Capire perché gran parte dei posti nelle scuole di specializzazione di Medicina d’Urgenza o di Anestesia e Rianimazione sono rimasti non assegnati non è difficile, basta collegare un po’ di dati e fare due più due. E no, il motivo non è quello di cui hanno scritto tanti giornali, non sono le sempre più frequenti aggressioni ai medici e personale sanitario in Pronto Soccorso o Guardie Mediche.
Innanzitutto, è necessario considerare a cosa va incontro un neolaureato in Medicina e Chirurgia quando si iscrive ad una scuola di specializzazione in Italia: molto spesso, infatti, durante i 4 o 5 anni di formazione gli specializzandi vengono sfruttati dagli strutturati, costretti a svolgere le solite mansioni di cui nessun altro vuole occuparsi, perdendo in questo modo le opportunità per imparare ed acquisire effettivamente nuove conoscenze e competenze. Obbligati a turni lunghissimi, ben oltre quelli retribuiti da una paga che comunque resta molto bassa, soprattutto se confrontata con quella di altri paesi europei. E lo stipendio è solo uno dei motivi per cui molti neolaureati decidono di spostarsi all’estero per la specializzazione: la prospettiva di dover lavorare per anni in un ambiente estremamente ostile e umiliante, in cui gli strutturati e talvolta persino gli specializzandi più vecchi se la prendono con quelli più giovani, non è attraente. Per non parlare delle specializzande, vittime di frequenti molestie sessuali, verbali e psicologiche tipiche dell’ambiente ospedaliero.
Se poi si volesse adottare uno sguardo più lungimirante, proiettandosi quindi oltre agli anni della specializzazione, la situazione non risulta affatto rassicurante, anzi.
I medici italiani sono tra i meno pagati d’Europa, ma non solo. Se lo stipendio medio nella penisola è di 110.000 dollari, in Germania è di 180.000, negli Stati Uniti può arrivare a 350.000 e più, negli Emirati Arabi (nuova meta di emigrazione dei camici bianchi) è di 300.000, in Olanda 190.000. affiancando la libera professione al lavoro nel pubblico, è possibile anche duplicare lo stipendio,
Molti dei presidi di Pronto Soccorso, ad oggi, sono sguarniti di medici dipendenti della Asl, mentre molti sono i medici cosiddetti “gettonisti”: medici che lavorano a turni tramite cooperative, spesso non specialisti ma formati con un corso in emergenza sanitaria territoriale, per un compenso di oltre 60 euro lordi l’ora. Spesso questi medici si occupano solo dei codici bianchi o verdi, lasciando quindi sulle spalle dei pochi e mal pagati dipendenti i casi più complessi.
Da qui si può affrontare un altro tema, che citeremo solamente, ovvero le sempre più numerose cause per malasanità che vedono colpite soprattutto alcune specializzazioni, tra cui sicuramente Medicina di Urgenza, Ostetricia ed altre che comprendono nella pratica clinica procedure ad alto rischio. Fenomeno che sicuramente non incentiva l’approccio a tali discipline e che peraltro porta a un sempre maggiore ricorso alla medicina difensiva.
Delineata questa breve panoramica, non risulta quindi difficile capire perché molti neolaureati scelgono di non intraprendere la strada della specializzazione, bensì di investire qualche centinaio o migliaia di euro per un corso che consenta poi di lavorare tramite cooperative: meno rischi, meno lavoro, più soldi.
In questo contesto incredibilmente complesso, quello che emerge da molti media mainstream è l’urgenza di trovare una soluzione al problema delle aggressioni a danno del personale sanitario da parte di pazienti o parenti, in particolare all’interno dei Pronto Soccorso. Tutto il dibattito si concentra sull’attribuire alle aggressioni la responsabilità della mancata iscrizione dei nuovi medici alle scuole di cui sopra, utilizzandole quindi come capro espiatorio, e a elogiare le ultime misure messe in atto per affrontare il problema, ad esempio il daspo sanitario. Manca però un’analisi reale del fenomeno, che si interroghi sulle sue cause e lo riconosca come sintomo di una crisi importante del SSN che va avanti da anni e della sempre maggiore perdita di fiducia della popolazione nella sanità pubblica. Come scrive anche la rete Chi si cura di te, di cui condividiamo appieno le parole, non è con un approccio securitario, con la militarizzazione degli ospedali, con l’introduzione di un daspo sanitario (che prevede la sospensione della gratuità delle cure per chi commette aggressioni contro il personale sanitario) che il problema può essere risolto. Senza agire direttamente sulle cause, senza tornare a investire nel SSN per permettere ai professionisti sanitari di svolgere la professione in modo dignitoso, non potrà ristabilirsi il rapporto di fiducia e rispetto tra cittadino e medico. Questo Governo, inoltre, con queste proposte accelera ulteriormente lo smantellamento del Sistema Sanitario Nazionale, screditando il servizio pubblico agli occhi dei cittadini.
Tanti, quindi, sono i temi da affrontare per tentare di venire a capo di questa situazione complessa e sconfortante. In primis, bisogna analizzare le condizioni materiali in cui i neolaureati si trovano nello scegliere come far valere la propria etica professionale. Provando ad andare oltre al dibattito sull’adeguatezza o meno degli stipendi dei medici nel servizio pubblico, se scavalcando il sistema sanitario nazionale/pubblico si trova facilmente un modo per vivere in maniera più agiata, economicamente e dal punto di vista della qualità del lavoro, ovvero buttarsi nel privato, è evidente che rimanere invece nel contesto statale diventa un atto di radicalità. Il fatto che, in uno Stato che dovrebbe poter vantare uno dei sistemi sanitari più all’avanguardia e in cui l’inclusività delle cure è una priorità, la scelta di lavorare all’interno di questo sistema sanitario sia diventata una scelta radicale, controcorrente, è un enorme paradosso. E non si tratta di radicalità solo da un punto di vista economico.
Gli orari di lavoro e i ritmi che spesso sono imposti dalla carenza di medici o semplicemente dai continui tagli alla sanità mettono di fronte ad una scelta chiara: tentare di fare il meglio con le poche risorse pubbliche, consapevoli che manca il tempo di cura, la relazione con il paziente, magari anche il confronto con colleghe e colleghi, o lasciare l’avamposto pubblico, per offrire prestazioni magari più curate (e nemmeno sempre), ma solo a chi può permetterselo? Rinunciare a un lavoro dignitoso per restare coerenti con i propri principi o mettersi in privato nella speranza di un ambiente di lavoro migliore ma contrario a ogni ideale di accessibilità delle cure?
C’è una grandissima necessità di alternative, di ragionare ed analizzare soluzioni in maniera collettiva, andando ad indagare onestamente le dinamiche che ci hanno portato a questo punto. È indispensabile ripensare il ruolo del medico all’interno della società, all’interno degli ospedali, rimettendolo al centro non tanto con provvedimenti economici o securitari, ma con politiche che permettano di fare ciò per cui ancora oggi alcuni di noi studiano: mettersi al servizio delle comunità con i propri saperi, mettersi al servizio del paziente non in maniera automatica e sterile, ma entrando in relazione con persona nella sua totalità. Questo non può essere possibile se l’agibilità del personale sanitario all’interno del servizio pubblico non viene incentivata e tutelata e, soprattutto, riconosciuta come fondamentale e non data per scontato. Da qui quindi è necessario immaginare percorsi, anche dal basso, proprio a partire da medici e professionisti sanitari insieme con le cittadine e i cittadini, per sognare e creare una nuova sanità in modo collettivo e condiviso.