Animali e paesaggi mostruosi: riflessioni antispeciste per un’ecologia radicale

Venerdì 6 settembre al Woods Climate Camp si è svolto il talk dal titolo “Animali e paesaggi mostruosi: riflessioni antispeciste per un’ecologia radicale” con ospiti Bianca Notarianni, parte della redazione della rivista di critica antispecista Liberazioni e collaboratrice del programma “Considera l’armadillo” di Radio Popolare e Federica Timeto, professoressa a Ca’ Foscari di Enviromental humanites, la quale scrive per Liberazioni ed ha pubblicato il suo ultimo libro per Tamu “Animali si diventa: femminismi e liberazione animale”.

Il prima tema affrontato  è stato quello del linguaggio: Bianca Notarianni nei suoi scritti utilizza parole come “mostro” o “creature” per indicare gli animali non umani e non il termine “animale” che serve ad indicare  il rapporto che gli animali umani hanno con gli animali non umani.

La parola animale, spiega, è solo un contraltare della parola uomo: Derrida in “L’animale che dunque sono” si chiede che presa abbia la parola animale e trova che da un lato sia troppo generale al fine di riuscire a tenere insieme i diversi approcci che gli animali hanno al mondo e che venga usata solo per distinguere l’essere umano dall’animale perché troppo vaga.

Questa astrazione è una mostruosità che può essere giocata in positivo: animale è una categoria politicamente valida per dequalificare chi non si ritiene tale. E per questo si creano alleanze tra movimenti di liberazione nera, queer e di liberazione animale: la parola animale come la parola queer può essere utilizzata come essenzialmente fluttante.

Animale è una creatura, parola che viene dal latino come participio futuro, qualcosa che si sta creando cioè che ha la potenzialità liberatrice della natura. Ma Animale è anche una creatura perché noi la creiamo costantemente e quindi mostra il rapporto che l’uomo ha con l’animale: esso è sempre qualcosa di diverso che può essere sia bello ma anche qualcosa di incolto, da bandire, scomodo che va tenuto lontano dalla città.

Prendendo nozioni classiche di politiche di Aristotele o Platone,  la politica è prendere uno spazio, ad esempio una città, e ripartirlo in modo ordinato. Questa ripartizione divide chi ha un certo ruolo, una certa voce e può fare alcune cose e chi invece sta fuori (nella Grecia antica il barbaro stava fuori dalla città, era un significante vuoto determinato dal non esprimersi nella stessa lingua): animale è qualcosa che non si sa esprimere con lo stesso linguaggio, non è che non abbia una voce, ma utilizza un altro linguaggio e quindi non è meritevole di attraversare i nostri stessi spazi.

Timeto, in una prospettiva transfemminista, aggiunge che se non si vuole nell’essenzialismo, come spiega Derrida, bisogna leggere l’animalizzazione nei termini di una relazione. Se essa manca né l’animale né l’umano sono propriamente leggibili. La parola animale è svuotata di senso almeno che non venga incorporata. Timeto fa esempio di quando una specie viene definita invasiva, che corrisponde a una precisa decisione politica e economica: è proprio quando la relazione non si può rendicontare come relazione proprietaria che la specie diventa invasiva (l’orso è stato reintrodotto in Trentino, ma quando la relazione non è più stata manageriale allora è diventata invasiva). La stessa specie, gli stessi animali vengono significati in modi diversi in base alla relazione che domina in quel momento. Se la relazione si sbilancia e l’orso, il cinghiale o gli insetti cominciano a seguire i loro desideri e a prendersi i propri spazi diventano specie invasive. Ma questa asticella è spostabile dove il potere economico politico lo desidera.

Altro esempio della animalizzazione degli umani  sono gli abitanti di Gaza che sono stati animalizzati al fine ultimo di poterli sterminare perché l’unico animale che poteva esistere e abitare quel territorio erano umani israeliani e quindi per poter giustificare il genocidio è necessario subalternizzare, inferiorizzare e diminuire.

Nel momento in cui si vuole tenere la situazione sotto controllo bisogna creare corpi che possano essere sfruttati, annientati, subalternizzati in modo tale che il finto umano generale possa continuare a esistere ed emergere.

Un secondo tema trattato durante il talk è stato quello dell’ibridazione tra urbano e naturale. Il Bosco occupato Lanerossi deriva proprio da una contaminazione tra quello che era un ambiente urbano della vecchia fabbrica abbandonata dove il proprietario teneva piante tropicali ed esotiche che hanno cominciato a fondersi con quelle dell’ambiente vicentino: questi boschi sono un ibrido tra urbano e natura, dicotomia creata per sfruttare l’altro dove però si creano delle crepe dove esiste la possibilità di creare resistenza.

Notarianni riflette su Gilles Clément, autore che nel libro “Manifesto del terzo paesaggio” indica con terzo paesaggio il luogo dove si mette tra parentesi la dicotomia urbano/naturale, umano/animale per una dicotomia più reale, ovvero quella tra spazio gestito/non gestito. Il terzo paesaggio è un’attività residuale che si produce per ogni divisione di un paesaggio ed è il cono d’ombra dove l’attività umana non arriva e diventa luogo di ibridazione.

Il confine, i luoghi liminali, sono biologicamente più ricchi, con più diversità di quella che l’umano potrebbe mai ricreare in qualsiasi riserva. È un luogo di marginalità, resistenza, perché nonostante sia impoverito dall’attività umana e dall’estrattivismo, alcune piante, dette pioniere, riescono a crescere comunque e prosperare (per esempio il papavero ai lati delle strade dove non è arrivato il diserbante). Clément invita allo “spirito del non fare” che significa liberare le proprie mani per le carezze, per il gioco e per manomettere le opere umane.

Timeto su questo tema ha parlato della definizione dell’animale. Per definire la parola animale prima la si differenzia dall’umano ma poi si deve circoscriverla: si crea la differenza per separarla. La definizione non sarà mai perfetta perché ci sarà sempre una sorta di ibridazione per riconoscere il nostro posizionamento.

Il titolo del suo ultimo libro “Animali si diventa” non significa quello che dicevano Derrida e Guattari del divenire animale o quello che intendeva Donna Haraway con divenire con gli animali. Nonostante quello di cui parla Haraway sia un concetto vero, perché ci sono processi di coevoluzione che portano ad ibridarci con altre vite, dal momento che nessuna vita è asetticamente separabile dalle altre dell’ecosistema che ci circonda, quello che Timeto intende dire è che l’animale non umano può divenire indipendentemente da noi. Il futuro delle altre vite non è basato unicamente sulla nostra esistenza. La vita sulla terra ha senso anche senza la vita umana, non siamo noi umani gli unici interpreti del mondo. Animali si diventa è proprio decentrarci, ovvero comprendere che l’umano non è l’unico possessore di futuro.

Il terzo tema trattato è come si possa orientare l’agire politico in questo cambio di paradigma mettendo al centro la riflessione che non ci siamo solo noi esseri umani (con determinate caratteristiche di razza, genere ecc.).

Notarianni si è concentrato sull’importanza del prestare ascolto, guardando mappe e territori degli animali. Nei suoi scritti, Sarat Colling parla degli animali di frontiera, ovvero gli animali che sfuggono alla gabbia dell’animalità prendendo nome proprio una storia e nella fuga si vede chi ha il potere di fare i confini, chiuderli o aprirli.

Timeto ha invece sottolineato come sia proprio il cambiamento del paradigma ad essere fondamentale, con la svolta postumana si ha la svolta animale anche nell’accademia perché decreta la fine di un certo tipo di umano, ovvero di quell’umano universale che ha sempre sorvolato la realtà ma che ha sempre avuto un corpo, una pelle e un’appartenenza geografica e politica specifica: maschio, occidentale, bianco, cis-etero, proprietario, abile,il quale però è passato come umano non marcato. Cominciare ad accorgersi che si può parlare al plurale, delle differenze e della relazione con le differenze è il primo passo. Altro passo è avere cura che non è gestire o tutelare ma tornare su sé stessi contro l’antromoformizzazione: il lavoro che bisogna fare non è sull’animale (dare voce all’animale ecc.) perché l’animale lo fa già ma è un lavoro sull’umano, su noi stessi , decentrandoci senza un posizionamento autoriflessivo perché altrimenti non ci si accorge che esistono delle vite oltre la nostra definizione di umanità che ci portiamo dietro dalla nostra storia.

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