Tibet – Cina – Stati Uniti: distopie, incubi che non passano e interferenze

Di Maria Morigi

Washington, 3 gennaio 2024, il 18° Congresso USA, seconda sessione, iscrive e approva l’Atto (o Disegno di Legge) “Modificare la legge sulla politica tibetana del 2002”, anche citato come “Promuovere una risoluzione della legge sulla disputa tibetano-cinese”. Il 12 giugno 2024 la Camera dei Rappresentanti approva ed emana (con risoluzione 391-26) il Disegno di Legge già passato al Senato il mese di maggio. L’obiettivo dichiarato del testo[1] è quello di contrastare la politica della Repubblica Popolare cinese che dal 1965 ha concesso al Tibet lo status di Regione Autonoma; l’alzata di scudi statunitense è anche finalizzata a promuovere il dialogo tra Pechino e il leader tibetano in esilio, il Dalai Lama. Il disegno di legge è arrivato così sulla scrivania del presidente Biden.

La mossa USA di rispolverare un immaginario contenzioso sul Tibet lascia esterrefatti e, alla luce del Diritto internazionale, costituisce una gravissima ingerenza in una materia che si sta trascinando da ben prima degli anni Cinquanta, proprio perché implica non solo la messa in discussione dei confini territoriali cinesi, ma la legittimità e sovranità della RPC nelle relazione interne ed esterne. E il tutto accade in una prospettiva di belligeranza dichiarata per il controllo del Mar cinese meridionale e per la difesa da parte USA della “indipendenza” di Taiwan (purtroppo la guerra ibrida è già in atto, come tutti vediamo).

In questi ultimi anni abbiamo assistito ad ogni tipo di “propaganda contro” per fomentare divisioni e diffamare la RPC: lager, accuse di schiavismo, accuse di genocidio umano e culturale in Xinjiang, pestaggi e galere per gli studenti a Hong Kong, denunce di soppressione di libertà religiosa a carico dell’Islam e della Chiesa cattolica… invenzioni, fake e distorsioni della realtà e della storia. Adesso si recupera la questione dell’indipendenza tibetana trascurando volutamente che il Tibet, in pieno progresso economico e sociale e senza alcun rimpianto per la teocrazia lamaista, festeggerà Il 1º settembre 2025 il sessantesimo anniversario della proclamazione della Regione Autonoma.

Se i contenuti del disegno di legge USA sono tanto inconsistenti da rasentare il “vuoto perfetto”, la forma complessiva è arrogante e velleitaria, dal momento che platealmente si attribuisce al Congresso USA il diritto di riscrivere una Storia, cioè quella consentita e concessa dall’imperialismo statunitense. Peccato, tuttavia, che la Storia si faccia non sulle ideologie a posteriori e le invenzioni, bensì sui documenti scritti, sui fatti testimoniati, sui trattati e gli accordi (onorati, traditi o anche quelli rimasti lettera morta).

Non manca nel disegno di legge una nota paternalistica poiché la “buona volontà” americana si esprime nel facilitare i colloqui tra esponenti governativi cinesi e il Dalai Lama. Ciò dovrebbe servire a “risolvere i problemi” (quali problemi non è dato sapere), quando in realtà è chiaro che gli USA si ritengono garanti di un’idea del tutto originale e personale di Giustizia e, dall’alto di universali e democratiche certezze, si sentono in grado di stabilire chi parla con chi.

L’idea dell’indipendenza tibetana è un prodotto dell’aggressione occidentale alla Cina.

Da quando i mongoli unificarono la Pianura Centrale fondando la dinastia Yuan (1279‐1368) il Tibet è stato parte integrante dell’impero cinese in una relazione peculiare tra il governatore (Dalai Lama ) e l’imperatore e il conferimento di feudi ai leader religiosi. Dal 1644, con la dinastia Manciù dei Qing, si  rafforzò il protettorato imperiale; nel 1793, l’imperatore Qianlong emanò il “Decreto imperiale per governare al meglio il Tibet” e creò un nuovo metodo di selezione dei Dalai Lama e Panchen Lama. I Qing si inserirono nel “Grande Gioco” in Asia centrale, infatti nel 1890, al tavolo del Trattato di Calcutta c’erano Gran Bretagna e Cina (non c’era il Tibet), e l’imperatore Qing ebbe il riconoscimento da parte inglese della sovranità sull’altopiano tibetano.

Nell’agosto 1904, i britannici invasero il Tibet e i Qing dovettero accettare un trattato capestro (Convenzione di Lhasa) con rettifiche di confine. Gli anni seguenti sono contrassegnati da continui tentativi di ingerenza delle potenze coloniali e la Gran Bretagna cominciò a coltivare i separatisti, sostenendo la cosiddetta indipendenza tibetana. Nel 1907, Gran Bretagna e Russia firmarono all’insaputa del governo cinese una Convenzione sul Tibet, modificando – in modo surrettizio – il concetto di sovranità con il termine suzerainty[2] Così nel 1911 nacque un Protettorato britannico del Tibet non riconosciuto da altri.

Con la caduta della dinastia Qing, la Repubblica di Cina nel 1912 proclamò l’indipendenza di Xinjiang, Mongolia e Tibet ed emise la prima Costituzione Provvisoria riaffermando la sovranità del governo centrale, stabilendo che “il Tibet è una parte del territorio della Repubblica di Cinai popoli Han, Manciù, Mongolo, Hui e Tibetano sono una sola nazione”, e istituendo l’Ufficio per gli Affari mongoli e tibetani. Nel 1913, il governo britannico organizzò la Conferenza di Simla istigando il rappresentante tibetano a sollevare la questione dell’ indipendenza e rendendo pubblico per la prima volta il concetto di “indipendenza tibetana”. Il rappresentante del governo cinese rifiutò di firmare la Convenzione di Simla, tuttavia gli Inglesi riuscirono ad appropriarsi di un vasto territorio a ridosso del confine con l’India. Nel 1914 nel vertice tra Regno Unito, Cina e Tibet si individuarono i confini territoriali e il Tibet venne suddiviso in “Tibet esterno” (con autonomia amministrativa e formale tutela cinese), e “Tibet interno” (cinese a tutti gli effetti).

Nel 1940, l’Ufficio per gli Affari mongoli e tibetani si stabilì a Lhasa come organo permanente che rappresentava il governo centrale cinese. Ma l’atto più importante di politica internazionale avvenne nel 1948, quando Washington e Mosca riconobbero la sovranità cinese sul Tibet.

Il 1º ottobre del 1949 Mao Zedong proclamò a Pechino la Repubblica Popolare: la Cina veniva liberata ad eccezione dei territori del Tibet e di Taiwan, che rimasero temporaneamente fuori dal controllo dell’Esercito di Liberazione Popolare. Alla liberazione guardavano con favore i ceti sociali sottoposti alla teocrazia feudale lamaista e tutti i tibetani di Gansu, Qinghai, Sichuan e Yunnan. Il X Panchen Lama nello stesso 1° ottobre inviò un messaggio al presidente Mao e al comandante dell’Esercito di Liberazione in segno del suo “supremo rispetto e pieno supporto” e chiese di “spedire le truppe per liberare il Tibet, espellere le forze imperialiste”. Il popolo tibetano, infatti, non aveva alcuna intenzione di ostacolare la presenza cinese, poiché guardava con speranza allo smantellamento del servaggio feudale. La liberazione era, al contrario, osteggiata dai governanti locali tibetani e da gruppi indipendentisti. Vicende queste oscurate dalla propaganda occidentale anti-cinese scatenatasi dopo la vittoria comunista. L’Accordo in 17 punti, noto come Trattato di liberazione pacifica del Tibet, stipulato il 23 maggio 1951 tracciava il consenso tra la parte tibetana e quella cinese.

Tra 1956 – 59 gruppi di ribelli tibetani – incoraggiati, finanziati e sostenuti dalla CIA – organizzarono attacchi armati. Nel 1957 la CIA reclutò giovani tibetani residenti all’estero e addestrò 170 guerriglieri Khampa, successivamente paracadutati in Tibet e riforniti di armi per lanciare quello che venne chiamato dagli USA un “movimento di resistenza efficace”. Il Tibet diventò così un banco di prova dello scontro ideologico-militare della Guerra Fredda, al fine di destabilizzare la Cina comunista e sviluppare il modello di attacco messo in atto in seguito in Vietnam. Nel 1959 la ‘Grande rivolta’ di Lhasa, controllata con decisione da Pechino, determinò la fuga del Dalai Lama in India insieme a gran parte dell’élite feudale. Eppure, in tutte le fonti occidentali di notizie, il 28 marzo 1959 è pateticamente lamentato come la “Fine dell’indipendenza del Tibet” senza alcun rispetto per la verità storica e senza alcuna chiarezza su cosa il Diritto Internazionale intenda per “Indipendenza”. Invece in Cina il 28 marzo 1959, giorno in cui il Tibet veniva liberato dalla schiavitù teocratica, è festeggiato come il “Giorno della Liberazione degli Schiavi”.

E qui corre l’obbligo rammentare il Programma tibetano della CIA, che si è sistematicamente occupata di accentuare le tensioni etniche incoraggiando separatismo e rivolte. I documenti della CIA declassificati nel 1998 fanno luce sulle operazioni segrete statunitensi in Tibet negli anni Cinquanta e Sessanta, dimostrando che le cosiddette “proteste pacifiche e spontanee” dei sostenitori del Dalai Lama, in realtà furono attività di propaganda, spionaggio, sabotaggio e operazioni paramilitari previste dal programma della CIA che era basato sugli impegni presi dal governo USA con il Dalai Lama tra 1951 e 1956. Da allora gli Stati Uniti e gli alleati NATO hanno sostenuto ogni movimento separatista contro i loro rivali geostrategici e provocato una lunga scia di sangue e di vittime. Immolazioni di monaci e rivolte fomentate dal ‘clero degli esuli’ (la più imponente del 2008 repressa necessariamente dalla polizia cinese), denunce di Diritti Umani universali violati e di ‘genocidio culturale’ hanno contrassegnato anni recenti.

Sviluppo del Tibet

Il 1° settembre 1965 è riconosciuta l’Autonomia della Regione Tibet-Xizang come Provincia della Cina a statuto speciale, segue nel 1984 la Legge sull’Autonomia etnica regionale.

La trasformazione socio-economica in senso socialista si prefiggeva, come più volte sottolineato da Mao Zedong, di “non lasciare indietro nessuno” e riformare attraverso la redistribuzione dei profitti e delle proprietà fondiarie il privilegiato ‘Sistema dei Monasteri’, ed era anche costantemente rivolta a non danneggiare una parte, ma a garantire una realizzazione equilibrata. Deng Xiaoping accettò con entusiasmo l’incarico affidatogli da Mao Zedong di gestire lo sviluppo del Tibet pianificando la liberazione pacifica e creando un dipartimento politico specializzato, il “Laboratorio sulla questione tibetana”. Dal 1978 in poi Deng Xiaoping (leader del PCC 1978 – 92) lanciò il programma ‘Riforma e apertura’ e Pechino consentì a riprendere i contatti con il Dalai Lama, ricevendo delegazioni e accogliendo esuli, alla condizione che non fosse sollevata la questione dell’indipendenza.

Lo sviluppo socio-politico del Tibet seguente agli anni Ottanta, con una serie di riforme agricole, commerciali e di comunicazione con il mondo esterno, è stato reso possibile da una macchina organizzativa ben collaudata e da una oculata pianificazione basata sui contributi delle Assemblee popolari locali.

All’inizio degli anni 2000, il governo lanciò il Piano Go-West Strategy, sostenuto dalle minoranze etniche grazie al quale c’è stato un salto di qualità e un’integrazione socio-economica generalizzata con il definitivo passaggio da sottosviluppo-povertà-nomadismo a crescita-stanzialità: tutti gli insediamenti sono raggiunti da servizi essenziali, le questioni ecologiche sono oggetto di numerosi interventi (energie rinnovabili, riforestazione, riserve naturali), il numero degli istituti scolastici ha superato il migliaio, ci sono quattro Università e Istituti di cultura come il China Tibetology Research Center (CTRC)[3] che si occupano di ricerca, salvaguardia e tutela del considerevole patrimonio delle biblioteche monastiche.

Concludendo, molti di noi “osservatori impegnati” sono sicuri che gli abitanti del Tibet non hanno alcun bisogno dell’interessamento e delle interferenze degli Stati Uniti.

Di Maria Morigi

NOTE

[1] Testo definitivo: https://www.congress.gov/bill/118th-congress/senate-bill/138/text

[2] il termine suzerainty indica la posizione di controllo da parte di uno Stato sovrano su uno Stato autonomo.

[3] Il CTRC fondato nel 1986 è formato da 5 istituti per studi sociali ed economici, studi storici, studi religiosi, studi tibetani contemporanei.

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