Lo Hobbit. A novembre la nuova traduzione… firmata Wu Ming 4

Lo Hobbit

La prima fiaba

Forse perché Lo Hobbit è all’apparenza un romanzo per ragazzi, cioè scritto come una fiaba, in un linguaggio molto semplice e con una trama poco intricata, in Italia non aveva mai avuto un trattamento adeguato. Non che all’altro romanzo di Tolkien fosse andata meglio, anzi, ma per motivi diversi. Non era infatti lo stile letterario dello Hobbit ad avere bisogno di un occhio di riguardo, come è stato per il suo celeberrimo sequel finalmente ritradotto nel 2020, quanto piuttosto la coerenza d’insieme. Sembra incredibile, ma a mezzo secolo dalla prima pubblicazione in Italia, quella che verrà pubblicata a novembre è la prima traduzione integrale e coerente. È integrale, perché non ha sottotitoli posticci o fantasiosi, e presenta la nota introduttiva per intero, senza tagli, come invece era stato nelle edizioni precedenti; ed è coerente perché le scelte traduttive provano a rispecchiare l’originale senza modifiche per i palati italiani. Sul sito dell’Associazione Italiana Studi Tolkieniani si può leggere un articolo che spiega bene tutto questo.

Ma questa edizione è integrale anche in un altro senso. Infatti per la prima volta insieme al romanzo compaiono anche tutti i disegni preparatori e d’accompagnamento realizzati da Tolkien – che era un illustratore dilettante niente male e con un tratto particolarissimo, vagamente naif: dai bozzetti, agli sketch delle mappe, fino alle illustrazioni rifinite per la stampa e in certi casi anche colorate in post-produzione. Si potrà leggere il romanzo seguendone passo passo anche l’ideazione visiva da parte dell’autore. Ne esce un volume veramente pregiato, all’immodica cifra di €30, che però li vale tutti. 

Dopo averlo studiato per anni, averci fatto sopra laboratori di lettura e scrittura creativa all’università, Wu Ming 4 ha accettato la proposta di ritradurlo da parte dell’editore Bompiani. In questi giorni è stato annunciato che sarà in libreria il 6 novembre, ma ci saranno anticipazioni qua e là. Quindi chi nutre interesse per la materia resti con le antenne dritte.

Lo Hobbit è il punto d’inizio della carriera narrativa di Tolkien. La cosa non può non esercitare un fascino particolare per chi apprezza l’autore. Dopo essere tornato dai pantani della Prima guerra mondiale,  Tolkien aveva lavorato alla stesura delle storie di un mondo fantastico, una sorta di versione alternativa del nostro mondo, dalla cosmogonia fino all’avvio del tempo storico. Parallelamente però, aveva l’abitudine di raccontare storie ai suoi figli, la sera, davanti al camino, e di metterle per iscritto. Al centro di queste storie c’era spesso un omuncolo con i piedi pelosi, che battezzò “hobbit”.

Piano piano la storia di questo personaggio finì per insinuarsi nel quadro più ampio del mondo che stava edificando. Entrò dalla porta di servizio, ma finì per prendersi il posto da protagonista, perché nel 1937 quel “manoscritto domestico” guadagnò la via della pubblicazione, apprestandosi a diventare un classico della letteratura per ragazzi. Il successo di pubblico spinse l’editore a chiedere “più hobbit”, cioè un sequel. Tolkien avrebbe voluto continuare a scrivere e pubblicare le storie antiche di quel mondo fantastico, che avevano al centro gli affascinanti elfi, nobili uomini e donne, demoni e dèi, ma l’editore voleva altro, voleva gli hobbit, con la loro modernità e comicità. E così Tolkien si spremette le meningi per farsi venire in mente una nuova storia dello stesso genere. Ci avrebbe messo una dozzina d’anni a scriverla e altri cinque a pubblicarla. Il Nuovo Hobbit sarebbe diventato Il Signore degli Anelli, ovvero l’unione definitiva tra il suo mondo creato e le vicende di quei buffi esseri singolarmente fuori posto.

Un ragazzo di mezza età, la distopia di genere e la menzogna dell’epica

Dunque lo hobbit è stato l’intruso che si è imposto al centro del grandioso scenario della Terra di Mezzo come fulcro decisamente inaspettato. Bilbo è un cinquantenne che non ha mai fatto niente di interessante nella vita, finché un vecchio mago vagabondo non lo trascina fuori di casa insieme a una compagnia di nani squinternati, in un’avventura dalla quale tornerà cambiato, consapevole, e felicemente privato della sua rispettabilità borghese. Lo Hobbit è un romanzo di formazione il cui protagonista è un uomo di mezza età che deve scoprire chi è, perché fino a quel momento si è negato questa possibilità. Non proprio la premessa di un romanzo “per ragazzi”, se non fosse che quella consapevolezza di sé passa attraverso la riscoperta di uno sguardo infantile sul mondo, un “credere alle favole” che non è autoillusione, ma proiezione di sé oltre il dato, oltre le consuetudini consolidate, non accettazione del discorso dominante (“adulto”) per cui l’unico mondo possibile è quello fatto di solida materia tangibile e misurabile. 

Ma Lo Hobbit è anche la riflessione narrativa di un reduce della battaglia della Somme, che come tanti reduci si sarebbe semplicemente e nevroticamente raggomitolato al calduccio del focolare domestico, se non fosse stato infatuato di fiabe, storie, miti, saghe… e non avesse deciso che il trauma, la perdita dell’innocenza di una generazione, doveva essere rielaborato in una chiave narrativa fantastica. Una saga destinata a diventare pietra miliare per un intero genere letterario e tra le più lette di tutti i tempi. 

Nello Hobbit salta agli occhi una cosa enorme: la totale assenza di personaggi femminili. Nemmeno tra le comparse ci sono donne. Ne sono nominate appena tre (la madre di Bilbo, la nonna di Gollum, la sorella di Thorin) ma non compaiono nella storia. L’apparente distopia di genere non è altro che la proiezione di un’esperienza – quella sotto le armi, al fronte, che a sua volta era la prosecuzione della vita nei college di Oxford – che fu la più grande e tragica avventura vissuta dall’autore. Forse Lo Hobbit potrebbe essere letto come uno studio narrativo sui rapporti maschili nelle loro varie sfaccettature (al netto di ogni sfumatura omoerotica, se non implicita e inconscia, perché il Nostro era cattolicissimo).

Non a caso il gran finale è una battaglia di carneficina che con la fiaba ha veramente poco a che spartire, in quella che è forse una delle più clamorose torsioni di genere narrativo mai azzardate, quando perfino quelli che all’inizio sembravano i nani di Biancaneve si trasformano in guerrieri. Una battaglia, quella dei Cinque Eserciti, nella quale il protagonista non ha ruolo alcuno. Correva l’anno 1937, l’Europa marciava al passo dell’oca verso un’altra guerra mondiale, i cui prodromi già si consumavano in Spagna, mentre in Germania il revival dell’eroismo nordico, il culto della bella morte e del “vincere morendo” (F. Jesi) era uno dei pilastri retorici su cui Hitler aveva edificato il nuovo Reich. Il protagonista dello Hobbit, trovandosi nel mezzo di uno scontro campale che volge al peggio, circondato da orde di goblin e branchi di lupi feroci, prevede di averne ancora per poco, e formula un pensiero, una manciata di frasi con le quali J.R.R. Tolkien disintegra ogni appiglio revanscista che gli sia mai stato attribuito:

«“Non ci vorrà ancora molto,” pensò Bilbo, “prima che i goblin conquistino la Porta e noi veniamo tutti massacrati o spinti giù e fatti prigionieri. Vien voglia di mettersi a piangere, dopo tutto quello che uno ha passato. Preferirei che quel maledetto tesoro fosse rimasto al vecchio Smaug piuttosto che lo prendano queste ignobili creature, e che il povero vecchio Bombur, Balin, Fili e Kili e tutti gli altri facciano una brutta fine; e anche Bard, e gli Uomini del Lago e gli allegri elfi. Misero me! Ho ascoltato canzoni su molte battaglie, e ho sempre inteso che la sconfitta potesse essere gloriosa. Sembra molto spiacevole, invece, per non dire angosciosa. Quanto vorrei esserne fuori”.»

I poemi epici mentono. Le canzoni di guerra mentono. La retorica militarista mente. La sconfitta non è gloriosa, crepare e veder crepare i propri compagni non è bello, e l’unica cosa che desidereremmo legittimamente è esserne fuori, scamparla. Qui è il reduce della guerra vera che parla, uno che nel fango della Somme c’era stato e ci aveva lasciato anche un paio dei suoi migliori amici. Perché solo chi non ha vissuto la guerra nei ranghi bassi può credere alla retorica eroico-militarista, appunto (o schermarsi col suo contrario: il cinismo, il distacco, o l’argomento della “triste necessità”). L’uomo comune Bilbo – che pure eroe lo è e lo dimostra in altri frangenti della storia – al massacro si sottrae, grazie a un anello dell’invisibilità, per essere poi sottratto del tutto da una botta in testa che lo lascia svenuto. 

La conservazione del mondo e la menzogna della politica

Certo il conservatorismo dell’autore traspare ampiamente da tutta la storia. Il rimpianto per un tempo in cui persisteva la «quiete del mondo, quando c’erano meno rumore e più verde» è palpabile. Ma al tempo stesso c’è la consapevolezza che quel mondo non possa tornare, che il nastro della storia non possa essere riavvolto, perché nella finzione narrativa gli hobbit esisterebbero ancora, nascosti agli sguardi di noi rumorosa Gente Grossa, rimasti in pochi, ormai prossimi all’estinzione. E non c’è nulla che si possa fare per evitarlo.

Ed è vero che alla moderna società mercantile di Città del Lago, dove demagogia e affari sono intrinsecamente legati, si contrappone la città di Vallea, che alla fine viene rifondata dall’erede del suo antico re, uccisore del drago Smaug. Modernità e antichità convivono fianco a fianco, ma la morale della favola è che la brama di ricchezza porta alla rovina non solo quando è sete di profitti, ma anche e soprattutto quando dell’oro si fa feticcio, simbolo del retaggio famigliare e patriarcale, fino a rimanere psichicamente schiacciati sotto il peso di quel cumulo dorato, come capiterà a Thorin Scudodiquercia, il deuteragonista della storia. Bilbo invece troverà l’equilibrio tra eredità paterna ed eredità materna, e non già in forma di beni e retaggio, ma di consapevolezza e saggezza. Di individuazione, direbbero gli psicologi. L’innegabile conservatorismo che emerge da questa storia mantiene una stranezza e una singolarità irriducibili a qualsivoglia ideologia. 

A questo proposito non meraviglia scoprire che perfino l’opportunistico giovane delfino di Donald Trump, quel J.D. Vance classe 1984 che sembra incarnare il punto di congiunzione tra neocon e alt right, è un superappassionato dell’opera di Tolkien. In Italia di politici che leggono quelle storie in chiave ultrareazionaria ne sappiamo qualcosa. Tuttavia fa riflettere proprio quanto un certo tipo di lettura sia legato a quella retorica del rimpianto e della conservazione che Tolkien trattava con le pinze. Rimpianto per un fantomatico “prima”… prima che quei borghesi sinistrorsi e snob liberassero nella società i grilli che hanno per la testa… prima che la working class bianca venisse lasciata senza lavoro e sostituita etnicamente… prima che le donne volessero decidere la sorte della vita che hanno in grembo… ecc. In realtà è il rimpianto per ciò che quegli stessi politici/opinionisti non possono essere, è una menzogna per non dover ammettere che a vincere è sempre il banco, cioè il sistema di cui loro sono soltanto uno dei tanti ingranaggi, quando non proprio i solerti oliatori del meccanismo stesso a caccia di fortuna personale.

Ognuno di questi rampanti conservatori ultramoderni (i famigerati “sovranisti”), quale che sia la sponda dell’Atlantico su cui si trova, si accanisce a immaginarsi come un Bilbo, un Frodo, o magari un Gandalf (una Galadriel?), che rimpiange la quiete e il verde perduti del mondo, perché in realtà guardando nello specchio con la coda dell’occhio vede un goblin/orco sfruttatore d’umani e abbattitore d’alberi non meno di tutti gli altri. C’è qualcosa di patetico e vagamente autolesionistico in questi politici “ispirati” dalla Terra di Mezzo che vorrebbero essere Théoden e riescono solo a essere Lotho Sackville-Baggins (per chi ha orecchie tolkieniane per intendere). 

C’è invece un cuore cristiano nel romanzo d’esordio di Tolkien che è irriducibile a qualsivoglia autoinfingimento postmoderno. Lo si incontra quando, nelle grotte sotto le montagne, Bilbo compie il suo atto di pietà per Gollum e lo grazia, evitando di ucciderlo. In quel momento Bilbo si identifica con quell’individuo dissociato, schizofrenico, abbrutito, addicted, che non gli ricambierebbe mai la cortesia, anzi che vuole proprio ucciderlo, e che è il personaggio letterariamente più geniale e inquietante messo sulla pagina da Tolkien. Quella del protagonista del romanzo è una manifestazione di sym pàtheia, simpatia come compassione, un soffrire della sofferenza altrui che impedisce a Bilbo il distacco necessario per affondare la spada e che lo fa restare umano nel frangente più critico. Sappiamo che questo gesto, molti anni dopo – sia nel mondo primario, sia in quello secondario – consentirà a Gollum di essere nel posto giusto al momento giusto per cadere con l’Anello in fondo al baratro dove questo verrà distrutto. Ma se la provvidenza si spiega e dispiega sempre ex post, è la salvezza di Bilbo a essere in gioco lì. Lo dirà Gandalf a Frodo nel Signore degli Anelli: Bilbo ha ottenuto l’Anello senza nuocere a nessuno, nemmeno quando avrebbe avuto l’opportunità e forse perfino la ragione di farlo, e questo rifiuto di farsi giustiziere lo ha reso più resistente alla dipendenza, al potere dell’artefatto infernale. Scegliendo la compassione, salvando il più viscido e miserabile essere sulla faccia della terra, Bilbo salva se stesso e si impedisce di diventare davvero come lui. 

Ecco

Ecco, con questi pochi cenni si è provato a dare almeno l’idea del perché anche Lo Hobbit – che passa spesso per il fratello minore del Signore degli Anelli – meritasse una nuova traduzione e un’edizione italiana coerente. In fondo, come si diceva, è il commovente punto d’inizio della bizzarra carriera editoriale di Tolkien, che mezzo secolo dopo la sua morte prosegue ancora. 

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