Libertà di vivere o di morire. Paradiso in Terra di Fadi Zaghmout

di Andrea Pighin


Fadi Zaghmout, Paradiso in Terra, Future Fiction, pp. 182, euro 16,00

Tra le storie remote del mondo arabo appartenenti al reame del fantastico, alcune mostrano i primi segni di ciò che in Occidente siamo soliti definire “fantascienza”. Un esempio è il trattato romanzato del matematico Ibn al-Nafis, noto in Europa come Theologus Autodidactus e risalente al Duecento. L’opera affronta temi quali la generazione spontanea e la resurrezione, non in termini metafisici ma attingendo a discipline quali l’anatomia e l’astronomia dell’epoca. In questo modo, l’Autore intendeva spiegare la teologia islamica con un approccio filosofico e scientifico. Inoltre, alcune storie de Le mille e una notte presentano elementi che mescolano fantasy e fantascienza, tra viaggi nello spazio, automi e tecnologie perdute.

La fantascienza araba contemporanea non è molto nota in Occidente, ma sta avendo in questi anni un’interessante diffusione.  L’Introduzione di Arabilioso (2024), scritta da Cristina Jurado e pubblicata dall’editore militante Future Fiction, precisa sùbito, in riferimento ai testi di scrittrici e scrittori del mondo arabo come il termine fantascienza «potrebbe non rappresentare la complessità delle riflessioni e della ricchezza culturale che lə accompagnano e che animano le loro storie.» È il caso dell’antologia curata da Basma Ghalayini Palestina 2048, traduzione italiana di Palestine+100, che contiene il saggio di Valerio Evangelisti intitolato “La distopia palestinese” o dell’analoga raccolta Iraq+100, curata da Hassam Blasim, stampata nel 2016 da Comma Press, che raccolgono storie che immaginano le popolazioni del Medio Oriente nel futuro. Anche alcuni premi letterari dedicati alla letteratura araba contemporanea sono stati vinti da romanzi di fantascienza, come Frankenstein a Baghdad, che nel 2014 valse all’iracheno Ahmed Saadawi il Premio internazionale per la narrativa araba, e tradotto in italiano dalle edizioni e/o, e La seconda guerra del cane del giordano-palestinese Ibrahim Nasrallah, che ha vinto nel 2018 l’Arab Booker Prize, di cui in Italia conosciamo la traduzione di Dentro la notte. Diario palestinese (Edizioni Ilisso). La fantascienza araba è servita non solo a proiettare speranze e paure nel domani, ma anche a elaborare le conseguenze delle guerre in Medio Oriente e la delusione seguita alle Primavere arabe. Cristina Jurado, nell’introduzione a Arabilioso. sottolinea anche l’importanza del “Futurismo del Golfo”, espressione coniata dall’artista americano-qatariana Sophia Al-Maria, che indica quegli scritti che approfondiscono «gli effetti della rapida ipermodernizzazione e della crescita dilagante del consumismo e della cultura del lusso nella regione del Golfo Persico.» L’esempio citato è il romanzo The Girl Who Fell To Earth (2012) della stessa Al-Maria. Un quadro più completo è offerto dal saggio di Ada Barbaro La fantascienza nella letteratura araba, pubblicato da Carocci.

Fadi Zaghmout, attivista giordano per l’uguaglianza di genere e autore di quattro romanzi, è una delle dieci voci presenti in Arabilioso, e Paradiso in Terra (Future Fiction, 2023) si presenta come un romanzo-contenitore, una raccolta di quesiti intorno alle conseguenze di un mondo in cui la vita è diventata potenzialmente eterna. Nella Giordania del 2090, grazie alla biotecnologia, l’invecchiamento è stato sconfitto da una «cura magica contro i segni del tempo», una pillola dorata che rivitalizza le cellule del corpo tramite migliaia di nanobot. È stato Jamal Abdallah, fratello della protagonista Janna, a contribuire a molti progressi medici in tal senso. Egli, tuttavia, ha deciso di morire, scatenando così un conflitto familiare. È proprio la dicotomia tra la libertà di vivere in eterno e quella di perire ad accompagnare l’intera opera.

Problemi politici e di morale
L’eterna giovinezza rimette in discussione ogni convinzione etica, morale e religiosa. Per prima cosa, Janna si pone una domanda classica: come è possibile che persone odiose quali il personaggio di Jihan continuino a esistere, mentre gente buona come Jamal decide di andarsene? Sul lungo periodo, che cosa comporterebbe avere una società composta da persone che si attaccano alla vita, senza mai davvero viverla con la profondità del fratello?

Il governo giordano non esita a inserirsi nel dibattito e l’intromissione della politica non fa che esasperarlo, portando alle consuete fazioni in bianco e nero che uccidono il dialogo. Scrittori al soldo del governo premono per far passare come un suicidio il rifiuto di sottoporsi alla cura. Certi pensatori indipendenti si oppongono in nome delle libertà individuali, in quello che viene trasformato – loro malgrado – in una scelta tra dovere civico o libero arbitrio. Il Ministero della Salute rincara la dose e evidenzia l’aumento delle spese dovute all’invecchiamento, perché «gli anziani, come sappiamo tutti, non producono né contribuiscono alla ricchezza collettiva». Questo passaggio mi ha sùbito ricordato il racconto “L’estate di Tongtong” di Xia Jia, contenuto nella raccolta Nebula (Future Fiction, 2018). Qui, al contrario, la scrittrice cinese racconta di un vecchio nonno che non è più autonomo, fino a quando una tecnologia gli permette di tornare indipendente, risolvendo quella problematica che il ministero giordano sembra invece voler strumentalizzare.

Queste dinamiche si riscontrano anche a livello personale. Jihan – benché sia un’alto-borghese – si spinge a citare il Manifesto di Marx ed Engels per mettere in cattiva luce Janna, rea di averla privata della possibilità di diventare madre: «Invece di tendere la mano per aiutare i poveri che erano stati trattati ingiustamente dal sistema sociale dominante, anche solo con piccoli gesti, [Jihan] preferiva lanciare dardi per aria, che di certo non contribuivano a cambiare il sistema né aiutavano i bisognosi.» In effetti, il loro scontro non si basa su grandi princìpi morali, tra cui il diritto pubblico di poter salvaguardare l’esistenza di tutte le famiglie giordane (e non solo di una piccola parte di privilegiati). In realtà, Jihan ha a cuore un egoistico desiderio materno che si trasforma in frustrazione.

In Paradiso in Terra, ci sono tecnologie utili a risolvere problemi del genere, ma certi personaggi appaiono ostinati nel remare contro l’innovazione. Altri, invece, la mettono in ridicolo, come nel reality sul ringiovanimento o come accade alla figura del marito di Janna, Zayd. Questi ha deciso di tornare bambino e un giorno, raggiunta la fase adolescenziale, comincia a usare una stampante 3D per produrre componenti femminili che ne appaghino il desiderio sessuale. La scena che lo vede circondato da pezzi di carne, che parrebbe macabra, si risolve in un imbarazzante rimprovero da parte della moglie, sempre più simile a una madre per lui.

Avvicinandosi al finale, Janna matura una consapevolezza: «Quando la vita diventa così lunga come lo è oggi, e i desideri diventano facilmente raggiungibili, allora i sogni diventano strani, folli, privi di qualsiasi valore e logica.» Jihan e Zayd hanno in comune questa totale concessione al desiderio, anche e soprattutto a discapito del prossimo. La tecnologia viene piegata da loro non per migliorare le proprie vite o quelle altrui, ma per renderle più piacevoli.

Problemi sociali e intergenerazionali
Janna sembra essere una delle poche persone a porsi qualche quesito. Incerta della sua relazione con Zayd, si domanda come sarebbe vivere con lui per altri cento anni. La donna è sincera con se stessa: «La nostra relazione si era trasformata in affetto, più che amore.» Ora desidera altro: il romanticismo dei primi appuntamenti, per fare un esempio.

Desidera anche diventare madre, ma a modo suo. Nella Giordania del futuro non è possibile rimanere incinta, se non per la morte di un membro della famiglia. D’altra parte, Janna non vuole figli da Zayd, per paura che possano ereditare l’Alzheimer come due dei loro genitori. Il suo inconscio macina pensieri che lei teme di portare in superficie: prima di tutto, il desiderio di far tornare il fratello e la madre. Ovvero, la ricomposizione del nucleo familiare, perché esso non muoia mai come fonte inesauribile di nuove dolci memorie, ma anche come monolito ereditario da non disperdere (e quest’ultimo è un ragionamento destinato a rimanere nell’inconscio). Rivolgendosi a Jamal, la donna utilizza parole inequivocabili: «Voglio che qualcuno riempia il vuoto che lascerai.»

Talvolta Janna si contraddice, ma è normale di fronte a uno scenario inedito. Lei sa che «il tempo non si può riavvolgere» e che ciò che rimane dei bei ricordi è «solo la loro impronta e il loro sapore unico». Riferendosi a Jamal, introduce una delle riflessioni che trovo più lucide da parte sua: «Il dolore per la morte di Jamal aveva purificato il nostro rapporto, facendo sparire la forza repulsiva esistente tra noi».

La morte che raschia le inezie e le incomprensioni, fino a far emergere la sostanza di un rapporto tra due persone. Un ragionamento che non può valere tra Janna e Zayd. La moglie si sforza di convincere l’uomo (e forse anche se stessa) che la coscienza del marito rimarrà la stessa, che sarà sempre lui benché nel corpo di un bambino. Presto cade l’illusione che niente possa cambiare nel profondo nell’identità di chi ringiovanisce e Janna accetta il passaggio dal rapporto marito-moglie a quello madre-figlio. Non esclude nemmeno che, un giorno, lei vorrà tornare bambina, così che sua madre, cresciuta da lei, «potrà nuovamente prendermi e farmi sedere sulle sue gambe».

Questa fluidità relazionale è anche intergenerazionale: «Al giorno d’oggi l’età non conta nulla, facciamo tutti parte della stessa generazione». Già soltanto questa sentenza, pronunciata da Janna, porta con sé la caduta di gerarchie millenarie fondate sulla gerontocrazia.

D’altra parte, il rischio è di precipitare in una gerarchia familiare o dinastica, basata sull’accumulo da parte di individui che, ben posizionati a livello sociale, hanno a disposizione un tempo illimitato per arricchirsi. È quello che in sostanza il personaggio di Kamil dice a Janna: non è soltanto un problema di ricchezza centralizzata, ma anche di esperienza, perché un ultracentenario in salute avrà verosimilmente sempre più conoscenze e capacità rispetto all’ultimo arrivato. Questo sistema caratterizzato da un “eterno ritorno” incancrenisce le società, in un pericoloso ritorno al tribalismo. «Non ci avete lasciato niente.»: l’espressione usata da Kamil fa comprendere come l’età conti ancora qualcosa. E, all’acuirsi del divario socio-economico, la rassegnazione potrebbe mutarsi in ribellione.

Problemi esistenziali o religiosi
Nemmeno la pillola dorata dell’eterna giovinezza è in grado di scardinare costrutti sociali secolari. La religione ne è un esempio, così come viene declinata nel romanzo. Janna pone una delle sue domande: «E quali sarebbero state le conseguenze nel lungo periodo in una società che continuava a credere nelle ricompense e nelle punizioni divine?».

Il libro di Zaghmout discute anche di alcune possibili risposte spirituali all’avvento di una tecnologia impattante. Viene citato il Corano alla IV Sura, Versetto 29, che in un passaggio recita: «[…] e non uccidete voi stessi.» Se ne discute al parlamento giordano, con toni sempre più accesi. In genere, le religioni monoteiste vietano il suicidio: eppure, mi viene da pensare che, in un tale scenario, finirebbero per perorare la causa della morte naturale, in un cortocircuito in seno a fedi – come il Cristianesimo – che si sono sviluppate intorno al distacco dalla natura.

Janna parte da una posizione moderata e attendista: se non abbiamo reso illegale il suicidio quando la vita era limitata, non dovremmo farlo nemmeno ora. Nel corso del romanzo, questa opinione si arricchisce di varie sfaccettature. Viene citato il Buddhismo e il concetto di reincarnazione: «È come se gli spiriti di chi muore fluttuassero in una stanza sul retro, in fila d’attesa, impazienti di afferrare l’opportunità di nascere di nuovo e tornare sulla terra.» Una frase che mi ha ricordato l’immagine dei Warawara nel film Il ragazzo e l’airone (2023) di Hayao Miyazaki.

In un altro passaggio, Janna descrive le chiese cristiane della capitale, ricolme di bambini in attesa della fine del mondo, secondo quanto riportano i Vangeli: «Se non cambiate e non diventate come i piccoli fanciulli, non entrerete affatto nel regno dei cieli.»

La protagonista trova una via personale rispetto ai precetti religiosi; matura una propria consapevolezza che abbraccia posizioni contrastanti, fino a convincersi di voler essere lei portatrice di un “paradiso in terra”, qui e ora, che infrange le posizioni di principio in nome del desiderio. In fondo, per lei l’approvazione o meno della religione è un fattore irrilevante.

Questo processo interiore si dipana a ritmo lento tra le pagine, fino alla clamorosa scelta finale. Un lettore potrebbe avere l’impressione che succeda poco di significativo nei primi capitoli, ma bisogna abbandonarsi al testo di Zaghmout, tradotto dall’arabo da Roberta Loi, poiché l’intreccio relazionale si infittisce silenzioso. Verso la fine, ciò che Janna non voleva affrontare come ipotesi le si presenta come fatto compiuto, che lei stessa ha contribuito a determinare.

Sorgono allora le responsabilità. Si potrebbe pensare che in un mondo del genere non ce ne siano, dato che esiste sempre una seconda occasione. Eppure, aumenta la responsabilità di chi si trova ad accudire ex-adulti tornati bambini, nella prospettiva che un giorno toccherà a loro, per ringiovanimento o per vecchiaia.

La scelta finale di Janna mi ha infastidito, e questo per me è un merito dell’Autore. Mi ha fatto pensare che forse, per davvero, quando una tecnologia fa la sua comparsa bisogna cominciare a chiedersi come sia possibile adattarsi alle nuove potenzialità, continuando a restare umani e senza autodistruggersi. Al pensiero di dover vivere su un pianeta tanto a lungo, sarebbe preferibile renderlo il più vivibile possibile, anche in termini ambientali: potrebbe sembrare una motivazione egoista, ma contribuirebbe certo a responsabilizzare più persone. La Terra futura non sarebbe data in eredità alle generazioni successive, ma diverrebbe una responsabilità continua: un giardino da curare giorno e notte, proprio come un paradiso in Terra.

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