di Luca Cangianti
Camilla Sten, Il villaggio perduto, traduzione di Renato Zatti, Fazi, Roma 2024, pp. 370, € 19,50 stampa, € 9,99.
Il mio amico Mazzino dice che nelle situazioni di crisi bisogna scendere a una fermata dell’autobus in maniera non programmata e vedere cosa accade. Nel fare mia questa tecnica di gestione dell’equilibrio psichico, l’ho riadattata entrando in una libreria e comprando un libro a caso. Lo scorso luglio, quindi, durante il Festival ad alta felicità in Val di Susa, ho varcato la soglia dell’accogliente libreria Città del Sole di Bussoleno e ho agguantato Il villaggio perduto di Camilla Sten, della quale (colpevolmente) non sapevo nulla.
È un libro stregato, un thriller che non si riesce a metter giù fino all’ultima pagina. Svezia 1959: in un villaggio minerario sperduto tutti gli abitanti scompaiono nel nulla ad eccezione di una neonata e di un cadavere legato ad un palo nella piazza centrale. A distanza di sessant’anni Alice, la nipote di una donna del luogo, decide di realizzare un documentario per cercare nuove risposte al mistero che la ossessiona da sempre.
Il contesto narrativo ci immerge nel mondo ansiogeno dell’industria cinematografica, nella depressione e nell’alcolismo endemici della società scandinava, nei panorami stranianti di una natura che si risveglia dopo il ghiaccio invernale. Le linee narrative, una contemporanea e l’altra ambientata nel 1959, sono inframmezzate da alcune lettere. L’uso del presente e della prima persona nel racconto di Alice spingono il lettore direttamente al centro degli eventi. Silvertjärn agli occhi della film-maker è villaggio spettrale dove non arriva nemmeno il segnale radio: «Gli edifici appaiono come scheletri accusatori, le finestre ci fissano vuote.» Claustrofobico e perturbante, tuttavia, non è solo lo spazio, ma anche lo scorrere del tempo, limitato ai cinque giorni in cui si devono svolgere le riprese per non sforare il budget disponibile.
Alice è una protagonista a tutto tondo perché segnata da ferite profonde che non ha «mai smesso di grattare» e da fantasmi che la obbligano ad agire. Gli altri personaggi con i quali, di volta in volta, confligge o si allea, sono tratteggiati con grande profondità e si rivelano progressivamente al lettore in maniera inattesa.
Sten dirige tutta la strumentazione narrativa come fosse un’orchestra e laddove ravvede il minimo rischio di scivolare nel déjà-vu, con uno scatto di reni passa al registro metatestuale: «In un film ci saremmo abbracciate e saremmo ridiventate amiche per la pelle, ora e per sempre. Non succederà mai.» Il resto lo fanno la suspence, i dialoghi che incalzano la trama, incidenti, rivelazioni e sparizioni sempre più agghiaccianti, il buio abitato da respiri rauchi, nenie inquietanti e immagini ectoplasmatiche. Il problema è che a Silvertjärn non passa più alcun treno per fuggire via e non c’è nemmeno una fermata dell’ autobus. Se ci siamo capitati, dobbiamo rimanere fino alla fine e risolvere l’enigma.