Le tristi storie delle morti dei re (III)

di Franco Pezzini

(qui e qui le parti precedenti)

Braveheart incontra Freud

“Mio padre è morto; vieni, Gaveston, / e dividi il regno con il tuo più caro amico”. Con la lettura da parte di Gaveston – all’anagrafe Pierce (Piers) di Gaveston, cavaliere guascone di piccola nobiltà terriera (c. 1284-1312) – di questo messaggio dell’amico che sta ascendendo al trono, inizia l’Edoardo II di Christopher Marlowe (1564-1593), ennesima opera maledetta (1592) di un autore maledetto, poco prima che una pugnalata a un occhio interrompa la sua carriera di scrittore e probabile agente dei Servizi.

Il favorito (in esilio) del principe inizia dunque a bearsi della sorte che gli si prospetta con la corona all’amico:

[…] Dolce principe, vengo.

Queste tue righe amorevoli mi persuaderebbero

Ad arrivare a nuoto dalla Francia,

e, come Leandro, boccheggiare sulla sabbia,

e tu sorrideresti e mi prenderesti tra le braccia

(le citazioni qui dalla bella edizione Marsilio a cura di Rosanna Camerlingo, Venezia 1998). Il riferimento al tragico mito di Ero e Leandro già conduce ovviamente al terreno dell’erotica.

Poi entrano tre poveracci, e Gaveston offende uno di loro, “che ha combattuto contro gli scozzesi”, prospettandogli l’ospizio; ma poi per quieto vivere annuncia che se farà fortuna li assumerà tutti – ed escono. Nel siparietto simbolico i tre, un cavaliere, un viaggiatore e un soldato, sono rappresentanti della realtà storica, gente che per l’Inghilterra si è spesa in varie forme e ora si trova tagliata fuori dall’idillio chiuso di Edoardo e Gaveston. Quest’ultimo, figura ambigua come in realtà gran parte dei personaggi del dramma, pur affettando grande devozione denuncia chiaramente di voler “condurre il docile re dove voglio”, al suono di musica e poesia, commedie e spettacoli – per i reduci, insomma, non c’è spazio. Merita ricordare una simile spregiudicata dichiarazione d’intenti per la critica che enfatizza la limpidezza di Gaveston nell’amore verso Edoardo: ma è pur vero che in una corte senza centro e senza regole ciascuno si muove come può, e forse Marlowe si prepara a spiazzarci.

Poi ecco il favorito farsi da parte all’entrata in scena del nuovo monarca e di esponenti dell’alta nobiltà guerriera – tra i quali una figura che avrà un ruolo centrale nel dramma, giovane Mortimer (Roger Mortimer di Wigmore, 1287-1330). Gaveston sente i commenti a lui ostili dei due Mortimer – a parte il giovane, l’altro è lo zio (Roger Mortimer di Chirke, c.1256-1326) – che hanno giurato al vecchio defunto re di non far rientrare il favorito dall’esilio, e dei conti di Lancaster (Tommaso Plantageneto, c. 1278-1322) e Warwick (Guy de Beauchamp, c. 1272-1315): la situazione è tesa, ma Edoardo, sostenuto dal fratellastro Edmund conte di Kent, resta fermo sul proposito di richiamare il favorito. Che a quel punto – potenza del teatro – appare sulla scena, si inginocchia ed Edoardo lo fa alzare e lo abbraccia, poi lo nomina “Gran Ciambellano, / Primo Segretario di Stato e mio, / Conte di Cornovaglia, Re e Signore dell’isola di Man” (insomma, l’uso di nomine istituzionali o incarichi di cerchio magico a familiari & amichetti è storia ben radicata). Ma soprattutto lo esorta a ricevere il suo cuore, garantendogli anche un corpo di guardia a tutela della sua persona e il più ampio arbitrio su tutto. Gaveston ribatte che gli basterà godere del suo amore e potrà ritenersi grande come Cesare in trionfo a Roma.

È a questo punto che compare il vescovo di Coventry, di fretta perché diretto a onorare le esequie del vecchio sovrano: col beneplacito di Edoardo, viene però aggredito da Gaveston – di cui ha causato l’esilio – e in ultimo incarcerato. E nella scena successiva questi fatti vengono commentati con sdegno dai due Mortimer, Warwick e Lancaster: Gaveston, “Con la testa china sulla spalla del re, / annuisce, schernisce, e sorride a quelli che passano”; arriva anche l’arcivescovo di Canterbury, rammaricandosi per l’arresto del confratello di Coventry, provvederà a che il papa sia informato. Lancaster gli chiede se prenderà le armi contro il re, e lui ribatte: “Che bisogno ne avrei? Dio stesso è in armi / quando si fa violenza alla Chiesa”. E accetta di opporsi assieme a loro.

Sulla scena si presenta allora Isabella, una delle figure principali del dramma, la regina moglie di Edoardo II, figlia del sovrano francese Filippo il Bello e poi dagli inglesi etichettata non proprio onorificamente come “la lupa di Francia”. Il giovane Mortimer la ferma mentre si dirige verso la foresta, dove lei intende ritirarsi

per vivere afflitta da dolorosa infelicità;

perché il mio signore il re ora non ha per me

nessun riguardo: egli ha occhi solo per Gaveston.

Gli dà affettuosi colpetti sulle guance

e gli si appende al collo, si accosta al suo viso

e gli sorride sussurrandogli nelle orecchie;

e appena arrivo, si acciglia, come a dire,

“Va’ dove ti pare, non vedi che sto con Gaveston?”.

Vedremo come si potrà valutare questa postura nobilmente addolorata, di dolore privato davanti ai riflettori (un atteggiamento che, lo sappiamo, politicamente paga). Comunque il giovane Mortimer la esorta a tornare a corte, cacceranno il seduttore o perderanno la vita: ma prima il re perderà la corona. L’arcivescovo di Canterbury esorta i baroni a non levare le armi contro il re (un po’ contraddittoriamente, non a caso, rispetto a quanto proclamato poco prima), ma gli spiegano che la guerra è necessaria. Isabella se ne esce allora in un grande proclama di preferire alla guerra civile una vita malinconica in un angolo, e l’arcivescovo propone l’alternativa di una riunione dei vertici della corte per rispedire Gaveston in esilio. Il tentativo, sanno bene, non funzionerà, e Isabella supplica ancora – almeno formalmente – il giovane Mortimer di non prendere le armi contro il re. Si chiude così, in un clima teso e irrisolto, la scena II dell’atto primo dell’Edoardo II.

Caernarfon (Galles). I ricordi risalgono a parecchi anni fa – nientemeno che al viaggio di nozze con mia moglie, 1993 – e restano un po’ sfuggenti, eppure ricordo bene la suggestione del posto: e la sensazione fascinosamente remota di questa città del Gwynedd dove i Romani si erano spinti attraverso un lungo cammino nell’Altrove. Segontium, l’avevano chiamata, seminandovi una quantità di reperti oggi raccolti in un bel museo; e ricordavo da vecchie letture una serie di storie sull’isola che sorge subito oltre, al di là dello stretto di Menai – Anglesey, al tempo Mona, distante in alcuni punti solo duecento metri e oggi collegata con un paio di ponti.

Sotto l’impero di Nerone (60 o 61 d.C.), i britanni sono in piena rivolta: come scriverà Tacito, “ovunque si massacravano i veterani e bruciavano le città. Allora si combatteva solo per la vita: solo più tardi per la vittoria”. Centro del movimento di rivolta è proprio il Galles settentrionale, dove a capo dei resistenti sono anche i druidi, che a Mona hanno un centro sacro. “Ma, come sempre quando si tenta di afferrarli, i druidi si sottraggono anche questa volta alla presa degli scienziati” (Gerhard Herm, Il mistero dei Celti, 1975). Il governatore Svetonio Paolino marcia fin là: e giunti di fronte al canale Menai che separa Anglesey dalla terra ferma, i romani allibiti vedono sulla riva opposta – racconta Tacito, unica fonte:

i britanni, fittamente schierati, pronti alla battaglia. Donne correvano qua e là tra le file, come Furie. Vestite a lutto, le chiome al vento, tenevano davanti a sé fiaccole ardenti. I druidi, tutt’attorno, tenevano le mani rivolte al cielo, invocando gli dei e lanciando tremende maledizioni.

La novità di tale vista incusse tanto timore ai romani, che, le membra quasi paralizzate, essi offrivano, immobili, un facile bersaglio. Poi, però, stimolati dalle esortazioni del comandante e rincuorandosi essi stessi a vicenda e convincendosi che non bisognava lasciarsi impressionare da un mucchio di donne e di fanatici, levarono le insegne e passarono all’attacco con selvaggio furore…

Una scena impressionante cui seguirà il cosiddetto massacro di Menai, con armi e fiamme, la distruzione dei boschi sacri e il collasso del druidismo in Britannia. Se cogliendo l’occasione del paese sguarnito dalle truppe di occupazione concentrate lassù, è allora che la leggendaria Budicca scatenerà la più grande rivolta antiromana delle tribù britanniche, i Romani dovranno riconquistare Mona qualche anno dopo, ormai senza druidi (78 d.C.). Ora, vedendo la linea di costa dell’isola subito oltre il Menai – quasi a portata di braccio – pensavo alla scena vista dai Romani.

A Caernarfon ci eravamo fermati nel B&B allestito in una casa piuttosto ampia, gestita da un simpatico landlord e dalla moglie celta alta e matronale dai lunghi capelli neri che pareva Anjelica Huston. Avevano tre ragazzine, figlie gemelle quasi identiche: alla notizia di tre figlie in un colpo – ci aveva confessato il padre – aveva dovuto bere molto. Ma quando abbiamo annunciato che saremmo andati a esplorare Anglesey, il buon landlord non riusciva proprio a capire cosa vi cercassimo.

In realtà Anglesey, estremo dell’estremo, a dispetto di una certa banalità dei paesotti merita la gita. A prescindere da una doverosa visita a Llanfairpwllgwyngyllgogerychwyrndrobwllllantysiliogogogoch, cioè “Chiesa di Santa Maria nella valletta del nocciolo bianco, vicino alle rapide e alla chiesa di San Tisilio nei pressi della caverna rossa”, il villaggio col secondo toponimo più lungo del mondo (dopo quello di un villaggio maori di ottantatré lettere), ripetuto compulsivamente ovunque – persino sull’insegna del piccolo supermercato – come una specialità locale, qualcosa da vedere c’è. A parte il sontuoso sito neolitico di Bryn Celli Ddu e un certo numero di antichità megalitiche, sull’isola sorge per esempio il bel castello di Beaumaris eretto da Edoardo I come a sorgere dall’acqua. Anglesey era considerata di interesse strategico e verrà conquistata a più riprese (Irlandesi, Vichinghi, Sassoni, Nornanni) prima dell’arrivo delle truppe inglesi di Edoardo I, intento a unificare con la spada la Gran Bretagna.

Poi certo, il castello di Caernarfon – sorto su una fortezza preesistente – è ben più monumentale: una struttura gigantesca, ridisegnata dallo stesso Edoardo I con tanto di mura cittadine a far pensare a quelle leggendarie di Costantinopoli. L’invasore inglese si tutela: ed Edoardo I Gambelunghe (Longshanks: sul trono 1272-1307) è uno che si sa tutelare. Se suo padre Enrico III, a dispetto delle guerre combattute, era un uomo tranquillo e ombroso, suo figlio è una macchina da guerra, un grande cavaliere e un combattente nato: crociato in gioventù, in seguito abile diplomatico su fronti lontani dalla patria – come il contenzioso italianissimo tra Forlì e Bologna – e guerriero spietato su quelli gallese e scozzese. La spregiudicatezza e la ferocia mostrate da papà Gambalunga (cfr. Marc Morris, A Great and Terrible King: Edward I and the Forging of Britain, Pegasus Books, 2016) ne fanno un modello di machismo brutale con cui il figlio omonimo non potrà in alcun modo competere.

Allo stesso quadro di conquista del Galles, per far ingoiare il boccone amaro all’aristocrazia locale, appartiene la scelta di Edoardo I di far nascere nel 1284 il suo erede – il futuro Edoardo II – proprio nel castello di Caernarfon simbolico per il nesso con l’età romana, e poi di investirlo del titolo di principe di Galles (1301), si dice in seguito alla promessa ai gallesi irrequieti di nominare un “principe nato nel Galles, che non parlasse la lingua inglese”, visto che il piccolo al massimo la smozzicava. Una leggenda, probabilmente, e forse tarda perché al tempo l’aristocrazia britannica parla il francese. Edoardo II nasce comunque in un clima di ebbrezze escatologiche (idee di fine del mondo imminente…) che offrono buon gioco al padre di presentarlo – ha un po’ questo tipo di fissa, sui destini dell’Inghilterra – come un nuovo re Artù. Gambelunghe ha anche in mente un’altra storia, bellissima, che c’entra proprio con Segontium e costituisce una sorta di precedente alla saga arturiana. La città si identificherebbe infatti con quella del sogno dell’imperatore romano Macsen Wledig (nell’incantevole Breuddwyd Macsen Wledig, cioè Il sogno di Macsen Wledig, uno dei Native Tales del Mabinogion), che vi incontrerebbe una principessa, Elen o Helen: giunge in una città remota in Britannia e la trova davvero, la sposa ma poi deve tornare a Roma alla testa dei guerrieri dell’isola per combattere un altro imperatore, e vince. La figura di Macsen reinventa quella storica di un ufficiale iberico proclamato imperatore in Britannia, Magno Massimo (in carica 383-388), che ammazza il predecessore Graziano e poi deve vedersela con Teodosio: il personaggio resta talmente circonfuso di bella leggenda che nessuno si turba al diverso finale imposto dalla storia, con Massimo sconfitto e giustiziato ad Aquileia. Al tempo di Edoardo si pensa però comunemente che Macsen sia morto in Galles, così al ritrovamento di un corpo antico questo viene “riconosciuto” come l’antico eroe e tumulato con onore in una chiesa del luogo. Ma non tutto è equivoco: come attesta l’altomedioevale colonna di Eliseg (eretta in un luogo fascinosissimo presso la diruta abbazia di Valle Crucis, in Galles), una figlia di Massimo, Sevira o Severa, avrebbe in effetti sposato il signore della guerra Vortigern della generazione pre-Artù.

Edoardo I viene influenzato dalla leggenda. Nel sogno descritto Macsen si era trovato davanti una fortezza, “la più bella che un uomo abbia mai visto”, con una descrizione che al re inglese richiama Segontium e lo spinge alla costruzione dell’immenso castello. Suo figlio Edoardo principe di Galles (poi sul trono 1307-1327 come Edoardo II) non sarà affatto un nuovo Artù, anche se qualcosa del malinconico crepuscolo della Tavola Rotonda tra adulteri e ribellioni sembrerà in effetti infiltrare la sua vita.

Sicuramente falsante è la stridula caricatura di omosessuale che Mel Gibson (beh, non stupiamoci) offre di lui in Braveheart, 1995; ma è storicamente sopra le righe anche il ritratto pur affascinante del terribile padre. Immaginato come uno psicopatico che acciuffa Phillip, l’amante belloccio del figlio, e lo fionda giù dalla torre, il vecchio re trova una bellissima interpretazione dell’ormai stagionato Patrick McGoohan (1928-2009), mattatore tanti anni prima dell’indimenticabile serie britannica Il prigioniero, 1967-1968. Con un padre ipervirile del genere, sembra banalizzare Gibson, ovvio che il figlio abbia problemi di confronto: a maggior ragione considerando la fuoriclasse che il supponente ridicolino si trova per moglie (in realtà qui la cronologia fa acqua), la scintillante Isabella di Sophie Marceau – che qui, a dispetto della Storia, concepirà l’erede col guerrigliero scozzese, dando qualche dolore al vecchio re in punto di morte. Freudismi da rotocalco? Di nuovo, non stupiamoci. Più equilibrato il ritratto di uno stagionato Edoardo I offerto da Stephen Dillane in Outlaw King – Il re fuorilegge, 2018, film incentrato sulla figura dell’erede ideale di William Wallace, il malinconico Robert Bruce re di Scozia.

Ma riprendiamo l’esame del dramma. I baroni si riuniscono e firmano il documento che stabilisce l’esilio di Gaveston: questo arriva assieme al re, ma dopo uno scambio a muso duro – “È il mio amante, fosse anche un contadino / il più superbo di voi dovrà inchinarsi dinnanzi a lui”, proclama Edoardo furibondo – i baroni lo ammoniscono a comandare meglio, afferrano Gaveston, tentano di far ratificare al sovrano la decisione e alla fine questi si decide a prenderli con le buone. Distribuisce così un po’ di cariche, chiedendo “solo una nicchia in un angolo / dove possa trastullarmi con il mio caro Gaveston”, ma dopo un po’ di tira e molla deve accettare, umiliato: “E ora maledetta mano staccati da me”. Quella “nicchia in un angolo”, si è osservato, non è solo emblema di contrapposizione tra ruolo pubblico e “mondo a parte” privato, ma tra due diversi modi di far politica: Edoardo, per legge d’amore, concilia l’alto e il basso contro un’alta aristocrazia guerrafondaia e attaccata al rango, e Marlowe enfatizza questo aspetto abbassando lo status sociale di Gaveston (che in realtà apparteneva pur sempre alla nobiltà, per quanto minore).

Edoardo è stato costretto ad accettare per timore dell’arcivescovo, e adesso parte con un’invettiva contro Roma e i suoi preti (qualcosa che esprime le posizioni di Marlowe e il suo orrore dopo quella notte di San Bartolomeo, 1572, che gli ispirerà il dramma Il massacro di Parigi, c. 1589-93): poi conferma la triste notizia a Gaveston, rientrato, annunciando che lo vendicherà e che l’amato non rimarrà lontano a lungo, “se ci resterai / verrò da te. Il mio amore non declinerà mai / […] / Tu da questa terra, io da me stesso sono bandito” e si scambiano ritratti in miniature. Quindi Edoardo decide di accompagnare il favorito, incrocia Isabella (“Non cercare di blandirmi, puttana francese”) e Gaveston insinua piuttosto volgarmente una tresca tra lei e il giovane Mortimer. Tresca che per ora non c’è affatto: ma vedremo che qualche effetto su Mortimer Isabella lo produce sul serio…

Il re pretende che Isabella faccia il possibile per rappacificare i baroni, ma il tenore degli scambi tra lei e Gaveston, e tra lei e il re (“Fino a quando il mio Gaveston / non sarà richiamato dall’esilio, / fai in modo di non comparirmi davanti”) non promettono niente di buono. Dopo un amaro monologo di Isabella, che considera la propria limitata possibilità d’azione (nuovo teatro, sembra suggerire l’autore), eccola raggiunta dai baroni: il giovane Mortimer la esorta a lasciare il re che non la ama, Lancaster commenta da navigato uomo di mondo che l’“umore amoroso [del re] lo lascerà ben presto”, e lei chiede a Mortimer di intercedere presso i pari per il ritorno dell’avversario, visto che fino ad allora si trova bandita dalla corte. I baroni sono contrari… ma potrebbe il “dolce Mortimer” sederle accanto da parte per un po’, in modo da permetterle di perorare quella causa? Lui mostra la propria opposizione ma la esorta a parlare: e l’episodio potrebbe accendere una prima fiamma.

Siedono dunque in un luogo apparato, mentre i pari discutono su quel dialogo cui non assistiamo (“Ma guardate con quanta passione supplica”, / “E osservate con quanta freddezza / il suo sguardo diniega”) e in ultimo incassano la mutata decisione di Mortimer. Che trasmette una soluzione machiavellica suggerita dalla soave Isabella: Gaveston torni pure dall’esilio, una coltellata risolverà tutto. Se ci fossero problemi prenderanno le armi contro il “fungo / cresciuto in una notte – / tale è il mio signore di Cornovaglia” con l’aiuto del popolo. Si accordano dunque su tale linea, con soddisfazione di Isabella. Se in scena può mostrarsi come regina desolata, dietro le quinte può suggerire soluzioni da manipolatrice spregiudicata, illuminando tutta la bruta incapacità dei nobili guerrafondai di trovare soluzioni.

La verità è che Isabella (c. 1295-1358), al di là delle interpreti su schermo, resta una figura di straordinario fascino. Marlowe ne fa una campionessa di ambiguità e cinismo, gli storici si dividono su di lei e il personaggio è ben degno di qualche approfondimento (cfr. per esempio Helen Castor, She-Wolves: The Women Who Ruled England Before Elizabeth, Perennial, 2012). In generale la fama della “lupa di Francia” l’accompagna: certo è a sua volta figlia di un tipino ingombrante, il già citato Filippo il Bello. Se poi i Plantageneti sul trono inglese erano noti come stirpe del diavolo (The Devil’s Crown è stata una serie BBC, decorosa senza essere delle migliori, sulla storia del casato da Enrico II a Giovanni, 1978), in una rincorsa alla cattiva fama i Capetingi francesi potevano fregiarsi del soprannome di re maledetti (Les Rois Maudits è una serie di sette vividi romanzi storici scritti dall’Accademico di Francia Maurice Druon, portata in tv due volte, 1972 e 2005, quest’ultima con scenografia del visionario Philippe Druillet), in grazia dell’anatema scagliato dall’alto del rogo dall’ultimo gran maestro templare Jacques de Molay. Per inciso, nella serie di Druon hanno qualche comparsata anche Edoardo II e Isabella (nella trasposizione 2005 diretta da Josée Dayan, rispettivamente, Christopher Buchholz e Julie Gayet).

In realtà, non sappiamo con certezza se davvero il legame eccessivo di Edoardo e Gaveston, inizialmente avvicinatogli dal padre che poi se ne preoccuperà, sia di tipo sessuale come suggerito da Marlowe, nonché dalla fama di sodomita del principe secondo certe cronache e una certa vulgata. Posto che suona anacronistico parlare di omosessualità in un contesto medioevale, è difficile pensare – si è detto – che, con una tale nomea conclamata su Edoardo, il re di Francia gli avrebbe fatto sposare la figlia: ma si trattava di unioni dinastiche, che facevano chiudere gli occhi su parecchi aspetti personali. Si è proposto peraltro che la questione vada letta nell’ambito di quelle ridefinizioni rigoriste d’epoca della morale sessuale – magari sostenute da motivi contingenti politici – che in quegli stessi anni giustificano l’enfasi sulla presunta sodomia dei Templari. Nei fatti comunque, in Marlowe è abbastanza evidente, il problema coi baroni sta nell’intollerabile ascesa di status di un parvenu maneggione, più che nella questione sessuale.

Edoardo si sta desolando per la partenza di Gaveston, e gli viene portata la bella notizia dell’annullamento della condanna all’esilio: abbraccia e bacia Isabella, le presenta quel momento come il loro “secondo matrimonio” e mostra gratitudine verso i pari, bandendo festeggiamenti per il ritorno dell’amato. A quel punto il vecchio Mortimer esorta il nipote a non ribellarsi al re, basta così poco a farlo tranquillo: in fondo i più grandi sovrani hanno avuto amanti, la maturità “svezzerà [il re] da simili giochi”. Ma a turbare il nipote (già si è visto) non è l’aspetto erotico della faccenda, bensì il fatto che “uno di nascita così bassa / debba divenire così insolente / con l’appoggio del suo sovrano”, arricchendosi con i tesori del regno “mentre i soldati protestano per mancanza di paga”: un parvenu azzimato alla moda, che li deride tutti.

L’atto secondo è aperto da due personaggi, lo studioso Baldock e il cortigiano Spencer (Hugh le Despenser il giovane, c. 1287/1289 –1326): è morto il duca di Gloucester loro signore (invenzione di Marlowe), e pensano ora di passare con Gaveston. Margaret de Clare figlia del defunto duca (e nipote del re) era stata fidanzata con il discusso esiliato: e ora appare manifestando la propria gioia per il suo ritorno. La seconda scena si consuma a Tynemouth, col re agitatissimo per il mancato arrivo di Gaveston (“Temo che sia naufragato in mare”) e per nulla turbato dal fatto che il re di Francia abbia sconfinato in Normandia – in realtà Carlo IV, al tempo sovrano francese, non invase affatto la regione, ma esploderà una crisi diplomatica per un mancato omaggio da parte di Edoardo. Però le imprese (cioè le raffigurazioni allegoriche ostentate sugli scudi) decise per il torneo reale da Mortimer e da Lancaster inscenano chiaramente la loro ostilità per Gaveston, il re si lamenta e Isabella tenta di placarlo. L’arrivo finalmente dell’amato lo rasserena, ma un certo gelo dei pari preoccupa (almeno formalmente) Isabella: di fronte alla risposta arrogante di Gaveston – cui il re ha dato licenza di parlare – Lancaster estrae la spada ma è il giovane Mortimer che ferisce il favorito: questo viene soccorso e allontanato, ed Edoardo bandisce i nobili ribelli, sostenuto solo da Edmund di Kent. Decidono di radunare i loro fedeli, ma i ribelli giurano “di perseguitare Gaveston fino alla morte”.

Succede però che lo zio di Mortimer venga fatto prigioniero dagli scozzesi, che chiedono un grosso riscatto (l’episodio è inventato da Marlowe): è una guerra del re, e il giovane Mortimer ritiene sia il re a dover pagare. Edoardo lo invita offensivamente a raccogliere una pubblica elemosina, e il giovane brandisce la spada: poi rimprovera al re spettacolini, spese inutili ed elargizioni eccessive all’amante – tutte cose che il popolo nota. Lancaster rincara la dose ricordando il rischio di ribellione per gli insuccessi militari in Francia, Irlanda e Scozia: e i due continuano con i capi d’accusa, i successi dei Danesi sulla Manica (nuova, anacronistica invenzione di Marlowe), le navi nei porti senza equipaggiamento, la scarsa considerazione internazionale, lo scarso amore per il re se non da parte di un gruppo di adulatori, i libelli nelle strade, l’unica e penosa discesa in campo di Edoardo (nuova invenzione di Marlowe) con soldati “abbigliati come attori” e una sorta di passerella di moda che ha ispirato una canzonaccia agli Scozzesi… D’accordo, per il riscatto del vecchio Mortimer venderanno terre del regno: poi se ne vanno sdegnati.

Lasciato solo, Edoardo mastica rabbia, e il fratellastro lo ammonisce a bandire il favorito, causa di rovina del regno, ma a sua volta viene buttato fuori malamente. Poi il re rivolge l’ostilità verso la moglie, comparsa con Margaret de Clare. Arriva anche Gaveston, che esorta Edoardo a fingere gentilezza e poi lo consiglia di far uccidere Mortimer: in fondo le risposte trovate sono speculari, le due parti sembrano arrivare a simili soluzioni. Vengono presentati al re i due cortigiani Baldock e Spencer, che lui prende con sé; quindi annuncia le nozze di Gaveston con Margaret de Clare, ad accrescere ulteriormente la posizione del favorito. “E quando i festeggiamenti saranno finiti, / penseremo ai ribelli e ai loro complici”.

Ma ormai tutto sta scricchiolando. Il fratellastro del re ora si unisce ai ribelli, che inizialmente dubitano di lui. Alla fine decidono però di attaccare tutti insieme e assediare il re e Gaveston lì a Tynemouth (Scarborough nella realtà storica), anche se al primo – decidono – non dovranno toccare un capello. Ancora una volta sono posture pubbliche, dichiarazioni d’intenti, proclami d’immagine: nel dramma non figura mai quella sacralità della corona, quel senso metafisico di un ordine da non violare che sta al centro di un dramma spesso avvicinato all’Edoardo II, il Riccardo II di Shakespeare. In atto sono nudi giochi di forze, facilitati da mene dietro le quinte. E dove dosi di ambiguità più o meno robuste connotano un po’ tutti i personaggi – e forse lo stesso Edoardo, per cui pure Marlowe simpatizza. Ma quelle decisioni di non far violenza al re suggeriscono nei fatti che l’ipotesi è sul tavolo.

Nella scena successiva, tra allarmi e concitazione, l’attacco ha avuto successo: Gaveston è creduto morto, poi ricompare, dunque Edoardo fa fuggire lui, Lady Margaret e i suoi fidi per mare verso Scarborough. Ma insulta Isabella attribuendole Mortimer per amante e la lascia a recitare versi struggenti per le telecamere. Isabella la sospiratrice è Isabella la cospiratrice: si muove dietro le quinte, usa i baroni e in particolare il giovane Mortimer, è in fondo, a dispetto dei cinguettii, la più vera nemica di Edoardo. Ma Marlowe non è interessato a giudicarla eticamente, in questione è un discorso di potere: e l’immagine della sovrana fragile, il volto oscurato da dolori privati che non sarebbe bello stigmatizzare in pubblico, e che in realtà cavalca spregiudicatamente eventi e apparenti sconfitte abbindolando baroni e popolo finisce con l’essere una figura non esaurita nei secoli passati. Ci sono oggi altre corone, altre trombe, altri specchi moltiplicatori di un’immagine – e magari testate cortigiane, sondaggi pilotati a confermare il gradimento dei regnanti, fedeli ombre da cerchio magico da far sfuggire agli avversari.

La trovano Mortimer e i baroni vincitori, in apparenza desolata, mentre stanno cercando Gaveston: appresa la direzione della sua fuga, decidono d’inseguirlo. Lei però preferisce non unirsi loro, per non suscitare i sospetti del re: e tuttavia qui sembra finalmente accendersi in modo esplicito la passione sopita – almeno a fini strumentali.

Il giovane Mortimer: Signora, non posso fermarmi a rispondervi,

ma pensate a Mortimer, perché lo merita.

[Escono Lancaster, Warwick e il giovane Mortimer.]

Isabella: Lo meriti tanto, dolce Mortimer,

che Isabella potrebbe vivere con te per sempre.

Invano vado cercando l’amore di Edoardo,

i cui occhi sono fissi solo su Gaveston.

La regina medita comunque di tornare in Francia dalla famiglia per lamentarsi della situazione.

Nella scena successiva Gaveston, braccato, pensa di essere sfuggito ai nemici, ma Mortimer piomba su di lui con i baroni. L’ostilità verso il favorito va in lui ora a braccetto con la concreta possibilità di acquisire crediti con Isabella. Disarmano Gaveston, stanno per impiccarlo ma poi in grazia dell’amore del re decidono di riservargli una più aristocratica decapitazione. Il re manda un messaggio tramite il conte di Arundel per poter incontrare l’amato un’ultima volta, e i baroni sarebbero dell’idea di mandarne a Edoardo solo la testa. L’onesto Arundel cerca allora di patrocinare la causa della richiesta del re e si offre lui stesso in ostaggio, invano; allora Pembroke, uno dei baroni, annuncia che provvederà lui a condurre dal re il prigioniero e giura di riportarlo indietro.

I ribelli alla fine accettano: Gaveston viene affidato agli uomini di Pembroke, ma i baroni giudicano il rischio troppo grosso, c’è fretta di risolvere la situazione. Dunque Warwick piomba sul gruppo e sequestra il prigioniero. Gli accordi valgono quel che valgono, e la sorte di Gaveston si consumerà fuori scena.

[3-continua]

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