Le chimere del frontismo e dell’antifascismo elettoralistico: il cadavere ancora cammina

di Sandro Moiso

“Il risultato peggiore, per le sorti della classe proletaria, è l’entrata nel tronfio affasciamento antifascista della parte proletaria che aveva finalmente imboccata la via originale ed autonoma” (Amadeo Bordiga)

Nel corso degli anni Novanta, quando chi scrive faceva ancora parte di una ristretta compagine militante dal chiaro riferimento bordighista, che in seguito avrebbe dato vita alla rivista «n+1», un circolo politico di estrema destra scrisse al medesimo gruppo chiedendo un contatto per una eventuale collaborazione, una volta considerate le possibili affinità di vedute.

La risposta del militante più anziano, allora alla guida dello stesso, fu ferma e decisa, perché: «tra comunisti e fascisti non possono esistere punti in comune e soltanto le condizioni storiche ci impediscono di rapportarci con questi nell’unico modo possibile. Ovvero a colpi di fucile.»

Molta acqua è passata sotto i ponti da quel tempo ad oggi ma, nonostante il fatto che le divergenze di vedute su molti aspetti dell’agire politico abbiano poi portato il sottoscritto a lasciare l’esperienza bordighista, quelle poche parole sono rimaste scolpite nella memoria di chi scrive come chiaro insegnamento. Perché ponevano alcuni ordini di problemi che oggi gran parte della sinistra presunta radicale sembra per molti aspetti ancora ignorare.

Il primo, naturalmente è quello costituito dal semplice fatto che tra l’interpretazione comunista e rivoluzionaria della realtà e delle sue contraddizioni economiche, sociali e politiche, e quella fascista e reazionaria delle stesse non può esistere alcunché di comune, al contrario di quanto recentemente sostenuto da formazioni che, pur rivendicando la vicinanza del proprio agire politico all’esperienza della sinistra antagonista, hanno invece fatto proprie le posizioni nazionaliste e populiste tipiche del fascismo.

Il secondo, altrettanto importante, è che la reazione fascista intesa come espressione del dominio di classe in periodi di difficoltà del modo di produzione capitalistico non si può combattere sul piano delle idee o delle convulsioni parlamentari ed elettoralistiche, ma soltanto con una strenua battaglia condotta nelle piazze, strada per strada e in ogni altro spazio politico-sociale che si voglia contendere all’avversario. Quest’ultimo sempre inteso, però, non come erronea deformazione del capitalismo democratico e liberale, ma come sua intima, ultima e definitiva moderna essenza.

Quest’ultima considerazione era già tutta compresa nella relazione sul Fascismo che Amadeo Bordiga aveva presentato, all’epoca dell’affermazione di Mussolini, durante il IV Congresso della Terza Internazionale nel 1922. Una riflessione che si poneva di traverso rispetto qualsiasi teorizzazione di fronte unico dall’alto o interclassista destinato a impedire la vittoria della “reazione fascista”, intesa come nemica non soltanto del proletariato e dei lavoratori ma anche delle stesse classi borghesi al potere e del sempiterno liberalismo.

Una posizione, quella della Sinistra Comunista e di Bordiga, criticata più volte ad opera di chi un Fronte antifascista avrebbe poi perseguito fino alla creazione del CLN e alla susseguente azione politica volta non a superare il fascismo insieme al modo di produzione di cui era stato il prodotto politico e il custode armato, ma soltanto a ristabilire l’ordine liberale e parlamentare precedentemente superato. Senza nulla mutare sul piano dei rapporti sociali di produzione e di proprietà dei mezzi per conseguire l’arricchimento privato a scapito del lavoro socialmente realizzato. Come avrebbe poi ancora affermato l’unico “comunista italiano” degno di questo nome:

Senza dare infatti importanza alcuna al pronostico o al compulsamento delle statistiche dei risultati, cui da oltre trent’anni contestiamo anche questa ultima affermata utilità di indice quantitativo delle forze sociali, e senza quindi tentare il freddo schizzo o ammirare la pallida fotografia in numeri dell’oggi [dimostreremo come] In diverse situazioni e sotto mille tempi, la storia ha convinto che migliore diversivo della rivoluzione che l’elettoralismo non può trovarsi.
[…] Se questo ancora una volta rammentiamo, è per stabilire lo stretto legame tra ogni affermazione di elettoralismo, parlamentarismo, democrazia, libertà, ed una sconfitta, un passo indietro del potenziale proletario di classe. La corsa all’indietro ebbe il suo compimento senza più veli quando […] in situazioni capovolte, il potere del capitale prese l’iniziativa di guerra civile contro gli organismi proletari. La situazione era capovolta in grande parte per il lavoro della borghesia liberale e dei socialisti democratici, della stessa destra annidata nelle file nostre, [che] dettero mano alla preparazione delle aperte forze fasciste, usando all’uopo magistratura, polizia, esercito (Bonomi) per contrattaccare ogni volta che le forze illegali comuniste (sole, e in pieno “patto di pacificazione” da quei partiti firmato) riportavano successi tattici (Empoli, Prato, Sarzana, Foiano, Bari, Ancona, Parma, Trieste, ecc.). Che in questi casi i fascisti, non avendolo potuto da soli, coll’aiuto delle forze dello Stato costituzionale e parlamentare massacrassero i lavoratori e i compagni nostri, bruciassero giornali e sedi rosse, non costituì il massimo scandalo: questo scoppiò quando se la presero col Parlamento ed uccisero, ormai post festum, il deputato Matteotti. Il ciclo era compiuto. Non più il Parlamento per la causa del proletariato, ma il proletariato per la causa del Parlamento. Si invocò e proclamò il fronte generale di tutti i partiti non fascisti al di sopra di diverse ideologie e diverse basi di classe, con l’unico obiettivo di unire tutte le forze per rovesciare il fascismo, far risorgere la democrazia, e riaprire il Parlamento. Più volte abbiamo riportato le tappe storiche: l’Aventino, cui la direzione del 1924 del nostro partito partecipò, ma da cui dovette ritirarsi per la volontà del partito stesso che solo per disciplina aveva subito le direttive prevalse a Mosca, ma ancora serbava intatto il suo prezioso orrore, nato da mille lotte, ad ogni alleanza interclassista; poi la lunga pausa e la ulteriore scivolata nella emigrazione, fino alla politica di liberazione nazionale e guerra partigiana, come più volte abbiamo spiegato che l’uso di mezzi armati ed insurrezionali nulla toglieva al carattere di opportunismo e tradimento di una tale politica. Non seguiremo qui tutta la narrazione. Fin da prima del fascismo italiano e dall’altra guerra ne avevamo abbastanza per sostenere che nell’Occidente di Europa mai il partito proletario doveva accedere a parallele azioni politiche con la borghesia “di sinistra” o popolare, della quale da allora si sono viste le più impensate edizioni: massoni anticlericali una volta, poi cattolici democristiani e frati da convento, repubblicani e monarchici, protezionisti e liberisti, centralisti e federalisti, e via. Di contro al nostro metodo che considera ogni moto “a destra” della borghesia, nel senso di buttare la maschera delle ostentate garanzie e concessioni, come una previsione verificata, una “vittoria teorica” (Marx, Engels) e quindi un’utile occasione rivoluzionaria, che un partito rettamente avviato deve accogliere non con lutto ma con gioia, sta il metodo opposto per cui ad ognuna di quelle svolte si smobilita il fronte di classe e si corre al salvataggio, come pregiudiziale tesoro, di quanto la borghesia ha smantellato e schifato: democrazia, libertà, costituzione, parlamento1.

Lasciando il tempo e lo spazio per riprendere ancora più avanti le osservazioni di Bordiga sulla farsa elettorale e la sue reale funzione controrivoluzionaria, occorre qui sottolineare come in Francia, nonostante l’imbecille esultanza sulla sconfitta elettorale di Marine Le Pen e del suo partito populista (si badi bene alla scelta dell’aggettivo), questo quadro si sia ripetuto per l’ennesima volta e all’ennesima potenza.

Tra l’inizio di giugno e la prima tornata delle elezioni legislative francesi il carrozzone autoritario, bellicista e centralizzatore, spacciato per liberal-democratico, europeista aveva subito, particolarmente in Francia e Germania, uno scossone senza precedenti con uno spostamento di voti che, pur rimanendo valide le osservazioni di Bordiga più sopra riportate, indicava una sorta di ribellione degli elettori, o almeno di ciò che rimane ancora attivo del corpo elettorale, contro le politiche della Banca centrale europea e dei suoi rappresentanti politici a livello istituzionale e nazionale.

In particolare in Francia, dove il traballante presidente della Repubblica, ha scelto la sera stessa della “sconfitta europea” di indire nuove lezioni legislative, creando ad arte la “paura” per un’ascesa del “fascismo” al governo della nazione. Scelta un tantino azzardata che ha visto alla fine della prima tornata elettorale una situazione in cui il partito del presidente ridursi al lumicino, con il Rassemblement National e gli alleati in testa con il 33,14% dei consensi; Nuovo Fronte Popolare con il 27,99%; il partito del presidente Ensemble con il 20,4% e i Repubblicani con 10,7% .

Mentre alle precedenti elezioni legislative i risultati elettorali avevano visto il partito della Le Pen raggiungere il 18,68% con 89 seggi; il partito di Macron il 25,75% al primo turno e il 38,57 al secondo, con 245 seggi; la sinistra della Nouvelle Union Populaire il 25,8% al primo turno e il 31,60 al secondo, con 131 seggi e i gollisti repubblicani (non ancora divisi dalla scelta elettorale dell’ex-leader Eric Ciotti) il 10, 42 con 61 seggi.

E’ stato dopo il risultato del primo turno che la sinistra e il suo (?) leader Jean-Luc Mélenchon hanno gettato del tutto la maschera di strumenti del mantenimento dell’ordine borghese il/liberale, dichiarando aprioristicamente un patto di desistenza per tutti quei collegi in cui il secondo turno avrebbe potuto vedere una possibile triangolazione elettorale tra rappresentati del RN, del Fronte popolare e del partito di Macron. Che, ricordiamolo sempre, è un sostenitore e promotore dello sforzo bellico europeo nel contesto del confronto militare sul fronte ucraino. Questione dirimente che, da sola, avrebbe dovuto essere sufficiente a promuovere il rifiuto di qualsiasi alleanza elettorale con lo stesso.

Cosa che, invece, ha aperto la strada ad un sostanziale salvataggio del partito del presidente che è uscito dal secondo turno con 168 seggi a fronte dei 182 seggi al Nuovo fronte popolare e dei 143 alla Le Pen. Che, comunque, esce tutt’altro che sconfitta dal confronto elettorale, considerato che «nel 2017 il Rassemblement National aveva solo 6 deputati nell’Assemblea nazionale. Nelle elezioni legislative del 2022 è balzato a 89 deputati. Il 7 luglio ne ha ottenuti 143, il che è il contrario di un fallimento […] Inoltre ha raccolto quasi 10 milioni di voti – nel 2022 ne aveva ottenuti solo 4,2 – contro i 7,4 milioni del Nouveau Front Populaire e i 6,5 milioni del centro macroniano»2.

Così la scelta “radicale” del Fronte Popolare invece di contribuire ad affossare definitivamente il guerrafondaio Macron, soddisfacendo la volontà di milioni di francesi che, da un lato o dall’altro della barricata3, si erano illusi di poter eliminare le sue politiche repressive, economiche e militari con il voto, ha finito col salvaguardarne il governo, considerato che al momento attuale, nonostante la prosopopea melenchoniana, il presidente ha per ora respinto le dimissioni del primo ministro Attal chiedendogli di rimanere ancora in carica in attesa degli sviluppi della situazione politica venutasi a creare con il voto. In cui nessuno ha raggiunto la maggioranza assoluta dei seggi e in cui i conteggi per le alleanze possibili per raggiungerla si rivelano difficili e contraddittori.

Almeno in apparenza, considerato che fin dai giorni successivi al primo turno una parte dell’elite macroniana si era dichiarata indisponibile a votare i candidati di sinistra ritenendoli, come ha affermato il ministro delle Finanze francese Bruno Le Maire alla radio France Inter: «un pericolo per la nazione», aggiungendo che, pur incoraggiando gli elettori a scegliere candidati di altri partiti di sinistra nei luoghi in cui un candidato centrista si è ritirato dalla corsa, non avrebbe “mai” invitato a votare Lfi (La France Insoumise).

Rivelando che, alla fin fine, la borghesia “liberale” preferirà sempre la Destra reale alla Sinistra “radicale”, anche se fittizia e niente affatto “Insoumise”. Di modo che al secondo turno lo schieramento rappresentato dal desistente Mélenchon ha perso il 2,44% degli elettori rispetto al primo turno, fermandosi a 7.005.527 di voti. Abbastanza rispetto ai 6.315.555 del blocco macroniano, poco guardando i 10.110.011 raccolti dai lepenisti. In un contesto in cui l’affluenza elettorale è aumentata rispetto alla prima tornata del 30 giugno.

Tutto sommato, come hanno confermato i voti, senza indebolire la destra lepenista che ha quasi raddoppiato i seggi rispetto al 2022 e che, in futuro, a fronte di proteste sociali e difficoltà economiche, potrebbe diventare la “miglior scelta” per la borghesia e l’imprenditoria francese. E che oggi non lo è ancora forse soltanto perché non abbastanza centralizzatrice e fascista, nell’intima essenza del termine che poco ha a che fare con il “semplice” razzismo4 o la negazione dei diritti di alcune categorie sociali (la cui repressione ha sempre funzionato benissimo anche solo per mezzo della Chiesa e dei partiti ad essa affiliati, anche quando si definiscono ”democratici”) e molto con la riorganizzazione e centralizzazione delle decisioni di carattere economico-industriale e finanziario e l’integrazione della classe lavoratrice nelle esigenze dello Stato e dell’imprenditoria.

Ora, per non tradire ulteriormente l’assunto bordighiano sulla scarsa significatività politica del voto e delle elezioni, dal punto di vista di classe, occorre ricordare, come ha fatto recentemente un bell’articolo comparso su Infoaut5, che dal punto di vista elettorale e politico esistono comunque, in Francia, due ben distinti punti di vista che continuano a segnare uno spartiacque, in termini di analisi e di percezione dei fenomeni, «tra chi pratica il terreno della lotta, attraverso forme di organizzazione proprie e specifiche all’interno dei quartieri popolari dove vive la maggior parte delle persone razzializzate e chi invece proviene dalla tradizione dei movimenti di lotta “della metropoli”, che pur avendo visto negli ultimi 10 anni una composizione di classe differenziata, sono per la maggior parte portati avanti da persone bianche». Per continuare, poi, sostenendo che:

Da questi ultimi, infatti, il sostegno al NFP viene interpretato nei termini di una necessità contingente che vede una forma di ricomposizione del politico su un piano di carattere emergenziale, legato a doppio filo ad una narrazione di segno quasi apocalittico che descrive la possibile (e probabile) vittoria dell’RN come l’avvento del fascismo tout court.
[…] La sensazione che emergeva da quel contesto era che, per la prima volta, gran parte dei movimenti di lotta metropolitani sentissero molto concreto il rischio connesso ad uno stato di guerra civile, ovvero di uno scontro sociale in seno alla società dispiegato in maniera quasi-permanente, e nel quale una delle due forze in campo esiste, ma non è sufficientemente organizzata, mentre l’altra, quella fascista, avrà dalla sua parte il governo e vedrà la polizia come suo principale alleato. Diciamo per la prima volta, perché ci sembra che il punto stia tutto qui: nella percezione inedita del rischio di venire “espulsi” dal quadro di un ordine politico di cui si può scegliere di fare parte, sebbene in maniera più o meno critica o totale – in quanto bianchi, in quanto cittadini francesi ed anche, in parte, in quanto militanti politici. Un rischio che si intravede verosimilmente all’orizzonte è dunque quello di non ricadere più sotto la “protezione” e la tutela di risorse ancora esigibili da una forma di diritto repubblicano, quello di non giocare più la partita su un terreno in qualche maniera conosciuto e regolamentato, ma di avere, improvvisamente, a che fare con il dispiegamento di una violenza che fa collassare l’ordinamento sociale sulla legge del più forte, e lo fa avvalendosi di tutte le tecniche di contro insorgenza che le forze armate sperimentano da secoli nelle colonie, nelle periferie – e, parzialmente, anche nei recenti scontri di piazza e sgomberi delle autonomie – e di tutti i principi di esclusione sociale propri di un ordinamento giuridico che si struttura su fondamenta patriarcali, razziste e classiste6.

Sottolineando così quella percezione di una possibile guerra civile dispiegata dallo Stato e dalle forze del dis/ordine di cui chi scrive va parlando su Carmilla e in altre sedi e testi da diverso tempo a questa parte7, ma che deve accompagnarsi anche al punto di vista di chi quella “guerra civile” già la vive da anni sulla propria pelle.

È inevitabile non constatare una differenza tra questa percezione del tutto giustificata che si ritrova nei milieux militanti francesi e quella di chi, invece, questa violenza la sperimenta da sempre sulla propria pelle all’interno dei quartieri popolari, proprio perché essa è la cifra dell’imposizione di un ordine sociale. L’ordine democratico – che al grado zero della biopolitica si fa garante anche solo della mera sopravvivenza di chi ne fa parte – non esiste per la maggior parte degli abitanti dei quartieri se non nella forma del nemico. […] Lo ricorda una madre dei comitati «Verità e Giustizia» (nati in Francia per volontà di chi ha avuto figli o parenti assassinati dalla polizia) che: «i quartieri popolari ed i loro abitanti razzializzati sono sotto attacco da anni».
Nel corso della marcia per Nahel, a Nanterre – organizzata proprio da uno di questi comitati al cui centro sta soprattutto la mamma, Mounia – una compagna dei quartieri afferma che: «Il fascismo, nei quartieri popolari, c’è già: negli omicidi della polizia, nell’ordine sociale razziale imposto con la violenza, nel modo in cui i fascisti marciano pubblicamente per Parigi minacciandoci di morte mentre in mezzo a loro si trovano apertamente dei poliziotti che sostengono e partecipano alle loro spedizioni punitive».
Questa testimonianza evidenzia bene la discrasia tra soggettività non razzializzate, che concepiscono il possibile avvento al governo dell’estrema destra nei termini di uno “choc”, di un cambiamento annunciato, ma che vede un’accelerata nel suo inveramento, e una componente che invece riconosce il fascismo quotidianamente, perché espressione militarizzata e ultraviolenta di un dominio imposto da un ordine repubblicano di cui essi non possono fare parte perché “neri, arabi, abitanti di banlieue”. Il fascismo si presenta nei quartieri popolari sotto forma di una costante invarianza, tesa ad imporre manu militari un ordine che include ed esclude sulla base della linea del colore, che su di essa determina i rapporti di classe e di dominio all’interno dello Stato, e che necessita di un altissimo grado di violenza per assicurare la propria riproduzione.
[…] Questa questione della guerra civile – che da parte popolare e del fronte antifascista viene ripresa comprensibilmente nei termini di una “guerra razziale” – è già qua nel momento in cui la polizia spara impunemente nei quartieri, nel momento in cui è stata organizzata addirittura una raccolta fondi per il poliziotto assassino di Nahel che ha raggiunto oltre un milione e mezzo di euro. In Francia, uccidere un ragazzino dei quartieri non solo è permesso e previsto dalla legge, ma un pezzo di paese è convintamente disposto a sostenere economicamente l’assassino: fare i sicari della repubblica all’interno dei quartieri popolari può diventare, come in ogni conflitto informale parastatale, un’attività lucrativa.
Nel corso della rivolta del 2023, la sollevazione nei quartieri popolari è stata enorme, in termini di numeri di giovani e giovanissimi coinvolti, di obiettivi attaccati, di radicalità. Per l’occasione, le istituzioni avevano dovuto accompagnare la risposta repressiva dispiegata alla rievocazione di discorsi imperniati su cliché etnico-razziali: la violenza “improvvisa e incontrollabile” che può essere ricondotta solo ad un certo tipo di identità, quella nera, araba e soprattutto musulmana – confessionalmente esteriore ai principi fondanti dell’ordine sociale repubblicano d’impronta europea e occidentale8.

Colonialismo interno e internazionale (si pensi soltanto alle diverse valutazioni date dal governo fracese e dagli altri governi europei sui crimini di guerra quando si tratti di fronte russo-ucraino oppure di Gaza e delle operazioni militari là condotte da Israele e dalle sue forze armate) che si sposano nella repressione interna di un proletariato razzializzato e per questo non ancora recepito come tale dalla sinistra istituzionale e parlamentarista che più che di una questione di classe pare farne troppo spesso una questione di diritti individuali o di carità cristiana.

Proletariato ghettizzato che rappresenta il vero pericolo per la borghesia benpensante e “illuminata” francese ed europea, che in questi giorni non ha brindato tanto al fatto che la l’estrema destra non abbia raggiunto “le più alte cariche dello Stato”, come aveva paventato Macron qualche giorno prima della second tornata elettorale, quanto piuttosto all’esser riuscita ancora una volta a racchiudere la rabbia dei quartieri periferici nel recinto elettoralistico, sempre e comunque destinato alla sconfitta e al mantenimento dell’ordine borghese. Mentre già a Sinistra, anche nella stessa France Insoumise, circolano le voci di un possibile appoggio della parte moderata ad un governo non facente capo al Nuovo Fronte Popolare9.

Una sconfitta in cui l’apparente “caos” post-elettorale potrebbe garantire la formazione di un governo tecnico, come già ventilato nei giorni scorsi, magari retto da Christine Lagarde o da altri rappresentanti della Banca Centrale europea, autentico centro del comando capitalistico e finanziario sulla società e l’economia del continente. Da un punto di vista non impregnato di banali e semplificatori ideologismi, l’autentica espressione del “fascismo europeo”.

Il ciclo si è dunque svolto così. Punto di partenza: leale alleanza fra tre schiere di egualmente fervidi amici della Libertà per annientare la Dittatura e la possibilità di ogni Dittatura. Uccisione della Dittatura Nera. Punto di arrivo: scelta fra tre vie ognuna delle quali conduce a una nuova Dittatura più feroce delle altre. L’elettore che vota non fa che scegliere tra Dittatura diverse. Due metodi fanno qui storicamente bancarotta, sotto tutti i punti di vista, ma soprattutto sotto quello della classe proletaria che a noi interessa. Il primo metodo è quello dell’impiego dei mezzi legali, della costituzione e del parlamentarismo con un vasto blocco politico al fine di evitare la Dittatura. Il secondo è quello di condurre la stessa crociata e formare lo stesso blocco sul terreno della lotta con le armi, quando la dittatura è in atto, al solo democratico fine. I problemi storici di oggi li scioglie non la legalità ma la forza. Non si vince la forza che con una maggiore forza. Non si distrugge la dittatura che con una più solida dittatura. È poco dire che questo sporco istituto del Parlamento non serve a noi. Esso non serve più a nessuno. […] L’inviato di un giornale londinese ha descritto una scena alla quale giura di aver assistito con i suoi occhi mortali, ben sano di mente e libero da fumi di droghe, in una valle del misterioso Tibet. Nella notte lunare il rito aduna, forse a migliaia, i monaci vestiti di bianco, che si muovono lenti, impassibili, rigidi, tra lunghe nenie, pause e reiterate preghiere. Quando formano un larghissimo cerchio si vede qualcosa al centro dello spiazzo: è il corpo di un loro confratello steso supino al suolo. Non è incantato o svenuto, è morto, non solo per la assoluta immobilità che la luce lunare rivela, ma perché il lezzo di carne decomposta, ad un volgere della direzione del vento, arriva alle nari dell’esterrefatto europeo. Dopo lungo girare e cantare, e dopo altre preghiere incomprensibili, uno dei sacerdoti lascia la cerchia e si avvicina alla salma. Mentre il canto continua incessante egli si piega sul morto, si stende su di lui aderendo a tutto il suo corpo, e pone la sua viva bocca su quella in disfacimento. La preghiera continua intensa e vibrante e il sacerdote solleva sotto le ascelle il cadavere, lentamente lo rialza e lo tiene davanti a sé in posizione verticale. Non cessa il rito e la nenia: i due corpi cominciano un lungo giro, come un lento passo di danza, e il vivo guarda il morto e lo fa camminare dirimpetto a sé. Lo spettatore straniero guarda con pupille sbarrate: è il grande esperimento di riviviscenza dell’occulta dottrina asiatica che si attua. I due camminano sempre nel cerchio degli oranti. Ad un tratto non vi è alcun dubbio: in una delle curve che la coppia descrive, il raggio della luna è passato tra i due corpi che deambulano: quello del vivo ha rilasciato le braccia e l’altro, da solo, si regge, si muove. Sotto la forza del magnetismo collettivo la forza vitale della bocca sana è penetrata nel corpo disfatto e il rito è al culmine: per attimi o per ore il cadavere, ritto in piedi, per la sua forza cammina. Così sinistramente, una volta ancora, la giovane generosa bocca del proletariato possente e vitale si è applicata contro quella putrescente e fetente del capitalismo, e gli ha ridato nello stretto inumano abbraccio un altro lasso di vita10.


  1. A. Bordiga, Il cadavere ancora cammina, Sul filo del tempo, 1953.  

  2. Luigi Mascheroni, intervista a Alain de Benoist, “Élite contro il popolo. All’Eliseo è riuscito un golpe istituzionale. Le Pen? Non è morta”, il Giornale 9 luglio 2024.  

  3. Una parte consistente dell’elettorato lepenista è arroccato in quella Francia del Nord e del Nord est un tempo baluardo dei PCF che, con la chiusura di fabbriche e miniere, ha visto la diffusione di una vasta e motivata disillusione nei confronti delle promesse della Sinistra che ha fatto sì che l’aumento dell’affluenza sia andato tutto a favore della destra (fonte: Askanews, 1 luglio 2024). Si veda a tale proposito anche Aurélie Filippetti, Gli ultimi giorni della classe operaia, il Saggiatore, Milano 2004.  

  4. Che si sviluppò ben prima dell’avvento del Fascismo e che, come hanno rivelato i recenti movimenti di rivolta contro i monumenti dedicati a schiavisti ed esponenti del colonialismo “bianco” occidentale, proprio nelle concezioni e nelle pratiche del liberalismo imperiale ottocentesca affonda le sue reali radici. Si veda, a tal proposito, il recentissimo: C. Elkins, Un’eredità di violenza. Una storia dell’Impero britannico, Giulio Einaudi editore, Torino 2024 (edizione in lingua originale inglese 2022).  

  5. Tempo delle elezioni e tempo della rivolta, InfoAut – giovedì 4 luglio 2024.  

  6. Tempo delle elezioni e tempo della rivolta, InfoAut – giovedì 4 luglio 2024.  

  7. Si veda: S. Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del Terzo millennio, il Galeone Editore, Roma, 2021.  

  8. Tempo delle elezioni e tempo della rivolta, cit.  

  9. Si veda, a solo titolo di esempio, la seguente notizia riportata dall’agenzia ANSA in data 9 luglio: PARIGI, 09 LUG – Dissidenti de La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon hanno proposto agli ecologisti e ai comunisti – altre due componenti del Fronte Popolare insieme ai socialisti – di creare un nuovo gruppo parlamentare. Fra i dissidenti ci sono dirigenti di primo piano di Lfi, come Clémentine Autain, François Ruffin e Alexis Corbière. In una lettera ai vertici dei Verdi e del Pcf – di cui ha dato notizia la tv Bfm -, annunciano di non voler più far parte del gruppo degli Insoumis. La presa di distanza da Lfi e dall’ipotesi di Mélenchon premier potrebbe essere il primo passo verso una trattativa per creare una coalizione con i moderati.  

  10. A. Bordiga, Il cadavere ancora cammina, cit.  

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