quello che mia madre e mio padre avevano passato. Non era un silenzio dettato dal rispetto, era semplice indifferenza. Sotto questa luce, non si possono che accogliere con scetticismo le manifestazioni di dolore dei decenni seguenti, quando l’industria dell’Olocausto era ormai consolidata 9.
Forse proprio da questa memoria “personale”, spesso l’unica capace di districarsi tra le maglie dell’ideologia e della retorica istituzionale, deriva la determinazione dello storico ebreo-americano nel sostenere come:
Questo libro si propone di essere un’anatomia dell’industria dell’Olocausto e un atto d’accusa nei suoi confronti. Nelle pagine che seguono, dimostrerò che “l’Olocausto” è una rappresentazione ideologica dell’Olocausto nazista. Come la maggior parte delle ideologie, mantiene un legame, per quanto labile, con la realtà. L’Olocausto non è un concetto arbitrario, si tratta piuttosto di una costruzione intrinsecamente coerente, i cui dogmi-cardine sono alla base di rilevanti interessi politici e di classe. Per meglio dire, l’Olocausto ha dimostrato di essere un’arma ideologica indispensabile, grazie alla quale una delle più formidabili potenze militari del mondo, con una fedina terrificante quanto a rispetto dei diritti umani, ha acquisito lo status di “vittima”, e lo stesso ha fatto il gruppo etnico di maggior successo negli Stati Uniti. Da questo specioso status di vittima derivano dividendi considerevoli, in particolare l’immunità alle critiche, per quanto fondate esse siano. […]
A volte penso che la “scoperta” dell’Olocausto nazista da parte dell’ebraismo americano sia stata peggiore del suo oblio. I miei genitori continuavano a ripensarci nel loro privato e la sofferenza che patirono non ricevette pubblici riconoscimenti. Ma non fu forse meglio dell’attuale, volgare sfruttamento del martirio degli ebrei10?
Sullo stesso teme non si è mosso, a livello di indagine, il solo Finkelstein, però.
Anche lo storico e saggista Tom Segev, figlio di profughi tedeschi che vive a Gerusalemme, si è occupato del drammatico incontro tra i superstiti dell’Olocausto e una società, quella del neonato stato di Israele, che andava costruendo se stessa intorno al culto dell’eroismo e dell’”uomo nuovo”ed è andato dimostrando come la pesante eredità della Shoa sia stata manipolata e distorta a scopo ideologico e calcolo politico11.
L’industria dell’Olocausto non indaga soltanto l’uso ideologico fatto dal sionismo colonialista e dallo Stato israeliano, ma anche l’ipocrisia di stati come la Svizzera e gli stessi Stati Uniti nei confronti dello sterminio nazista degli ebrei e dell’uso postumo della memoria di tale evento e dell’appropriazione indebita dei beni degli stessi operata no soltanto dai nazisti.
Finendo col rivelarsi come un’opera che, a distanza di quasi un quarto di secolo dalla sua prima pubblicazione, torna ad esplodere come una bomba tra le mani del lettore, suscitando ancora adesso l’ira di tutti coloro che sulla tragedia dell’Olocausto hanno costruito le basi e la giustificazione delle immani sofferenze di un altro popolo che non ha mai smesso di resistere alla dominazione colonialista, all’ingiustizia e al tentativo di sterminarlo.
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B. Evron, Holocaust: The Uses of Disaster, in “Radical America”, luglio-agosto 1983, p. 15. ↩
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J. Neusner (a cura di), In the Aftermath of the Holocaust, vol. II, Garland, New York 1993. ↩
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N. G. Finkelstein, L’industria dell’Olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei, Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 47-48. ↩
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N. Finkelstein, op. cit., p. 48. ↩
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A tale proposito si veda: B. Bashir, A. Goldberg (a cura di), Olocausto e Nabka. Narrazioni tra storia e trauma, Edizioni Zikkaron 2023. ↩
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Oggi disponibile in Italia come R. Hilberg, La distruzione degli Ebrei d’Europa, 3 voll., Einaudi Editore 2017. ↩
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N. Finkelstein, op. cit., pp. 22-23. ↩
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A. Oz, Una storia di amore e di tenebra, Feltrinelli editore, Milano 2003. ↩
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N. Finkelstein, op. cit., pp. 17-18. ↩
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Ivi, pp. 15-18. ↩
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T. Segev, Il settimo milione. Come l’Olocausto ha segnato la storia di Israele, Mondadori editore , Milano 2001 (edizione originale 1991) ↩