Domenica 8 settembre si è svolto al Woods Climate Camp il dibattito “Donne e madri ribelli in cammino: In lotta, in connessione per la salute, l’ambiente e i diritti”, una discussione che ha messo a confronto le diverse visioni che articolano il rapporto tra femminismo e lotte ambientaliste. Spesso infatti, nonostante la sua centralità per l’avanzamento teorico e pratico delle lotte, l’incontro tra questi due posizionamenti viene trascurato. Le ospiti hanno contribuito a comporre il quadro complesso degli ecofemminismi ed ecotransfemminismi, approcci intersezionali provenienti dalla marginalità delle esperienze che non sono quelle dell’uomo bianco, occidentale, sano e privilegiato, ma quelle di ciò che è stato definito come “altro” e subalterno da esso, e quindi dai corpi femminili o femminilizzati, corpi malati, soggettività razzializzate e dal mondo naturale. Tutte quelle pratiche, mondi, soggettività che, ai fini dello sfruttamento capitalista, sono state svalutate e sottomesse ai meccanismi dell’accumulazione di profitto.
Alice Dal Gobbo evidenzia come la separazione tra lotte sociali e lotte ambientali nel contesto occidentale abbia radice storiche. Alla fine del secolo scorso, la rappresentazione pubblica dei soggetti che portavano avanti lotte ambientaliste era quella di una classe media relativamente benestante, che poteva permettersi di preoccuparsi dell’ambiente e di questioni sociali, e che quindi dipingeva la lotta contro la devastazione territoriale come un privilegio acquisito.
Nel corso del Novecento, e, in particolare, dopo la Seconda Guerra Mondiale, questa rappresentazione è stata affiancata dall’idea che si possa rispondere alle crisi ecologiche con soluzioni tecnologiche. Grandi opere e progetti infrastrutturali, spacciati per sostenibili, vengono pensati da una scienza fatta di uomini, che porta il segno del maschile colonizzatore, che continua a considerare la natura come un oggetto trasformabile a piacimento.
Esiste però una contronarrazione, alimentata da esperienze di lotta provenienti dal cosiddetto “Sud Globale”, ma non solo, e portate avanti da soggettività non privilegiate, donne, persone razzializzate e corpi situati in ambienti nocivi. Queste lotte, partendo dall’urgenza di difendere la vita e le condizioni per la riproduzione sociale, ripristinano la divisione artificiale tra salute, ambiente e lavoro di cura.
Sono proprio queste le lotte al centro della raccolta “Mamme Ribelli” di Linda Maggiori, che dalla Val di Susa a Taranto e attraverso tutto il territorio italiano, raccoglie le esperienze dei comitati di donne che portano avanti battaglie contro la nocività dei territori, che più attacca le soggettività già rese vulnerabili, come le donne, le persone piccole e anziane. Queste esperienze di lotta sono spesso partite da una condizione personale o familiare di contaminazione, come nel caso dell’esperienza dei comitati contro i PFAS del vicentino, di cui hanno parlato Donata Albiero e Giovanna Dal Lago. A partire dall’esperienza personale la riflessione si poi si è ampliata alla necessità di produrre cambiamento sociale attraverso gli strumenti a disposizione, ad esempio facendo controinformazione sulla nocività dei PFAS ad avviando progetti educativi nelle scuole, contro il silenzio criminale delle aziende e l’inazione delle istituzioni. Come ha sottolineato Ermelinda Varrese, attivista del movimento NoTav, i comitati che mettevano al centro le considerazioni e le esperienze delle donne sono riusciti a trasformare il dolore in rabbia e la rabbia in azione politica.
Un altro tema al centro della discussione è stato quello della libertà personale, trovata attraverso la liberazione collettiva nelle lotte. Molte donne che si trovavano relegate al solo ruolo di cura non retribuito, attraverso le lotte ambientali, le attività di scuola popolare, l’autoformazione collettiva, sono potute uscire dalle case nelle quali erano chiuse, costruendo autoconsapevolezza, relazioni e reti di resistenza. Con la partecipazione delle donne in tutti gli aspetti delle lotte, dalla formazione, alla resistenza agli espropri, ai pool di avvocate ed esperte, ha portato alla costruzione di ambienti antisessisti dentro i comitati ambientali. Secondo Ermelinda, infatti, il parallelo tra lo sfruttamento della terra e del corpo delle donne da parte dei machi padroni si riflette in un parallelo dove per le donne che resistono “prenderci cura della nostra terra è naturale, perché così ci prendiamo cura anche di noi stesse”.
Il legame tra donne, madri e natura però non è esente dalle criticità. Esiste infatti un immaginario che lega intrinsecamente le donne alla natura come oggetti inerti e fragili, sottomessi e sfruttabili ai fini dell’accumulazione di profitto. Questa visione schiaccia la lotta ambientale su una lotta per la protezione individualista della famiglia tradizionale, e la maternità stessa su quell’ideale di donna abnegante e instancabile, pronta al sacrificio per l’amore incondizionato per i propri figli, che lascia poco spazio da una parte alle contraddizioni dell’esperienza materiale della maternità, del disagio e delle difficoltà che essa comporta, e dall’altra lo svilimento di tutti gli altri rapporti di amore e cura che sovvertono la visione della famiglia tradizionale e della donna-madre pronta a sacrificare tutto per il bene della casa, della famiglia e dei figli. Le ospiti di questo dibattito hanno aiutato chi ascoltava a dipingere questo immaginario e, da posizionamenti diversi e complessi, a scardinarlo.