Quando la necessità si fa virtù, la decrescita scompare

Un contributo di Massimiliano Pera del circolo di Lucca.

Il pensiero della decrescita descrive un mondo che non esiste, poiché non avendo alcun legame con lo sviluppo economico, non ha nulla a che fare con la società dei consumi, la cui struttura si basa sul volume degli scambi commerciali (PIL) in un determinato arco temporale. Prima del boom economico della fine degli anni ’50, la vita quotidiana delle persone non era così consumistica e “raffinata” come lo è oggi. La fame e la miseria derivanti dalla guerra furono i primi motori che spinsero il popolo a superare le condizioni di vita dell’epoca. Nasceva così una nuova società dei consumi, modellata sul sistema economico importato dai paesi vincitori della guerra. 

Dopo 70 anni, quest’onda si sta esaurendo, ma non si può certo affermare che nell’immaginario collettivo sia scomparso il mito americano dell’uomo che si fa da solo, partendo da nulla. Sebbene la mobilità sociale delle classi subalterne sia diminuita dal basso verso l’alto, è ancora possibile condurre una vita abbastanza “agiata” se si ha un lavoro decentemente retribuito. Tuttavia, la qualità della vita continua a essere legata al reddito, anche se l’equazione tra lavoro, denaro e benessere non sempre regge l’impatto della vita moderna. 

Considerando altri parametri, scopriamo che esistono altri valori che la decrescita tenta di riscoprire: la ricchezza concreta che si trova nella natura o nello spirito libero delle persone ha un valore diverso, che si scontra con il problema dei disastri ambientali derivanti da un modello economico basato sulla produzione infinita di merci. Il tavolo imbandito sempre più di prodotti è però sempre più inclinato verso coloro che mangiano di più. Le briciole che cadono dall’alto sono ancora oggetto di aspirazione da parte di moltissime persone che vedono questa condizione come l’unica praticabile per chi non ha i mezzi necessari per vivere autonomamente. 

La decrescita, intesa come riduzione della produzione e del consumo di merci, è ancora vista con sospetto dalla stragrande maggioranza delle persone per il timore di essere escluse dalla società dei consumi, anche se essa offre una prospettiva diversa sulla qualità della vita. Il consumo non è solo una questione riservata ai consumatori, ma anche un atto pubblico che dimostra la disponibilità a pagare un prezzo per una merce. Dopo l’acquisto, l’oggetto-merce si trasforma ontologicamente: da bene di scambio si trasforma in un bene d’uso privato, sancito dal denaro, “la merce delle merci,” che consente di ottenere altre merci. 

In questo schema, i rapporti umani si trasformano in oggetti mediati dal potere feticistico delle merci, rendendo la decrescita percepita come un fattore di degenerazione economica, spesso associata alla recessione. Tuttavia, numerosi filosofi, giornalisti o semplici attivisti sostengono che la decrescita non può essere associata alla recessione economica, bensì a una possibilità concreta di concepire la qualità della vita in modo diverso, poiché, in definitiva, la qualità della vita non è direttamente proporzionale al reddito. 

Numerosi studi hanno dimostrato che, oltre un certo limite di reddito, la qualità della vita non aumenta o addirittura diminuisce, allargando il divario tra reddito e felicità individuale.

Come evidenziato dal rapporto di Easterlin nel lontano 1974, una volta raggiunto un reddito minimo garantito, la felicità non aumenta con il PIL. Il processo di crescita economica crea nuovi desideri che producono una nuova scarsità, poiché l’effetto positivo di un reddito più alto viene annullato da nuove esigenze e norme sociali create dalla crescita stessa. 

Questo contesto conflittuale tra natura, esseri umani e animali genera un’esigenza opposta rispetto allo spirito di emancipazione sociale che muove il paradosso di Easterlin. L’approccio sistemico della crescita economica rivendica la necessità di porre gli esseri umani in un rapporto di monopolio economico rispetto alla natura, interpretata come un bacino estrattivo a disposizione dell’industria. Questo modello di sopravvivenza, che gerarchizza la società e sfrutta la natura, viene assimilato in un ciclo di innovazione tecnologica che, anziché migliorare la qualità della vita, aliena le persone dalle fonti primarie dei processi vitali. 

La necessità di vivere in un sistema disgregato si basa sul valore fittizio delle merci. Un esempio emblematico, riportato sulla stampa, riguarda l’operaio licenziato, addetto al confezionamento di merendine industriali, che per fame mangia una merendina da lui stesso confezionata, descrivendo così come vengono concepite le relazioni industriali: il rapporto tra classi dominanti e subalterne re

agisce
automaticamente a qualsiasi minaccia alla sua stabilità, ristabilendo la gerarchia del bene di scambio sul bene d’uso. Questo monopolio primario è la prima forma gerarchica che si manifesta quando acquistiamo o produciamo una merce. Le relazioni mercificate non lasciano spazio al libero arbitrio (ad esempio il dono) e consolidano l’assetto del tanto avere rispetto al tanto dare, dall’alto verso il basso.

La razionalità oggettivante insita nell’economia capitalistica tende a eliminare la soggettività umana, riducendo i bisogni a dati astratti da misurare, degradando l’essere umano a cosa tra le cose. L’economista Clara Mattei, nel suo ultimo libro L’economia è politica, evidenzia come l’austerità sia un insieme di politiche economiche progettate per difendere l’ordine del capitale a scapito del benessere dei cittadini. L’attuale sistema economico non rappresenta il migliore dei mondi possibili: la fiducia dei mercati è inversamente proporzionale al benessere dei cittadini e riflette una coercizione economica che serve a mantenere il controllo sociale. 

Gli economisti ortodossi conoscono bene il legame stretto tra la sfera del lavoro e quella della moneta. Tale legame è alla base della cosiddetta curva di Phillips, un modello che continua a essere un punto di riferimento imprescindibile per i tecnocrati che si occupano di politiche monetarie. Nel 1957, William Phillips osservò empiricamente una correlazione negativa tra tasso di disoccupazione e salari nominali: più alto è il numero dei disoccupati, più bassi sono i salari. La curva che prende il suo nome ha assunto con il tempo una forma più evoluta, evidenziando una correlazione negativa anche tra il numero dei disoccupati e la stabilità dei prezzi. Ovvero, più alto è il numero dei disoccupati, più bassi saranno i prezzi e quindi minore sarà l’inflazione. 

Ma c’è anche un contenuto politico in essa che non può essere ridotto a un puro esercizio aritmetico. Il modello, infatti, descrive una verità propria del capitalismo: per far sì che il sistema trovi un equilibrio monetario “virtuoso,” è necessario un numero sufficiente di disoccupati. In macroeconomia, questa variabile numerica ha un nome preciso: si chiama NAIRU (Non-Accelerating Inflation Rate of Unemployment), ovvero tasso naturale di disoccupazione. Quella che si presenta come una pura analisi empirica attraverso la curva di Phillips, in realtà, indica un nesso causale ben preciso: quando ci sono meno disoccupati, i lavoratori guadagnano potere contrattuale e possono ottenere salari più alti. Di riflesso, le aziende decidono di alzare i prezzi per compensare l’aumento dei costi e non intaccare i profitti. 

Per proteggere questi ultimi, infatti, i produttori privati scaricano i maggiori costi sui consumatori, che poi sono i lavoratori stessi, i quali perderanno potere d’acquisto e premeranno di conseguenza per nuovi aumenti di salario, che però non otterranno facilmente. Non si possono comprendere le politiche fiscali e monetarie senza considerare il loro impatto sul mondo del lavoro e, in ultima istanza, sull’ordine del capitale come relazione fondativa del nostro sistema economico. È chiaro, infatti, che queste politiche si occupano di una questione assai più fondamentale: assicurarsi che non vi siano alternative al vivere come lavoratori sfruttati. Questo risultato prevale sopra ogni altro, anche a costo di una momentanea recessione economica. 

Nelle parole dell’attuale segretaria al Tesoro degli Stati Uniti nel governo Biden, Janet Yellen si ritrova la stessa tesi detta in altri termini: “I tassi di interesse possono essere bassi solo se i lavoratori sono deboli, altrimenti sarà necessario ricorrere alla disoccupazione, che agisce da dispositivo disciplinare per i lavoratori, poiché lo spauracchio di un periodo di disoccupazione spinge i lavoratori all’obbedienza senza una supervisione costante e costosa per l’azienda.” 

Un chiaro esempio di come la produttività si trasformi in controproduttività, come affermava Ivan Illich, è dato dalla gestione delle case popolari in Lombardia, portata alla ribalta dalla vicenda politica dell’eurodeputata Ilaria Salis. In questa regione ci sono migliaia di case sfitte gestite da enti pubblici, mentre migliaia di persone attendono un’abitazione. La mancanza di assegnazioni adeguate dimostra che il sistema non è orientato a soddisfare i bisogni della gente, ma piuttosto a generare profitto, ad esempio, attraverso la vendita delle case popolari ai privati. Alcuni numeri: in Lombardia ci sono 8.500 case sfitte a fronte di 10.000 richieste. Di queste, 4.500 sono gestite dalla Regione Lombardia e le altre 4.000 dal Comune, che nel 2014 ha preso in gestione 28.000 appartamenti comunali. ALER, l’ente privato che gestisce gli appartamenti della Regione, ne ha in totale 35.000. Nel 2023, il Comune ha assegnato solo 213 alloggi su 480 preventivati, mentre ALER ne ha assegnati 701 su 1.200 preventivati. Le case di edilizia pubblica occupate da persone che non hanno i requisiti idonei secondo i bandi sono 3.500, solo nella provincia di Milano. Questa situazione spinge le persone a occupare abusivamente le case, mettendo in luce l’incapacità delle istituzioni di rispondere alle esigenze reali. 

L’attuale sistema economico non solo non soddisfa i bisogni umani, ma spesso li crea artificialmente per generare profitto. Anche quando esistono i mezzi per soddisfare un bisogno umano extra-mercato, manca la volontà politica di promuovere l’emancipazione dalla spirale economica da cui dipende. Anzi, la politica spesso si concentra sulla costruzione di opere inutili rispetto alle esigenze della popolazione, giustificando così i cosiddetti “tagli alla spesa pubblica,” necessari per mantenere una struttura di sprechi. Di fronte a questo scenario, non possiamo rifugiarci dietro la gonna dei “sacerdoti della decrescita” che offrono lezioni su come vivere meglio con meno, dimenticando coloro che non hanno neanche il minimo necessario per vivere dignitosamente. La decrescita felice appare come un volto sorridente in mezzo a una folla di persone infelici. Intanto, l’economia della crescita continua a esercitare il suo potere basato su una falsa coscienza alimentata dalle merci. Tutto si basa sul consumo di oggetti che ci vengono propinati ogni giorno, che ci parlano attraverso le loro etichette e pubblicità, occupando gli spazi vitali della vita quotidiana, a prescindere dalla loro utilità. 

Come osservava Lukács, “la razionalità oggettivante insita nell’economia capitalistica, quantificando le specifiche qualità umane, elimina ciò che potrebbe contestarne la legittimità.” Questo porta a una neutralizzazione del soggetto, ridotto a cosa tra le cose, privo di una vera soggettività. Chi ha sostenuto che un mondo con risorse finite non può sostenere una produzione infinita, si è trovato di fronte a barriere ideologiche imposte dalla politica delle merci. 

Quando il mito della qualità della vita, il “buen vivir,” supererà il mito della vita basata sul possesso di merci? Per ora, possiamo solo dire cosa non vogliamo e poi immaginare il mondo che vorremmo, un mondo in cui proiettarci come persone per essere veramente felici. Il mondo che vorrei non dovrebbe mettere al centro l’homo oeconomicus, attorniato da bisogni infiniti indotti per generare profitto. Al contrario, un uomo che vive in armonia con il suo ambiente non dovrebbe avere tutte queste necessità. Un mondo senza queste necessità sarebbe più compatibile con una riduzione dei consumi e con la riscoperta dell’autenticità insita negli esseri umani. Solo abolendo le necessità indotte potremo concepire una decrescita economica che riscopra il valore della vita autentica.

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