Julian Assange è stato liberato e sta viaggiando verso l’Australia, la sua nazione di origine. Ma dovrà fare ancora una fermata importante, alle Isole Marianne, prima di essere completamente libero. Le Marianne sono infatti un territorio americano del Pacifico, e qui Assange dovrebbe firmare con il giudice locale l’accordo patteggiato con il governo USA, che prevede la rinuncia da parte degli Stati Uniti di ulteriori persecuzioni penali contro di lui, in cambio di una sua parziale ammissione di colpa. Dopodichè gli Stati Uniti chiederanno una condanna pari o inferiore al periodo già scontato in prigione da Assange, il quale potrà ritenersi un uomo libero a tutti gli effetti.
Tutto questo ovviamente è solo il teatrino esteriore, che permetterà agli Stati Uniti di dire che “Assange ha riconosciuto di essere colpevole, e ha già espiato la sua colpa in prigione”. Ma la sostanza del problema non cambia di una virgola: Assange è stato perseguitato per quindici anni semplicemente per aver fatto il suo mestiere di giornalista. Ovvero, ha reso pubblici dei documenti che aveva ricevuto dall’analista-whistleblower Bradley Manning (oggi Chelsea Manning, dopo il cambio di sesso).
Proprio per capire la reale valenza di questa persecuzione, basterà pensare che Chelsea Manning ha fatto solo sette anni di prigione, per avere trafugato dei documenti secretati, mentre Assange ne ha fatti praticamente il doppio (se calcoliamo anche i sette anni di clausura nella ambasciata ecuadoriana a Londra) solo per averli resi pubblici.
Il messaggio degli USA quindi è stato chiaro, ed è diretto a tutti gli altri giornalisti del mondo occidentale: “Anche se vi capitassero fra le mani dei documenti scottanti, non provateci nemmeno lontanamente a pubblicarli. Altrimenti farete la stessa fine che ha fatto Assange.”
Né peraltro dobbiamo illuderci che la liberazione di Assange sia in qualche modo legata ad un remoto principio di giustizia, che avrebbe finalmente prevalso sulla palese ingiustizia perpetrata fino ad oggi contro di lui. Questa liberazione è stata chiaramente voluta dall’amministrazione Biden in questo momento politico, a pochi mesi dalle elezioni presidenziali. Biden infatti sta già subendo una emorragia di voti nella sua base democratica, a causa della sua posizione spudoratamente a favore di Israele, e non poteva certo permettersi ulteriori attacchi da parte dei suoi elettori nel caso di una estradizione di Assange negli Stati Uniti.
È stata quindi una scelta politica quella di perseguitarlo per 15 anni, così come è stata una scelta politica quella di ridargli la libertà proprio in questo momento. I valori per cui tutti noi combattiamo – libertà, giustizia e democrazia – in questo caso non c’entrano nulla. E’ questo purtroppo il vero messaggio che possiamo trarre da questa triste storia: viviamo in un’epoca di pragmatismo assoluto, dove i valori più importanti possono essere tranquillamente calpestati a seconda del fine politico più urgente in quel momento.
Certamente, la liberazione di Assange ci fa un enorme piacere per la sua persona, ma dal punto di vista della dittatura travestita da democrazia nella quale viviamo, non cambia assolutamente nulla.
Massimo Mazzucco