Venezia81 – “Ainda estou aqui”, la potente storia della resistenza di una famiglia distrutta

Il vivace libro “Feliz Ano Velho” di Marcelo Rubens Paiva, pubblicato nel 1982, racconta la storia di un giovane uomo che ha subito la duplice tragedia della “scomparsa” e della morte del padre per mano dei militari e della propria paralisi permanente a seguito di un incidente. Nel 2015 lo scrittore insiste ed entra ancora più nel dettaglio pubblicando “Ainda estou aqui”, tuffandosi nel momento più buio della storia recente del Brasile per raccontare – e cercare di capire – che cosa è successo davvero a Rubens Paiva, suo padre, in quel gennaio del 1971.

Sui 21 anni di dittatura militare in Brasile, dal 1964 al 1985, sono stati realizzati molti film, così come su analoghi regimi dittatoriali nei vicini Paesi sudamericani come Cile o Uruguay, per citarne qualcuno. Non ultimo “Argentina, 1985” di Santiago Mitre, in concorso a Venezia nel 2022. 

Walter Salles non tornava alla Mostra del Cinema dal 2001, lo fa con un lungometraggio che spinge alla memoria collettiva, poiché le violazioni dei diritti umani, le torture sistematiche, gli omicidi e le sparizioni forzate sono una ferita ancora aperta per tantissime persone.

“Ainda estou aqui” è un solido dramma familiare che fa luce su una pagina vergognosa della storia brasiliana. Siamo a Rio de Janeiro tra il 1970 e il 1971, in una pied-à-terre sulla spiaggia, troppo piccolo per accogliere tutte le persone che l’attraversano ma con una tavola sufficientemente grande per ricevere chiunque scelga di fermarsi. Rubens (Selton Mello) è un ingegnere e un ex deputato socialista la cui più grande dedizione del momento è costruire una nuova grande casa dove ospitare la ciurma che ha in carico; sua moglie Eunice (Fernanda Torres), di cui questa storia diventa il racconto, è colei che tiene ordine, dirige, organizza e accoglie le richieste dei cinque figli. Quando Rubens viene improvvisamente arrestato la routine della famiglia Paiva si incrina; quando la polizia militare convoca anche Eunice e la figlia Eliana – che viene rimandata a casa il giorno dopo – l’angoscia e il trauma prendono il sopravvento. Dopo 12 giorni – con dure torture fisiche e psicologiche al corredo – Eunice viene rilasciata, non è riuscita però a sapere cosa è successo e dove si trova il marito e ha davanti una strada in salita che deve necessariamente percorrere per tenere insieme ciò che rimane della sua famiglia. 

Con il governo che si rifiuta di riconoscere persino che Rubens sia stato arrestato, Eunice continua a cercare informazioni, in un contesto in cui i militari danno la caccia a persone comuni sulla base di quasi nulla di concreto. Si mette a studiare il fascicolo dell’avvocato di famiglia e quando inizia a far fatica di fronte a tutte le spese, matura la decisione finale di trasferirsi con i figli a San Paolo e di tornare all’università.

Se è vero che il lutto ha cinque fasi – negazione, rabbia, contrattazione, depressione e accettazione – diverso destino ha davanti chi si confronta con un parente desaparecido, non è un qualcosa che si può accettare e fare pace e come dice Eunice “ci lascia tutti in uno stato di tortura irreparabile”. 

Welles riesce nella tragedia a rendere giustizia alla forza di questa donna e dei suoi figli, prende fedelmente dal romanzo biografico-familiare di Marcelo Rubens Paiva senza esagerare i toni o postando immagini cruente, semplicemente mette in primo piano la dignità di questa madre di famiglia che in mezzo al dolore, si è reinventata. Ha ripreso gli studi, si laurea e si dedica all’avvocatura, diventando una delle maggiori esperte per i diritti dei popoli originari.

Il film, scritto da Murilo Hauser e Heitor Loriga, che si arricchisce con l’incantevole fotografia di Adrian Tejido e l’azzeccata colonna sonora di Warren Ellis, leader dei Dirty Three, è molto politico. Dice che le dittature e i tiranni non sono solo un ricordo del passato. Ci ricorda perché la libertà non dovrebbe mai essere data per scontata, mette in guardia dal dimenticare ciò che è già successo e le macchie di sangue che ha lasciato. 

La morale è che anche quando la dittatura militare ha la sua presa sul Paese, essere felici è un atto di ribellione. La storia si apre con le immagini spensierate di una normale gita di famiglia in spiaggia e si chiude con quella famiglia che si rigenera e cresce, con nipoti già nati e altri in arrivo, tornando a essere un clan rumoroso e gioioso come quello rappresentato nelle scene di apertura. Rubens Paiva era un uomo profondamente amato da coloro che ha lasciato e nonostante una dittatura sadica abbia provato a cancellarlo, non c’è mai riuscita.

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