di Sandro Moiso
Robert W. Chambers, Il Re in Giallo, con una prefazione di Christophe. Thill e una postfazione di Sunand Tryambak Joshi. Illustrazioni di Samuel Araya, L’Ippocampo, Milano 2024, pp. 320, 25,00 euro.
«Non posso dimenticare Carcosa dal cielo cosparso di stelle nere, dove nel pomeriggio si stende l’ombra dei pensieri degli uomini, dove i soli gemelli affondano nel lago di Hali, e il mio spirito sarà sempre ossessionato dal ricordo della Maschera Pallida.»
Non sono certamente mancate le edizioni italiane del classico di Robert Chambers, ma quella edita dalla casa editrice milanese L’Ippocampo, ripresa da quella uscita nel 2022 per le edizioni Callidor di Parigi, sembra essere la prima a rispettare, con il dovuto apparato di testi a cura di Christphe Till e S. T. Joshi, la ventina di illustrazioni di S. Araya e un racconto Ambrose Bierce, l’importanza di un testo che, pur parzialmente estemporaneo nella produzione dell’autore, ha davvero segnato il cammino della letteratura fantastica e dell’orrore moderna.
Robert William Chambers (1865 -1933) nacque a Brooklyn, figlio dell’avvocato William P. Chambers e di Caroline Chambers, diretta discendente del fondatore di Providence, capitale del Rhode Island che avrebbe in seguito dato i natali al più celebre autore americano di romanzi e racconti weird: Howard Phlillip Lovecraft. Robert, di condizione economiche e sociali agiate, dopo essere entrato a vent’anni a far parte della Art Students’ League si recò a Parigi dove ebbe modo di studiare alla École des Beaux-Arts e all’Académie Julian tra il 1886 e il 1893. Periodo durante il quale, più che allo studio e al lavoro d’artista, si dedicò alla frequentazione della bohème del Quartiere Latino.
Al suo ritorno negli Stati Uniti, ebbe modo di lavorare come illustratore per importanti riviste. Solo successivamente, rivolse la propria attività in direzione della scrittura, con il suo primo romanzo, In the Quarter, pubblicato nel 1894. La sua opera letteraria più famosa, The King in Yellow, fu pubblicata l’anno successivo e riscosse immediatamente una straordinaria accoglienza, sia di pubblico che di critica. Facendo sì che la raccolta di dieci racconti, uniti tra di loro dalla presenza malefica di un libro terribile e di un’opera (teatrale) maledetta, venisse ristampata più volte, con grande sorpresa dell’autore stesso.
Dieci racconti in cui, con risultati alterni e non sempre pienamente riusciti, il decadentismo si intreccia con il weird nel binomio romantico di amore e morte, nella descrizione allucinata degli orrori della tomba e delle cripte, attraverso i volti biancastri e mollicci di individui dalla consistenza corporea simile a quella dei vermi che masticano i cadaveri, il desiderio di potere oppure, ancora, esperimenti scientifici prossimi ai sogni degli alchimisti più che ai risultati della scienza moderna. Invenzioni letterarie e artifici narrativi adeguati a mantenere lo sguardo e l’attenzione del lettore incollato alle pagine da cui questi “strani” avvenimenti scaturiscono.
Raggiunta, in questo modo, la popolarità, negli anni successivi Chambers continuò a produrre romanzi e raccolte di racconti che, toccando soprattutto i temi dell’amore romantico, spesso inserito in romanzi di carattere storico ambientati durante la guerra franco-prussiana, quella di secessione americana oppure all’epoca dei pirati e della guerra di indipendenza nei confronti dell’impero britannico, raramente tornarono ad occuparsi del mistero o di temi ricongiungibili al genere weird e quasi mai tornarono a sfiorare l’eleganza delle descrizioni e la tensione raggiunte nel Re in Giallo.
Nella lunga esperienza di scrittore successiva al Re, come afferma Christophe Thill nella sua prefazione al testo, Chambers diede prova di un perbenismo che avrebbe sempre caratterizzato le sue opere, raggiungendo vertici impensabili di insipidità, moralismo puritano, viscerale timore per ogni forma di cambiamento dell’ordine tradizionale dato e, in particolare, di autentica avversione nei confronti di qualsiasi movimento rivoluzionario. Sia che si trattasse della Comune di Parigi, che affrontò nel romanzo The Red Republic già nel 1895, o dei sindacalisti, socialisti, comunisti e anarchici americani o bolscevichi come fece in The Crimson Tide, pubblicato nel 1919 sulla rivista «Cosmopolitan», oppure ancora nel romanzo The Slayer of Souls, del 1920, in cui i rivoluzionari non sono altro che gli ultimi e odiosi discendenti di una setta satanica di origine orientale che affondava la proprie radici in tempi immemori. Probabilmente pre-umani.
Tema quest’ultimo di cui è possibile ritrovare anche traccia nell’opera di Lovecraft, in particolare nel racconto The Horror at Red Hook, e comunque riconducibile a quella Red Scare che attanagliò gli Stati Uniti a partire dalla rivoluzione bolscevica e dalla fine della prima guerra mondiale fino alla metà degli anni Venti. Grande paura dei “rossi”, di cui furono vittime esemplari gli anarchici italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, durante la quale le classi medio-alte americane unirono l’odio per la lotta di classe al timore per l’invasione aliena degli immigrati (soprattutto italiani). Eppure, eppure…
Nel testo ora ripubblicato da L’Ippocampo, l’autore sembra travalicare, a tratti, le proprie convinzioni, e anche se non è possibile separare il successo dell’opera da un’epoca, quella della fine del XIX secolo, in cui la moda per la cultura francese e la letteratura decadente alimentò sia il rifiuto del materialismo che della scienza che lo aveva prodotto, sia il rifiuto del viver borghese che assunse a tratti caratteristiche assolutamente antagonistiche, anche se spesso inconsapevoli, come nelle opere di Oscar Wilde oppure di Bram Stoker e Charles Baudelaire. Appare allora evidente, agli occhi di chi si trova a rileggerlo oggi, che tra le sue righe sono nascoste immagini destinate a rimanere a lungo nella mente di chi le scorre, drammaticamente anticipatrici di tematiche che avrebbero accompagnato a lungo l’immaginario americano, non soltanto letterario e gotico.
Perché non è soltanto l’allucinata poesia posta in apertura a fornire la cifra della dimensione onirica della narrazione, poi ripresa e ampliata da scrittori successivi quali Howard P. Lovecraft, August Derleth, Abraham Merritt, Clark Ashton Smith e infiniti altri fino a Michael Moorcock negli anni Settanta del XX secolo.
Le nuvole si infrangono come onde lungo la costa,
I Soli gemelli affondano nel lago
Mentre le ombre si allungano
A Carcosa.Strana è la notte dove si levano stelle nere,
E lune mai viste solcano i cieli
Ma ancora più misteriosa
è la perduta Carcosa.Le Iadi canteranno canzoni,
Dove si agitano al ventoi cenci del Re
Ma qui moriranno inascoltate
Mentre Carcosa si spegne.Canto dell’anima mia, la mia voce è morta;
Muori anche tu, silenzioso, come lacrime mai piante
Destinate a seccarsi e perire
Nella perduta Carcosa.Da La canzone di Cassilda in Il Re in Giallo, Atto I, Scena 2.
Non è soltanto il richiamo ad Ambrose Bierce, che già nel dicembre del 1886 aveva pubblicato sul «San Francisco Newsletter» un allucinato racconto dal titolo Un cittadino di Carcosa, ripubblicato nell’attuale edizione del Re in Giallo. Carcosa, il cui nome Thill fa risalire ad una sorta di storpiatura nella pronuncia americana del nome della città francese di Carcassonne, dalle imponenti mura medievali conservatesi fino ad oggi, e che può inserirsi bene nella moda decadente e francesizzante della fine del XIX secolo, di cui nei dieci racconti che compongono l’opera restano abbondanti resoconti mediati dalle memorie parigine dello stesso Chambers.
E non è soltanto l’invenzione di un’opera maledetta (Il Re in Giallo, appunto) destinata a rovinare la vita e la mente di chiunque ne entri in possesso o le legga, che rinvia immediatamente al Necronomicon dell‘arabo pazzo Abdul Alhazred ideato successivamente da Lovecraft oppure al De Vermis Mysteriis iinventato da Robert Bloch e, ancora una volta ripreso, dallo scrittore originario di Providence che, comunque, nel corso della sua opera avrebbe citato più volte il romanzo di Chambers. Non soltanto nel suo saggio sulla letteratura del soprannaturale, ma anche nel corso stesso dei suoi romanzi e racconti.
No, non è soltanto tutto questo, perché vi è nelle pagine di alcuni racconti contenuti nel libro l’avvento di quel misto di fantastico e fantascientifico, di cui Lovecraft nel giudizio di Sunand Tryambak Joshi, massimo esperto della vita e delle opere del solitario di Providence, sarebbe stato poi maestro e decisivo fondatore, che avrebbe caratterizzato la migliore letteratura weird del secolo appena trascorso.
Ma si ritrova anche, in tanti dei dieci racconti, quella presenza incancellabile della Morte come destino, sia dei singoli che degli imperi e delle società, che a partire da una concezione puritane e colpevolizzante della Vita e della Storia ha segnato pesantemente la letteratura americana da Poe, Melville e Hawthorne fino a Lovecraft, Hemimgway, Twain e McCarthy.
Senso della morte che si trova fin dalle prime pagine del primo dei racconti, Il Riparatore di Reputazioni (uno dei migliori a giudizio di chi scrive), ambientato in un’America del 1920 in cui è appena terminato un conflitto di carattere imperialistico con la Germania e in cui, come forma di società utopistica, è stata appena inaugurata una sorta di Casa della Morte, in cui i cittadini infelici possono chiedere di ricevere la stessa come ultimo premio e definitiva consolazione.
Un immaginario in cui i temi della follia, della perversione, della morte e dell’arte “maledetta”, tipici della migliore tradizione decadente, si intrecciano quindi con i temi di un imperialismo già in nuce e proiettato su scala mondiale, anche se la vera prima guerra “mondiale” degli Stati Uniti e delle loro forze armate, in questo racconto presenti come in pochi altri della raccolta, quella con la Spagna per il controllo di Cuba e del Pacifico attraverso le Filippine sarebbe venuta soltanto tre anni dopo la sua pubblicazione, nel 1898.
Un libro di presagi, dunque, che vanno ben al di là di quanto, ancora una volta, l’autore avrebbe mai potuto immaginare, dimostrando così che la letteratura e l’immaginario fantastico, spesso, possono rivelarsi superiori, nel definire la realtà che ci attende, al “realismo” più trito e scontato. Ma la modernità del Re in Giallo sta anche nell’intrecciarsi dei racconti, in cui gli eventi e i personaggi non si richiamano soltanto attraverso la citazione dell’opera maledetta, ma per mezzo di un rimescolio di nomi, luoghi e rimandi che sarà il lettore a dover riconoscere e individuare.
Con quest’opera, insieme a Il grande dio Pan di Arthur Machen, sempre accompagnato dalle splendide illustrazioni di Samuel Araya, ispirate soprattutto all’opera del tedesco Arnold Böchlin (1827-1901), l’editore milanese ha iniziato la ripubblicazione di alcuni classici del decadentismo fantastico nella collana Collector; operazione encomiabile sia per il valore letterario delle scelte operate che per l’eleganza della veste grafica, cui non resta che augurare il successo di pubblico e critica.
Non prendiamoci gioco dei folli;
La loro pazzia dura più della nostra…
La differenza è tutta qui.
(Francais Adolphe d’Houdetot)