Venezia81 – “Queer” sesso, droga e disperazione

La beat generation ha le sue pietre miliari e quel movimento culturale giovanile degli anni Cinquanta, che ha trovato sfogo sul piano dell’arte, della poesia e dalla letteratura, è ancora immaginario. Tra tanti, William Seward Burroughs II — “il drogato omosessuale pecora nera di buona famiglia” — ne è stato una figura chiave.

Luca Guadagnino entra a pieno nella cultura beat prendendo spunto dal romanzo autobiografico di Burroughs Queer, adattato dallo sceneggiatore Justin Kuritzkes e girato dal direttore della fotografia Sayombhu Mukdeeprom nelle strade polverose di Cinecittà.

Il titolo originale era Checca, ed è stato scritto tra il 1951 e il 1953 ma pubblicato – per evidenti motivi di oscenità e quindi di censura – solo nel 1985. Lee è l’alter ego dello scrittore, e tesse la sua tela amorosa intorno a Allerton, un giovane ambiguo, indifferente come un animale.

Il film di Guadagnino è sensoriale: percepisci l’odore del tabacco, il sudore che ti si appiccica alla schiena e la gola che gratta per la tequila. Siamo a Città del Messico, dove Lee (Daniel Craig) con il suo fedele borsalino e una pistola al corredo, vaga da un bar all’altro, ha i mezzi per mantenersi e cerca costantemente un amante con cui passare la notte. È un uomo in fuga dagli Stati Uniti dove la sua dipendenza costituisce reato, da sé stesso perché essere queer è “una maledizione e una liberazione”. 

Sulle note di Come as You Are dei Nirvana, Lee incontra Eugene (Drew Starkey) un pettinatissimo fotografo dal viso fresco, vestito di tutto punto e con gli occhiali spessi, e se ne invaghisce sin dal primo momento: ne rimane colpito come da un amore a prima vista e il fatto che non riesca a capire se sia gay o meno non fa che aumentarne il fascino.

Lee ed Eugene cominciano a frequentarsi, vanno a letto insieme e hanno una relazione ad armi impari. Eugene – con i muscoli disegnati e la sfrontatezza della gioventù – mette al primo posto la sua “indipendenza”, forse proprio dal definirsi omosessuale. Lee – un cowboy molto focoso e poco combattivo – sviluppa una fissazione dissennata per il suo amante. A questa ne aggiunge un’altra: partire per il Sud America, per trovare un allucinogeno di origine vegetale chiamato yage, più comunemente noto come ayahuasca, che si ritiene possa innescare poteri di divinazione telepatica.

Lee si trascina in questo viaggio a tratti disperato e influenzato dalle sue crisi d’astinenza, paga tutto in cambio di gentilezza e un paio di notti di sesso alla settimana; è convinto che se riuscirà a trovare lo yage, potrà controllare gli altri – e quindi il frutto della sua passione.

Nella giungla ecuadoriana incontrano la dottoressa Cotter (Lesley Manville), eccentrica botanica, che vive in una capanna con il suo giovane compagno (il regista argentino Lisandro Alonso), un bradipo e una vipera. In un viaggio onirico e a tratti confuso, i due viaggiatori ingurgitano l’erba allucinogena per abbandonarsi a una notte euforica e spaventosa, poichè l’esperienza dell’ayahuasca è “uno specchio, non un portale, e potrebbe non piacerti quello che vedi”. 

Queer è una storia di amore perduto, di una passione sconfinata e di ossessione folle, Lee espone costantemente il suo doloroso bisogno di contatto umano che aumenta la sua vulnerabilità quando la sua dipendenza da Eugene diventa cronica; nonostante sia chiaro che non verrà mai ricambiato nel modo in cui si aspetta e nemmeno la telepatia è riuscita a spiegargli il perché.

Guadagnino racconta un amore che, invece di dare la salvezza, la spegne e nell’inquadratura finale si scorge un Lee che dopo tutte le droghe, i viaggi perversi, le esperienze fuori dal comune, dopo una vita dissoluta e piena di scandali, l’unica cosa che non è mai riuscito a capire è come guarire il suo cuore spezzato.

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