Bulgaria: la solidarietà criminalizzata

Cinque attivistə del Collettivo Rotte Balcaniche e di No Name Kitchen sono state trattenutə nella stazione di polizia di Malko Tarnovo in Bulgaria nelle giornate di martedì 10 e mercoledì 11 settembre. La detenzione è durata circa 20 ore ed è il risultato di una escalation di violenza e minacce da parte della Border Police nei confronti dellə attivistə e delle persone migranti in Bulgaria. Il confine tra la Bulgaria e la Turchia, lungo il quale nel 2017 è stata ultimata la costruzione di una recinzione di oltre 200 km, è uno dei più violenti di tutta Europa ma, nonostante ciò, rimane oggi uno dei più attraversati della rotta balcanica, secondo i dati diffusi dalla stessa polizia bulgara.

L’arresto dellə attivistə è legato all’attivazione della cosiddetta “safeline”, attraverso cui le organizzazioni sul campo ricevono segnalazioni da persone in movimento che si sono perse, sono ferite e hanno urgente bisogno di aiuto nella regione del confine. In questo caso la richiesta di soccorso proveniva da un gruppo di circa 10 persone, di cui facevano parte due donne e tre bambini, rimaste senza cibo né acqua da tre giorni. Dopo un’ora e mezza di cammino nella foresta, le attiviste hanno raggiunto il gruppo, trovando le dieci persone in grande difficoltà: una delle due donne aveva problemi a respirare a causa dell’asma e vomitava, mentre un bambino era inizialmente inconsciente e non rispondeva agli stimoli. 

«Dopo circa 15 minuti, sul luogo è arrivato un primo uomo. Indossava abiti militari, ma non aveva alcun segno di riconoscimento. Con sé aveva un cane che ha tentato di aggredire le persone», racconta uno degli attivisti, che continua: «solo in un secondo momento sono arrivati due uomini della Border Police, che ci hanno separato violentemente dalle persone in movimento, arrivando a prendere per il collo alcune di noi e gettandoci a terra». Lə attivistə sono statə quindi scortartə fino alla stazione di polizia di Malko Tarnovo, dove sono statə a lungo interrogatə ed, in seguito, arrestatə.  

Durante la detenzione nessuno dei loro diritti è stato rispettato: sono stati illegalmente requisiti i cellulari ed è stata continuamente negata la possibilità di chiamare un avvocato, così come di comunicare con i propri cari. Ai maltrattamenti e alla violenza psicologica da parte della polizia, fatta di continue minacce e pressioni, si sono aggiunti atteggiamenti razzisti verso un membro del gruppo di origine asiatica, perquisizioni invasive con l’obbligo di spogliarsi, e il rifiuto di fornire delle medicine che due delle attiviste necessitano di assumere quotidianamente. 

«Ancora prima di essere ufficialmente arrestate, veniamo separate, ci viene impedito di comunicare tra noi e di usare i nostri cellulari. Veniamo interrogate singolarmente a più riprese durante tutta la notte, ci accusano di essere pagate per quello che facciamo, di essere amiche dell’attentatore di Solingen. Alcuni di noi vengono fatti spogliare e perquisiti in modo invasivo, mentre è continuamente negato l’accesso ad un legale. Passiamo la notte nella stessa stanza facendo fatica a dormire per il freddo, svegliate ripetutamente per essere interrogate», riporta una delle persone arrestate. 

Intorno alle 15 di mercoledì 11 settembre, i membri del gruppo vengono richiamati uno a uno e viene chiesto loro di firmare dei documenti che dichiaravano il rispetto dei diritti durante il fermo, che invece non era assolutamente avvenuto. Era presente anche un ufficiale di Frontex, che ha promesso di indagare sull’accaduto. A tal proposito, è stata recentemente pubblicata un’inchiesta che svela tanto le pressioni della polizia bulgara sugli agenti europei per silenziare i sistematici abusi, quanto l’ipocrisia e la complicità dell’agenzia e della Commissione Europea, che continuano a fornire equipaggiamento, personale e finanziamenti per rafforzare il confine – utilizzando la Bulgaria come un laboratorio di fatto per l’applicazione del Nuovo patto sulla migrazione e l’asilo.

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I tipici camion militari utilizzati per i push-back di massa parcheggiati a fianco alle auto di Frontex, a Boljarovo. 

Il Collettivo Rotte Balcaniche e No Name Kitchen operano in Bulgaria da poco più di un anno, in seguito all’aumento in questa zona del transito di persone migranti – nel 2023, la Direzione della Polizia di frontiera bulgara ha riportato quasi 180 mila tentativi di ingresso illegale impediti, che certamente rappresentano solo una parte dei respingimenti totali effettuati. Le persone provengono principalmente dalla Siria, e scappano non solo da un paese in guerra da 13 anni ma anche dal crescente razzismo che colpisce la popolazione siriana rifugiata in Turchia, che conta quasi 3 milioni di persone, costrette in un contesto ormai invivibile e pericoloso mentre continuano le deportazioni forzate verso la Siria. Per la maggior parte di loro, la Bulgaria vorrebbe solo essere un luogo di passaggio per raggiungere la Germania o altri paesi dell’Unione Europea, ma si trovano spesso comunque costrette a fare domanda d’asilo e a permanere nei campi per rifugiati bulgari per lunghi mesi.

Oltre alla ricerca e soccorso, le attività delle due organizzazioni ruotano principalmente intorno alla cittadina di Harmanli, dove un campo per rifugiati è stato aperto nel 2013 e ospita ad oggi circa 1000 persone, tra cui molte famiglie. Le condizioni di vita in questa struttura, la più grande in Bulgaria, sono pessime: i richiedenti asilo lamentano condizioni igieniche inaccettabili, l’acqua contaminata che provoca infezioni alla pelle, l’assenza di riscaldamento durante i rigidi inverni, il cibo immangiabile ed insufficiente, la mancanza di un servizio medico adeguato. Lə volontariə del Collettivo e di No Name Kitchen provano a supportare le persone con distribuzioni di cibo e vestiti, ed organizzano quotidianamente uno sportello sanitario grazie alla presenza di alcunə medicə volontariə. 

L’impegno dellə attivistə in Bulgaria si è intensificato con l’attivazione della “safeline”: nel 2024 sono state gestite 50 segnalazioni di emergenza, soccorrendo circa 200 persone, di cui 20 soccorsi sono stati effettuati solo nell’ultimo mese, a riprova dell’aumento del transito. L’obiettivo di questa attività non è solo quello di fornire primo soccorso a persone che si trovano bloccate nella foresta tra la vita e la morte, ma anche di prevenire i push-back, i respingimenti alla frontiera praticati illegalmente e sistematicamente dalla Border Police. Le autorità infatti regolarmente usano armi da fuoco, cani addestrati per l’attacco, mazze da baseball, per fare violenza sulle persone in movimento prima di rispedirle spogliate di tutto in Turchia. Nessun respingimento è mai avvenuto sotto gli occhi di un attivistə, il cui intervento costringe la polizia a non omettere il soccorso e a registrare le richieste d’asilo. Proprio a questo si deve la continua repressione da parte delle autorità, abituate ad agire impunite nel territorio di confine.

«In questi mesi abbiamo soccorso famiglie, donne incinte, bambini, minori non accompagnati, anziani feriti, uomini soli, persone tra la vita e la morte. Per fare questo, dobbiamo combattere ogni giorno contro le bugie, le intimidazioni, la violenza della polizia. Resistere agli interrogatori infiniti, alle mani addosso, alle ore di detenzione in centrale, alle minacce continue. Ma abbiamo imparato che il solo modo efficace per inceppare la macchina mortale del confine è andarci con il nostro corpo, proteggere fisicamente le persone, essere presenti laddove loro [la polizia] vorrebbero continuare ad agire impuniti», scrivono lə attivistə del Collettivo.

«Abbiamo capito che anche loro possono avere paura di noi, che possiamo conquistare lottando le nostre piccole grandi vittorie, ricavarci spazi di azione prima impensabili in una frontiera così militarizzata. Sappiamo di essere una goccia, ma ogni tempesta inizia con una singola goccia».

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Il corpo ricoperto di infezioni di alcune persone che vivono nel campo di Harmanli. Fonte: No Name Kitchen.

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