L’Amazzonia è in fiamme, nell’indifferenza della comunità internazionale. Il polmone verde della nostra Pachamama è sotto attacco e il grido disperato di allarme delle popolazioni originarie che quei territori così importanti per l’intero pianeta li abitano, in Brasile, Perù, Bolivia, Paraguay, Ecuador e Colombia, non solo rimane inascoltato, ma le stesse popolazioni originarie che difendono i propri territori dall’avanzata estrattivista vengono pesantemente criminalizzate e attaccate dai governi di turno per la loro ferma opposizione ai piani di sviluppo ecocidi degli stati nazione.
Come è ben visibile nella mappa interattiva di Zoom Earth, in tutta l’America Latina in questi giorni le fonti di calore e gli incendi attivi si stanno propagando dai boschi anche alle zone umide della selva a causa di diversi fattori, tutti ascrivibili, direttamente o indirettamente, alla nefasta attività umana. Infatti, fenomeni come la siccità, “el niño” o “la niña” o i cambiamenti climatici più in generale, sono originati o pesantemente influenzati dall’attività umana capitalista. Ci sono poi fenomeni, o attività, umane che più direttamente stanno influenzando l’attuale emergenza in Amazzonia, come per esempio l’agrobusiness, la deforestazione o lo sfruttamento delle risorse del sottosuolo. Se gli incendi non verranno fermati entro il 2050 la foresta amazzonica potrebbe apportare più gas serra nell’aria di quella che assorbe e di conseguenza diventare una fonte di inquinamento.
Tra gli stati più colpiti c’è il Perù dove gli incendi forestali si sono propagati in 22 regioni bruciando oltre 2000 gli ettari di zone boschive. Nonostante il regime usurpatore di Dina Boluarte sostenga che non è in corso una crisi, negandosi a rispondere alle richieste di dichiarare lo stato di emergenza fino a pochi giorni fa, secondo dati ufficiali che arrivano dai ministeri, a causa degli incendi sarebbero morte almeno quindici le persone, oltre un centinaio sarebbero rimaste ferite dalle ustioni e più di due mila sarebbero quelle colpite direttamente dal propagarsi del fuoco. In Perù le cause degli incendi boschivi sono da ricercarsi non solo nei cambiamenti climatici che stanno determinando temperature sempre più alte e periodi di siccità sempre più lunghi, ma anche e soprattutto nella deforestazione: dall’inizio di quest’anno infatti è in vigore la cosiddetta Ley Antiforestal, una legge che fomenta la deforestazione poiché stabilisce che lo Stato può concedere titoli territoriali solo se queste aree non hanno massa boschiva e svolgono attività agricole. In pratica un nemmeno tanto velato invito a bruciare tutto per accaparrarsi i titoli territoriali.
La situazione è drammatica anche in Bolivia, forse anche più del 2019 quando, sotto la presidenza di Evo Morales e poco prima delle elezioni che causarono il colpo di stato della destra fascista, vi fu la peggiore stagione secca degli ultimi anni, con incendi boschivi gravissimi che colpirono anche le aree protette e i parchi nazionali bruciando più di cinque milioni di ettari di bosco. Anche in quell’occasione le responsabilità del governo di turno – Morales appunto – furono evidenti: fu infatti l’emanazione del decreto 3973 a permettere ai grandi allevatori e agricoltori gli “incendi controllati” che in breve tempo divennero incontrollabili anche a causa della siccità. Oggi il Paese attraversa un contesto simile. Dopo la nefasta parentesi del governo de facto della Añez, il MAS è ritornato al potere con l’ex braccio destro di Morales, Luis Arce e, nonostante la successiva faida in corso tra evisti e arcisti, i risultati sono simili: per Alex Villca, portavoce della Contiocap (Coordinadora Nacional de Defensa de los Territorios Indígenas Originarios Campesinos y Áreas Protegidas) «probabilmente supereremo ciò che è successo nel 2019 dal momento che siamo già arrivati a oltre 4 milioni di ettari consumati dal fuoco». Per Villca la responsabilità è del governo che non ha messo in atto politiche strutturali per affrontare il disastro ambientale in atto. «Le azioni sono sempre in ritardo (…) La distruzione delle nostre foreste avrà un impatto negativo su di noi e i popoli indigeni ne pagheranno il peso» ha concluso Villca intervistato sugli incendi in territorio boliviano.
In Brasile, secondo fonti ufficiali, dall’inizio dell’anno sono stati registrati 7322 incendi e sono andati bruciati oltre sette milioni di ettari di foresta che hanno distrutto i biomi del Pantanal e del Cerrado, consumati dal fuoco. Il mese di agosto ha registrato il peggior numero di incendi nel Paese degli ultimi 14 anni. La gravissima situazione degli incendi – secondo l’organizzazione sindacale CSP Conlutas – è «anche frutto dell’avidità capitalista, che continua a ignorare l’emergenza climatica e continua ad avanzare con la devastazione della natura alla ricerca del profitto. Il governo Lula è stato messo in allarme ma non ha fatto nulla, al contrario, ha tagliato i fondi del bilancio per l’ambiente, oltre a trattare con negligenza lo sciopero dei lavoratori ambientali che denunciavano il peggioramento delle condizioni di lavoro dopo lo smantellamento fatto dal governo Bolsonaro».
Non va meglio negli altri Paesi del continente. Grave la situazione anche in Paraguay: a causa degli incendi, il Paese ha perso più di quattro milioni di ettari di foreste mentre sono più di tre mila i focolai di incendi attivi; in alcune zone l’inquinamento atmosferico è incompatibile con la vita umana. Un po’ meglio è andata in Ecuador e Colombia. In Ecuador, dall’inizio dell’anno sono stati registrati 325 incendi e la perdita di trenta mila ettari di vegetazione mentre in Colombia i ventuno incendi boschivi attivi hanno colpito migliaia di ettari – 23 mila solo nell’ultimo mese – in particolare nei dipartimenti di Tolima, Cauca, Huila e Boyacá.
Per Eduardo Gudynas, biologo uruguaiano ed esperto di temi ambientali «il crollo amazzonico è imminente. Non è un’esagerazione, anche se non si deve pensare a una catastrofe in cui, da un giorno all’altro, la foresta scompare per essere sostituita da deserti. Sarà, al contrario, un processo più lento, dove un impatto si concatena con una trasformazione dell’ambiente, e questo, a sua volta, con altri e altri, fino a quando non diventano irreversibili. In queste condizioni – conclude in un recente articolo – non ci sarà ritorno. Le azioni di bonifica ecologica o di conservazione della biodiversità saranno inutili. Le aree forestali si ridurranno, rimanendo confinate in isole circondate da ambienti più aridi, con molti meno alberi, simili al Cerrado in Brasile o nel sud della Bolivia. I fiumi si diraderanno e la siccità si ripeterà. Questo non sarà un improvviso, poiché questa catena richiederà tempo. Ma, in ogni caso, è troppo veloce nelle scale temporali ecologiche, così veloce che una generazione di abitanti dell’Amazzonia lo vedrà e lo soffrirà. E la sua irreversibilità lo qualifica come un collasso».
Un collasso che ha come unico responsabile il sistema capitalista, gestito senza sostanziali differenze sia da governi negazionisti sia da quelli che a parole dicono di difendere la Pachamama, ma che in realtà ben poco riescono a incidere per un cambio paradigmatico che porti a tentar di salvare l’Amazzonia e il mondo intero. E intanto, mentre facciamo il tifo per i vari avversari progressisti degli incubi Bolsonaro o Milei, l’Amazzonia non smette di bruciare…