di Wu Ming 1
Mentre scrivo non è trascorsa nemmeno un’ora dal momento in cui ho saputo, leggendolo nel gruppo Telegram di Alpinismo Molotov, che Alberto Perino è morto.
Vedo che perfino la Busiarda, giornale nemico che più nemico era difficile, in qualche modo gli rende l’onore delle armi, scrivendo che è morto a 78 anni «dopo una lunga malattia, contro cui ha lottato con la stessa tenacia con cui si è battuto contro la Torino-Lione».
Non solo il movimento No Tav valsusino, ma le lotte ambientali in Italia si ritrovano senza un pilastro, un punto di riferimento tra i più importanti, un terminale di memoria storica dell’attivismo dagli anni Sessanta a oggi.
Sì, perché con Alberto Perino viene a mancare anche un testimone-chiave di un’altra grande stagione: quella dell’antimilitarismo, della lotta contro le guerre e per l’obiezione di coscienza.
Di antimilitarismo ne avremmo un gran bisogno oggi. Un bisogno vitale.
L’ultima volta che l’ho incontrato, il 30 giugno 2023, si è parlato proprio di questo.
Eravamo nella sua Condove. Valerio Minnella, Filo Sottile e io, a presentare l’autobiografia di Valerio Se vi va bene bene se no seghe. Alberto era affaticato, ma non ha rinunciato a esserci, ad accogliere Valerio – non si vedevano dal 1972 – e a intervenire.
È stato uno dei suoi ultimi interventi pubblici, mi dicono. Di quella serata c’è la registrazione, che a questo punto è preziosa.
Di Alberto ho scritto tanto. Ripercorro i miei scritti sulla lotta No Tav e constato che appare ovunque, com’è ovvio, com’è giusto.
In certi momenti, senza il suo apporto il movimento avrebbe subito colpi da knock-out.
Nel 2013, quando il movimento tutto fu accusato di «terrorismo» per l’incendio di un compressore nel cantiere Tav in val Clarea, fu Alberto a dimostrare, testi di Gandhi e Capitini alla mano, che il sabotaggio è ritenuto una tattica legittima anche dai grandi pensatori della nonviolenza, a cui lui da sempre si rifaceva.
In quel frangente, Alberto svolse le stesse argomentazioni su cui Andreas Malm, otto anni dopo, avrebbe imperniato il suo pamphlet di successo mondiale How to Blow Up a Pipeline (edizione italiana: Come far saltare un oleodotto. Imparare a combattere in un mondo che brucia, Ponte alle Grazie, traduzione di Vincenzo Ostuni, Firenze 2022).
Soprattutto grazie alla lucidità e prontezza di Alberto, undici anni fa la lotta No Tav superò di slancio un’impasse teorica, un falso dilemma che a livello planetario si comincia a superare – a stento, forse – solo oggi, grazie alla breccia aperta dal movimento francese Les soulevements de la terre.
Di Alberto mi piace ricordare – l’ho raccontato in Un viaggio che non promettiamo breve – che se in Italia è stato messo fuorilegge uno pseudo-sport crudele e schifoso come il tiro al piccione, si deve soprattutto a lui. Nel 1972 fu tra i promotori e protagonisti della primissima campagna per chiudere uno di quei poligoni, quello di Orbassano (TO).
Un altro dettaglio che mi torna alla mente è l’impareggiabile cartello da uomo-sandwich che Alberto sfoggiò a una manifestazione antimilitarista per le vie di Torino, il 21 settembre 1971. C’era scritto: «HO FATTO IL MILITARE E ME NE VERGOGNO».
Sto scrivendo all’impronta, è un primo riordino di idee. Sicuramente arriveranno contributi meno frettolosi, più approfonditi, dalla valle e dal resto d’Italia. Di Alberto Perino è necessario ricostruire il lungo e complesso percorso, perché lo merita, e perché ci serve, serve alle lotte di oggi e di domani.
E così, Alberto se ne va.
Ma se ne va?
No, secondo me resta. E per il nemico – per l’Entità che continuiamo a sfidare – liberarsi di lui sarà difficile.