La coscienza di Gustav (appunti meyrinkiani) 1

di Franco Pezzini

Tra le spire dell’orchidea (racconti 1901-1904)  

Mentre scrivo, ho davanti una foto di Meyrink ormai anziano: il cranio lucido, gli occhi grandi, febbrili di visioni, i baffi curati nel viso ben sbarbato. Porta un cravattino a farfalla su una giacca di tessuto spesso. Un uomo della Mitteleuropa, un mistico dalla presenza carismatica, una persona perbene, dagli interessi certamente curiosi ma neppure troppo considerando l’epoca.

In Italia ha fatto il possibile per lottizzarlo l’estrema destra evoliana, con cui in realtà Gustav Meyrink ha ben poco a che vedere. Per lui l’esoterismo non è ricerca di poteri (interiori/psichici o esteriori/politici), che miri a influire sulla storia e sulla politica, come teorizzato loscamente dal nostrano Gruppo di Ur di Evola & soci, che a suo tempo propone Meyrink in traduzione italiana per la prima volta. Una di quelle scoperte che sarebbe stato meglio rimandare in attesa di promotori migliori: commovente il sussiego con cui in certe realtà si enfatizzi il tema della lotta (anche di Meyrink) contro i materialismi cattivi, da parte di persone e gruppi crociati dello spirito che però mirano a risultati di potere grettamente materiali e materialistici. Come peraltro i loro eredi ultradestri, tra lottizzazioni di spazi e giochi di poltrone, che con lo spirito c’azzeccano poco. Al contrario l’esoterismo, per Meyrink, è essenzialmente linguaggio congruo a una crescita interiore: niente insomma di facilmente arruolabile sotto i labari di una rivoluzione conservatrice che troppo spesso simpatizza proprio coi mondi poliziotteschi-militari da lui disprezzati con vigore.

Anzirazzista e anzi affascinato dalla cultura ebraica (cui pure non appartenne per lignaggio, come spesso si crederà in grazia del nome di sua madre, la bella attrice Maria Wilhelmina Adelaïde Meyer, destinata a divenire una delle interpreti tragiche favorite da Ludwig II di Baviera) in anni di antisemitismo acceso, nemico di ogni tentazione totalitaristica in un mondo germanico in cui incubava il totalitarismo di destra, antimilitarista in un momento in cui le sirene di nazionalismo aggressivo, militarismo e libido da uniforme connotano non solo l’estrema destra militante ma la borghesia industriale e finanziaria con cui essa flirta e la “pancia” popolare che vi garantisce assenso nella ricerca di capri espiatori delle proprie frustrazioni, Meyrink (1868-1932) va collocato nel suo tempo anzitutto per le forme (pre)espressioniste che offre alle narrazioni. Il grottesco, l’onirico, l’orrido sono chiavi di una sensibilità che troverà epifania collettiva nell’arte di Weimar, ma già in lui mostra i primi frutti.

Figlio illegittimo di un ministro del Württemberg, il barone Karl von Varnbüler und zu Hemmingen, e dunque cognominato Meyer come la giovane madre, Gustav nasce protestante nella cattolica Vienna – probabilmente perché la sorella maggiore, Dustmann-Meyer, nata nel 1841, era cantante presso il Vienna Court Opera fin dal 1857. Certo, la sorella si muove nel mondo scintillante dello spettacolo, ma la Vienna del tempo non si esaurisce in quella stereotipa dell’Opera e dei valzer di Capodanno, delle serate al Grinzing o delle fantasie alla Sissi – La giovane imperatrice: il paese, coinvolto in tensioni internazionali su vari fronti ma con un’identità sempre più divorata dal vicino tedesco, esperisce dimensioni di tristezza e inquietudine, soffocato com’è – come rilevano per esempio osservatori britannici – da una greve burocrazia, dall’ingombrante presenza dell’esercito e da un moralismo che trova ideale contrappunto nell’eros convulsivo di bordelli e parafilie. Quello in particolare repertoriato da Richard von Krafft-Ebing nel suo enorme affresco idealmente dalle stelle alle stalle dell’impero… Quanto tutto ciò influisca sulla produzione di colui che dopo Hoffmann e Paul Scheerbart resterà il terzo grande autore di romanzi fantastici di lingua tedesca possiamo solo immaginare, ma certo è un’eredità che arriverà in forma frenetica alle fantasie di Weimar.

Fino a tredici anni Gustav vive a Monaco, vi completa gli studi elementari, quindi passa per un paio d’anni ad Amburgo con la nonna materna e infine si trasferisce con la madre a Praga (1883), dove studia in una scuola commerciale, per poi iniziare a lavorare da impiegato in una ditta di esportazioni. È la città in cui vivrà vent’anni, fino al 1904 (ma non seguirà a San Pietroburgo la madre, peraltro indifferente a lui): la città a cui il suo nome rimarrà associato, di cui parlerà continuamente con pagine bellissime, e non è inopportuno ricordare che Kafka (del 1883, quindici anni in meno) nasce a Praga nello stesso anno in cui Gustav vi trasloca. Ma con Praga (e con la stessa Monaco) Meyrink intrattiene sentimenti di amore & odio ben più complessi di quanto suggerisca la facile cartolina da “Praga magica” che si troverà appioppato con la fama popolare sulla città rudolfina.

Nel 1889, assieme al nipote del poeta Christian Morgenstern tenta anche l’avventura nel campo finanziario diventando titolare del Primo ufficio del cambio cristiano Meyer und Morgenstern, una piccola banca aperta in Piazza San Venceslao nel 1889 con un capitale lasciatogli dal padre e svincolato alla maggiore età. Depresso, come vedremo, in questi anni tenta il suicidio. Nel 1892 si sposa una prima volta, con Hedwig Aloysia Certl, ma anche se il matrimonio sarà disastroso lei acconsentirà al divorzio solo nel 1905, quando poi lui si risposerà (in Inghilterra, per non creare scandali) con Philomena Bernt, figlia di un banchiere e cugina di Rilke. Dal 1895 prende a far parte dell’Associazione degli artisti visivi tedeschi in Boemia, assieme, tra gli altri, allo stesso Rilke, a Emil Orlik, Oskar Wiener e Hugo Steiner: su questa dimensione in lui della visione e dell’immagine dovremo tornare. E finalmente nel 1901, prende a scrivere e pubblica il suo primo racconto sulla rivista “Simplicissimus”.

Tra vita privata, frecciate narrative e attività finanziaria pesta qualche piede, guadagnandosi l’ostilità di burocrati di pochi scrupoli che gliela giurano; inizia a soffrire (1900) di diabete e tubercolosi al midollo spinale, e viene ricoverato in sanatorio per un periodo (1901). Nel 1902, attaccato su tutti i fronti – dal corpo al lavoro –, vittima di una campagna delatoria orchestrata a base di falsità, arriva a sfidare a duello l’intero corpo degli ufficiali di un reggimento praghese, ma deve chiudere la banca, i cui conti pure sarebbero a posto, e viene imputato ingiustamente per frode. Passerà due mesi e mezzo in prigione prima dell’assoluzione (dell’esperienza offre conto il suo romanzo più celebre, Il Golem, 1913-14), ma la carriera finanziaria è stroncata e tenterà invano di essere riabilitato. La salute sta cedendo, e si riprende con la pratica accanita dello yoga. Però – come dice il proverbio – quando si chiude una porta, si apre un portone, e proprio la scrittura ne sarà lo strumento. Nel 1903 esce la sua prima raccolta di racconti, Der heiße Soldat und andere Geschichten, con satire al vetriolo, tratte dai racconti pubblicati su rivista.

Fino al 1891, ammetterà lui stesso, è stato un uomo senza qualità con soltanto tre interessi nella vita, cioè donne, scacchi e canottaggio. L’esperienza negli affari non sembra offrirgli esistenzialmente nulla: e nonostante alcuni aspetti della sua vita giovanile facciano pensare a quella di un connazionale che nella Trieste asburgica cercherà soluzioni nella psicanalisi come poi Gustav nell’esoterismo, lo Zeno Cosini del quasi coetaneo Svevo (sei anni di più, nato nel dicembre 1861 e Gustav è del gennaio 1868), il tentato suicidio che per il cognato di Zeno termina goffamente in tragedia avrà esito diverso per Gustav. Afflitto da taedium vitae e da ripetuti fallimenti sentimentali, probabilmente oppresso dalla pessima avventura finanziaria, un giorno d’estate 1891, il Nostro banchiere ventiquattrenne è in piedi accanto al tavolo e sta per farsi saltare le cervella, quando all’improvviso un commesso di libreria gli fa scivolare sotto la porta un opuscoletto con il titolo L’Aldilà. Racconterà: “Presi il fascicolo e cominciai a sfogliarlo. Contenuto: spiritismo, occultismo, stregoneria” – tutti temi di cui ha sentito parlare. Jung non ha ancora elaborato la categoria della sincronicità, ma quella coincidenza fatale intriga il giovane che abbassa la pistola, la chiude nel cassetto e inizia a occuparsi di occulto. Cioè teosofia, Kabbalah, misticismi d’Oriente, la sofiologia di qualche successo nella Russia coeva… tutti temi che torneranno nei suoi romanzi.

Prende a sperimentare alcune droghe (in particolare l’hashish, le relative allucinazioni lo interesseranno molto) e a praticare appunto lo yoga; partecipa con Karl Weinfurter alla costituzione della Loggia Zum blau Stern (Allo stella blu) e aderisce a vari ordini esoterici. Ha qualche contatto con la teosofa e socialista Annie Besant (1847-1933), si interessa al lavoro di un esperto di tradizioni esoteriche, il viennese Fritz Eckstein (1861-1939), e intraprende gli studi mistici con l’occultista rosicruciano e medium Alois Mailänder (1843-1905), frequentando anche i giri spiritisti: per esempio, come Thomas Mann, partecipa agli incontri con il medium austriaco Willi Schneider, organizzati dal barone Albert von Schrenck-Notzing a Monaco – ecco di nuovo Zeno, con le sedute spiritiche tanto divertitamente descritte da Svevo… – ma come molti cultori di un esoterismo profondo resta deluso dalla superficialità e dalla poca affidabilità degli interlocutori attorno al tavolino, contribuendo anche a smascherare falsi medium. La sua è un’ansia genuina di sapere, che gli fa approfondire una serie di temi e tecniche, anche se i suoi esperimenti di occultismo e discipline mistiche proseguiranno – si è detto – a tentoni. Per mesi mangia solo legumi, assorbe due volte al giorno gomma arabica diluita nella minestra, dorme solo tre ore per notte e pratica pericolosi asana che gli fanno rischiare la morte per soffocamento. Tentato più volte di mollare, prosegue con cocciutaggine e ha anche esperienze di veggenza. Diventa così il Meyrink “ciarlatano mistico” di cui parlerà con divertita sufficienza Angelo Maria Ripellino, giudizio che però non gli rende giustizia: negli scritti di Meyrink, al di là del linguaggio esoterico, c’è molta più interiorità e profondità umana di quanto gli enfatizzatori del magico saranno pronti a riconoscergli. D’altronde, critico tagliente, Meyrink lo è pure sugli ambienti dell’esoterismo: non solo quelli di fanatici e truffatori, ma la teosofia – che considera religiosità di gente di scarsa cultura – e il pensiero di Rudolf Steiner (1861-1925), che pure mostra rispetto per lui, cui rivolgerà qualche frecciata.

È comunque l’occultismo che gli offrirà la fama come narratore, permettendo al dandy di mutare in asceta e scoprire una genuina, febbricitante dimensione visionaria della scrittura: e assume lo pseudonimo Meyrink. Ci si attenderebbe anzi che prendesse a scrivere subito di esoterismo: e invece il primo frutto di quella alchimia interiore sono racconti, talora angosciosi ma più spesso grotteschi, di critica sociale, precipitato delle sue delusioni e del suo disgusto. Diventa così una delle firme più apprezzate della rivista umoristica viennese “Der liebe Augustin” e soprattutto del “Simplicissimus” di Monaco, la più importante rivista satirica tedesca (con una lunga storia, fondata nel 1896, sospesa 1944-54 per poi trovare la fine nel 1967 – nel complesso relativamente moderata). E va detto che le sue relazioni con i circoli rosicruciani sembrano allentarsi fin dall’epoca dei primi testi editi sul “Simplicissimus”.

L’esperienza in carcere, ma forse più ancora l’esperienza umana del mondo triste da cui ha cercato di smarcarsi e le brutture ideologiche che ha visto suppurare offrono materia ai suoi racconti in tanti casi sferzanti. Obiettivi la Germania prussificata e un’Austria-Ungheria che ha perso la propria identità, e vivacchia all’ombra del potente vicino; una borghesia filistea e ottusa; il militarismo dilagante. L’atteggiamento nazionalistico della borghesia tedesca lo spinge dalla parte dei cechi, la cui critica letteraria non gli lesinerà tuttavia freddezze, accusandolo di falsificare la vita praghese – in effetti non gli interessa affatto descrivere storicamente le tensioni tra comunità tedesca e ceca. La sua è una Praga visionaria e fantastica.

Le sue prime storie sono racconti appunto apparsi sul Simplicissimus, e più tardi raccolti in quattro volumi: Der heiße Soldat und andere Geschichten (Monaco 1903, dieci racconti), Orchideen. Sonderbare Geschichten (Monaco 1904, diciannove racconti), Gustav Meyrinks Wachsfigurenkabinett. Sonderbare Geschichten (Monaco 1908, quindici racconti), Jörn Uhl und Hilligenlei (1908, dove parodizza opere dello scrittore razzista Gustav Frenssen, 1863-1945, poi accanito nazista). In seguito li riunirà, assieme ad altri lavori critici sulla borghesia tedesca, in Des deutschen Spiessers Wunderhorn (Monaco, 1913, tre voll., cinquantatré storie). Interessante notare come da racconti inizialmente semplici, basati su una pungente provocazione in cauda, Meyrink costruisca macchine narrative via via sempre più sofisticate.

Sappiamo che Gustav ama il mondo dei caffè, e Max Brod lo ricorderà come la figura centrale (assieme a Gustav Kauder) del gruppo al Caffè Continental, dove si gioca a scacchi e si discute di temi sociali e letterari. Il lavoro “praghese” di Meyrink si collega idealmente al gruppo neoromantico della Giovane Praga (Viktor Hadwiger, Paul Leppin, Richard Teschner, Oskar Wiener) con alcune tangenze stilistiche e ideali. Precede dunque quello dei due gruppi che Max Brod chiamerà il grande e il piccolo circolo di Praga (nati rispettivamente a partire dal 1883 o decisamente più giovani): nel primo figurano Kafka, Felix Weltsch, Oskar Baum, Ludwig Winder che pubblicano a partire dal 1904, nel secondo Franz Werfel, Willy Haas e iniziano a pubblicare quando Gustav ha ormai da tempo lasciato Praga. Da Paul Leppin sappiamo che Gustav, poco prima dello scandalo che lo travolge, esprime davanti agli amici l’intenzione di scrivere un libro. Lo guardano incuriositi.

Se i primi tentativi letterari noti dell’autore risalgono al 1897 (lo studio psicologico Tiefseefische, forse L’albergo delle tre colonne), il primo racconto edito è Il soldato bollente (Der heiße Soldat, “Simplicissimus”, 29, 1901), che sbeffeggia insieme medicina positivistica e mondo militare: in Indocina, in seguito al trattamento di un fachiro, un soldato boemo della Legione Straniera presenta – senza morire – una temperatura corporea così assurdamente alta da spingere i sacerdoti del tempio locale a cuocere il pollo su di lui, e i medici a prodursi in impagabili, spocchiose dichiarazioni.

Izzi Pizzi (Izzi Pizzi, “Simplicissimus”, 5, 1902) è il divertente racconto della tentata seduzione di una chansonette da parte di un perdigiorno. Decisamente più originale, grottesco e divertitamente paradossale, La morte viola (Der violette Tod, “Simplicissimus”, 8, 1902) vede dilagare nel mondo fino al remoto 1950 – anni in effetti di fantascienza scatenata – i paradossali effetti di una magia tibetana, scatenata per effetto dell’impresa di un ardimentoso inglese: al risuonare di una certa parola, non importa se pronunciata senza intenzione, la gente che ascolta si trasforma all’improvviso in forme geometriche solide di muco gelatinoso viola. Iniziamo a capire perché i contemporanei di Meyrink non lo vedano tanto come autore del fantastico, quanto del grottesco.

Tutt’altro è il clima di Terrore (Der Schrecken, “Simplicissimus”, 12, 1902 – lo stesso anno della detenzione per frode), che della claustrofobia del carcere esprime tutto l’orrore. Gran parte dei detenuti sono malati di scorbuto, uno reo di omicidio dovrà essere impiccato (la suggestione tornerà nel Golem) e in seguito al suo sconvolto accesso d’ira è stato legato con cinghie su una panca – “E gli hanno messo addosso un crocifisso!”. In quella situazione da incubo espressionista, il Terrore si presenta incarnato nella forma di una spettrale, gigantesca sanguisuga emersa da una cassapanca per succhiare sangue ai prigionieri, compreso il condannato. Che ha ormai messo distanza dal proprio crimine, non ucciderebbe più – o almeno non la vittima, forse invece il cappellano… salvo svegliarsi la notte e prendere a gridare. Mentre nel cielo, lettere uncinate di nubi in disfacimento sembrano esortare a non giudicare per non essere giudicati.

I toni sono molto vari. Alla satira “Si fa – si fa – principessa” (“Thut sich – macht sich – Prinzeß”, “Simplicissimus”, 18, 1902), con due borghesi in treno che mostrano la loro vuotezza e ipocrisia tra frasi senza senso, estasi culinarie e senso indebito di superiorità morale, segue per esempio lo straziante Tutta la vita è dolore ardente (Das ganze Sein ist flammend Leid, “Simplicissimus”, 24, 1902). Che parte di nuovo da un carcere dove Jürgen, un poveraccio detenuto per otto mesi prima d’essere assolto per mancanza di prove, avvia una triste vita come commerciante di uccellini – nel frattempo è diventato zoppo, gli è stato amputato un piede congelatosi dormendo su una panchina al parco. Ma uno studente ha dimenticato al suo negozio un libro recante una traduzione dall’indiano sul tema della vita come dolore ardente e la spinta alla purificazione: Jürgen pensa allora agli uccellini delle sue gabbie, ed è colto da un tale dolore da trovarsi le lacrime agli occhi. Quando una supponente dama arriva a consegnargli alcuni usignoli per farglieli accecare (“Sì, accecarli… estrargli gli occhi o bruciarli, non so come si faccia. Lei come commerciante di uccelli deve saperlo”), Jürgen non va a dormire e prende una decisione: porta le gabbie sulla Piazza del Mercato, libera i volatili, torna al negozio e si impicca.

Acido di Bock (Bocksäure, “Simplicissimus”, 32, 1902) narra di disinvolte e buffe gesta enologiche in un monastero di Malaga. Più interessante, Petrolio! Petrolio! (Petroleum, Petroleum, “Simplicissimus”, 35, 1902) si ambienta nel futurissimo 1951: Kunibald Jessegrim, uno scienziato deluso che più volte ha avuto la tentazione di farla finita, vuole punire le ottusità del mondo: per far ciò fa esplodere una dopo l’altra le pareti divisorie delle cavità sotterranee della Terra che (calcola) sono colme di petrolio. Arrivato all’ultima esplosione che farà tracimare tutto quelle immense quantità di petrolio nell’oceano, abbandona il Messico dove vive, per recarsi a New York. Agli americani la catastrofe ecologica (a suo modo di terribile bellezza) interessa molto per l’impatto sul prezzo del petrolio, mentre gli europei non sono turbati, presi come sono dal varare una serie di leggi demenziali, come l’“abolizione del nome proprio degli individui maschili […] che avrebbero dovuto stimolare l’amor patrio e rendere gli animi più atti a prestare il servizio militare”. Comunque Jessegrim calcola che in meno di trenta settimane, immaginando un identico flusso, tutti gli oceani della terra saranno coperti di petrolio e l’acqua non potrà più evaporare: e in quella situazione il vecchio ordine delle cose viene messo radicalmente in crisi. Si comincia a gridare “Basta con il militarismo che divora… divora… divora il nostro denaro! Costruite macchine, escogitate mezzi per salvare dal petrolio l’umanità disperata!” e si vagheggia di licenziare le truppe per riconvertire i soldati agli usi civili. Ma ciò che a questo punto preoccupa i governi di fronte alla catastrofe è cosa fare di tutti gli ufficiali…

Tra macabro e grottesco, Il cervello (Das Gehirn, “Simplicissimus”, 44, 1902) racconta la strana storia di un uomo che, in seguito a un trauma subito teme la vista di un cervello – al punto che muore per lo shock a trovarsene uno accidentalmente davanti. Il racconto è un’occasione per mettere nuovamente in luce la supponenza aggressiva dei medici e l’ottusità diffusa. Sempre in tema patologico, “Malato” (“Krank”, “Die Gesellschaft”, 1902) è il resoconto enfatizzato e concitato di un’attesa nella sala di ritrovo d’un sanatorio: in un’“atmosfera […] indicibilmente uggiosa e triste” che pare pronta per un’esplosione di rabbia, con “insulsi motti tedeschi a nere lettere lucide” a campeggiare intorno, di fronte a un ragazzino dall’aria stupida vestito dalla madre con pessimo gusto (impagabili le guarnizioni di pizzo bianco cucite sulle maniche di velluto) e che non riesce a sistemare dei pezzi di domino in una scatola, sempre troppi o troppo pochi rispetto alla medesima, il narrante si sente contagiato e depresso.

Presi a sognare tutte le tetre esperienze della mia vita: esse si guardavano l’una con l’altra con occhi neri da domino, quasi fossero alla ricerca di qualcosa d’indefinibile, ed io le volevo allineare in una bara verde… ma ogni volta erano o troppo numerose o troppo poche.

“Praga mente e russa come una venditrice ubriaca”: così La morte di Selchers Schmel (Der Tod des Selchers Schmel, “Die Zukunft”, 1903), storia di  Amadeus Veverka, promosso superieur inconnu nell’ordine occulto della Confraternita Ermetica di Luxor. Con le tecniche apprese beneficia di una serie di visioni, come questa:

Un corteo imprevedibile avanza ritmicamente a ritmo: la terra trema. Sono maiali – maiali! Maiali che camminano in posizione eretta! – Soprattutto i più nobili tra loro, i primi nel corso della trasmigrazione delle anime, che erano già i più coraggiosi sulla terra – e ora indossano berretti viola e nastri colorati, affinché tutti possano vedere in quale forma un giorno si reincarneranno.

Ma dal tipo di risveglio risulta che ha avuto un incubo…

Jörn Uhl (“Simplicissimus”, 2, 1903), come accennato, gioca con le storie di costume della Germania profonda dello scrittore Gustav Frenssen (1863-1945), poi ardente nazista, autore appunto del romanzo Jörn Uhl (1901).

La sfera nera (Die schwarze Kugel, “Simplicissimus”, 5, 1903) evoca il singolare caso per cui una tecnica dei Sikkim che permette di veder ricreati in un’ampolla i pensieri di un bramino – con paesaggi di indescrivibile bellezza –, ottiene risultati deludenti se a pensare è un occidentale, e addirittura apocalittici se è un militare tedesco. Compare una specie di buco nero destinato a inghiottire l’universo…

Ambientato a Praga, “Il preparato anatomico” (Das Präparat, “Simplicissimus”, 12, 1903) è invece un vero e proprio racconto dell’orrore pre-espressionista: due amici, Ottokar e Sinclair, intendono scoprire cosa sia stato di un terzo, Axel, il cui corpo sarebbe nelle mani di un losco anatomista persiano, il dottor Daraschekoh. Questo è stato allievo di tal Fabio Marini che potrebbe trovare ispirazione in Girolamo Segato (1792-1836), virtuoso dei corpi pietrificati: “con questi occhi a Firenze ho visto il cadavere di un bambino preparato da Marini”, e Segato ha lasciato proprio a Firenze una serie di reperti trattati. Il dubbio è che Axel, vendendo anticipatamente al persiano il proprio cadavere, fosse solo addormentato. Allontanato dunque dalla città Daraschekoh con un trucco, i due penetrano nella sua casa: troveranno qualcosa peggiore d’ogni loro fantasia nera. Per quanto l’orrore sia tanto e in alcune immagini paia prefigurare H.R. Giger, resta comunque uno scarto dalle disturbanti, insistite e morbose saghe di corpi di Hanns Heinz Ewers (1871-1943, cfr. qui e qui), ideale e più giovane contraltare di Meyrink.

L’acqua densa (Das dicke Wasser, “Simplicissimus”, 14, 1903) è una storia buffa nel mondo del canottaggio, da Meyrink frequentato appassionatamente; mentre Il dottor Lederer (Dr. Lederer, “Simplicissimus”, 24, 1903) è un apologo grottesco dai connotati fantastici. All’apparizione nel cielo di un disco luminoso con un’immagine – così pare – di camaleonte al centro, la signora Cinibulk incinta di otto mesi partorisce per lo spavento: ma il bambino è talmente orrendo che il marito, il consigliere civico Cinibulk cita in giudizio per adulterio con sua moglie un tal dottor Lederer – che in effetti sembra un camaleonte. Al processo l’avvocato di lui fa osservare che il bambino presenta sulle piante dei piedi delle macchie che possono essere ereditarie: chiede dunque di far controllare i piedi del padre e di Lederer. I piedi malformati di quest’ultimo sembrano zampe di camaleonte, e il difensore domanda in amicizia al medico legale se la malformazione potrebbe far desumere un’alienazione mentale. “Certo che potrei… posso far tutto, visto che una volta sono stato medico del reggimento; ma aspettiamo che rientri il consigliere civico”, che è andato a lavarsi i piedi prima di mostrarli. Insomma, questa del medico del reggimento è una nuova frecciata all’esercito.

E finalmente interviene l’ottico Cervenka: ammette che la colpa è dell’innovativo riflettore da lui inventato, con cui ha proiettato contro il cielo per esperimento una piccola immagine (non di un camaleonte, ma) proprio del singolare dottor Lederer fotografato ai bagni turchi. Ciò ha impressionato la signora che ha partorito un figlio con quei connotati. In compenso sotto le piante del consigliere civico ci sono macchie simili a quelle del figlio, ma si “doveva ancora cercare di vedere se per caso non andavano via lavandole”. L’imputato viene assolto per mancanza di prove. L’apologo presenta grottesche fantasie scientifiche, ed è inevitabile vedervi una sorta di anello di congiunzione tra il mondo delle lanterne magiche e quello del cinema espressionista. L’uomo bestiale di questa e altre fantasie è del tutto speculare alle bestie antropomorfizzate di vari racconti di Meyrink.

Si torna all’horror – quasi surrealista – con L’opale (Der Opal, “Simplicissimus”, 27, 1903), sulla pietra che la signorina Hunt porta al dito nell’ammirazione generale, ereditato dal padre e che avrebbe “in sé un che di mobile, d’irrequieto, come l’occhio di una persona”. A quel punto il signor Jennings legge una storia dagli appunti di viaggio in India del fratello. Meta, Mahawalipur, la favolosa città scavata nella roccia e segue una descrizione molto vivida del loro avvicinarsi e del luogo inquietante con statue riferite “a misteri di inaudita profondità di cui noi occidentali abbiamo appena un’idea”. L’atmosfera è impressionante, c’è anche la statua di Kala Bhairab, la dea del colera: escono nella notte, e a un tratto odono dal tempio un grido raccapricciante e ripetuto. Tornano all’interno, e trovano un fachiro con le collane degli adoratori di Durga in stato di estasi: ai suoi piedi sono i corpi decollati di due dei sepoys della loro spedizione. Il fachiro sfugge alla loro presa con forze inimmaginabili, e dietro l’altare trovano le teste mozze dei due sepoys. Qui al manoscritto manca un foglio, e Jennings completa a voce. L’espressione delle teste era indescrivibile, “sembrava la risata distorta di un pazzo” ma a impressionare erano soprattutto gli occhi: “quando li esaminammo, sembrò che fossero diventati dei veri opali”, e così verrà confermato dalle analisi chimiche.

“[…] In che modo i globi oculari potessero trasformarsi in opali, per me rimarrà sempre un mistero. Lo chiesi ad un bramino di grado elevato ed egli sostenne che ciò avviene tramite la cosiddetta Tantrika, una parola magica, e che il processo si compie con grande rapidità e, per precisione, partendo dal cervello: ma chi potrebbe crederci! Allora egli soggiunse che tutti gli opali indiani hanno la stessa origine e che portano sfortuna a chi li possiede, poiché sono offerte per la dea Dhurga, la distruttrice di ogni organismo vivente, e tali dovrebbero restare”.

Di nuovo, in sostanza, una mineralizzazione anatomica, cioè un nuovo balzo da un regno a un altro della Natura. Il racconto finisce con la signorina Hunt che chiede a Jennings di frantumare la pietra…

Blamol. Una storia di Natale (Blamol, “Simplicissimus”, 39, 1903), ambientato tra la vigilia e il giorno di Natale in fondo al mare, tra polpi, cavallucci marini e loschi granchi poliziotti, vede una pastiglia di Blamol, farmaco equivoco dal naufragio di una nave, finire ingoiata da una creatura marina: ma “Blamol è stato abbandonato da tempo, è un farmaco di ieri, oggi si usa generalmente il cloro idiotino (la medicina avanza inesorabilmente)”. E anche “La maledizione del rospo – La maledizione del rospo” (“Der Fluch der Kröte — Fluch der Kröte”, “Simplicissimus”, 47, 1903) è un apologo favolistico con animali, stavolta ambientato in India: un rospo riesce a danneggiare l’odiato millepiedi, che in seguito al suo messaggio fintamente cerimonioso, messo in confusione, non riesce più a ricordare in quale ordine muovere le zampe.

Ben più amaro, La regina dei Braghi (Die Königin unter den Breghen, “Simplicissimus”, 51, 1903) racconta del crollo del pragmatico e apparentemente inscalfibile dottor Jorre: forse in rapporto con la caduta di una vecchia rosa appassita accanto al suo letto – il filo consunto si è ormai spezzato – il sogno simbolista di una donna coronata che emerge gloriosa dalla palude gli annuncia che “Colei che una volta fu Regina del tuo cuore, ora è qui Regina dei Braghi!”. Ignora il significato della parola Braghi (Breghen, inventata dall’autore sulla base di bragós, fango/palude), ma la tristezza che gli evoca lo abbatte irreversibilmente. Il richiamo sghembo ed enigmatico a un antico amore rimosso in nome dell’efficienza borghese può abbattere l’uomo più solido… dove quella palude è già indicativa.

Il racconto dal curioso titolo Lacrime bolognesi (Bologneser Tränen, “Deutsche Arbeit”, 1903) – riferite a un tipo di gocce di vetro dalla punta filiforme – è una cupa, potente storia espressionista di dark lady e stregonerie. Il povero Tonio è impazzito, ma era stato un amico. Al tempo, tanto prima, la fatale creola Mercedes – ormai sparita, chissà che ne è stato – era l’amante di un giovane russo: il narrante e Tonio la conoscono a una festa al Club delle Orchidee, con mille fiori strani a velarla e come a “bisbigliarle all’orecchio nuovi ed inauditi peccati”. Queste orchidee espressioniste da fantasie Jugendstyl sono simili a serpenti, come una quasi senziente che poco dopo apparirà e sembra gioire della propria padrona: in Meyrink esiste tutta una botanica da incubo (vedremo presto il famoso Le piante del dottor Cinderella) ma è un tema simbolista diffuso quello della donna-pianta assassina, a invertire in chiave allarmante il mito di Dafne: si pensi solo alla mandragora dell’Alraune di Ewers (1911). D’altra parte Mercedes sarà l’allarmante antesignana di alcune donne fatali dei romanzi più maturi di Meyrink.

Poi un servitore di colore entra e offre delle “lacrime bolognesi”: Mercedes ne passa una al russo, che la trattiene tra le labbra e poi la ridà all’amante. Peccato che, il giorno dopo, il povero giovane finisca ammazzato dall’esplosione di una caldaia, che “lo ridusse in atomi”. Mercedes diventa allora amante – “un amore impetuoso, furioso” – del fratello di lui, Ivan: e a un tratto anche lui muore male, cadendo da una mongolfiera. Ma lei, apparsa in carrozza qualche settimana dopo, è imperturbabile come uno dei colossi di Memnone. Al ritorno del narrante da un viaggio, scopre che l’amante in carica di lei è ora Tonio, totalmente succube: ma un giorno lo trovano sconvolto, distrutto. Alcuni scritti trovati a casa di lei testimoniano che è una strega, e ha fatto morire i due giovani russi con le fatali “lacrime bolognesi”, tenute in bocca dalla futura vittima a stabilire un legame magico e spezzate in chiesa durante la messa… Gli amici tentano di suggerire a Tonio che forse Mercedes lo ama diversamente, ma quando riceve una lettera in cui lei gli chiede una “lacrima bolognese”, il giovane impazzisce.

Un cupo bozzetto espressionista è ancora quello di Sibili alle orecchie (Ohrensausen, Der heisse Soldat, cit., 1903), dove il pozzo chiuso da una botola di ferro, sottostante una certa casa di Praga in cui vive soltanto gente scontenta, è nottetempo ostello e ricetto per le larve della cupidigia attive di giorno nel mondo, e che là sotto, nel mezzo dello spazio, affilano gli artigli su un disco di pietra grigia rotante a folle velocità: “l’ha temprato il Male al fuoco dell’odio, millenni or sono, molto prima che Praga sorgesse”. Tappandosi le orecchie, “si potrà sentirla sibilare dentro di sé”.

Hony soit qui mal y pense (Hony soit qui mal y pense, “Simplicissimus”, 4, 1904) è un ilare bozzetto di costume ambientato alla festa del Capodanno 1929 con il conte Oskar Gulbransson e una serie di convitati orientali.

Nel divertente Ma… allora! (Das—allerdings, “Simplicissimus”, 33, 1904) alcuni spiritisti sottopongono al celebre filosofo svedese Arjuna Zizerlweis il caso di un medium che agirebbe su soggetti in modo tale da permettere una fotografia del loro futuro. Ma il filosofo smonta scetticamente sia il caso del soggetto sano che mostra segni apparsi due mesi dopo per il vaiolo (si tratterebbe, obietta, di pustole in germe riconosciute più acutamente dalla lastra), sia quello del giovane con una macchia nera in mezzo alla fronte come poi la avrà per il colpo di pistola con cui si suicida (ma è chiaro che ha tratto una suggestione dalla foto, probabilmente era una macchia banale). Zizerlweis si convincerà (“Hum, hum – ma allora, ma allora!”) solo con il caso di un commesso in un negozio di verdura la cui testa sparisce nella foto per lasciar posto a luci nella disposizione della Costellazione dell’Ariete – infatti entrerà militare in fanteria…

Di nuovo terribili orientali – quelli reinventati nel cinema espressionista con cerone e bistro sugli occhi – tornano in L’uomo sulla bottiglia (Der Mann auf der Flasche, “Simplicissimus”, 47, 1904): una festa mascherata è occasione per una lussureggiante parata di trovate oniriche, costumi fantastici, marionette sinistre. Come afferma un convitato vestito da Salamandra,

“Non credo che questo spettacolo voglia avere un senso vero e proprio. Solamente cose che non rappresentano nulla d’intellettuale sono in grado di trovare l’accesso segreto dell’anima […] E come vi sono individui che alla vista delle secrezioni acquose dei cadaveri dissanguati sono colti da un’ebbrezza erotica ed emettono fioche grida estatiche, egualmente esistono anche…”.

Quest’ultima frase sembra evocare fantasie alla Ewers. Ma sull’onda di un più classico gotico ottocentesco, lo spettacolo messo in scena dal principe Darasche-Koh – chiamato come l’anatomista crudele dell’altro racconto, potrebbe essere lo stesso personaggio o piuttosto una figura-funzione, che in effetti tornerà ancora – è in realtà finalizzato a punire atrocemente un tradimento della moglie con il conte de Faast. In modo diverso i due vengono soffocati (rileviamo il tema, dovremo tornarvi).

Stregoneria e satira si abbinano in Coagulo (Coagulum, “Die Zukunft”, 47, 1904), dove il vecchio Hamilkar Baldrian invoca il demone Astaroth, identifica un tesoro sepolto e traccia una mappa per ritrovarlo, ma muore; lo scrittore suo nipote avvia la ricerca, ma nella cassetta rinvenuta nella brughiera e portata trionfalmente fino all’ufficio municipale si trova solo una “molle massa elastica nero-giallastra, dalla superficie luccicante”. Le perizie non riescono a stabilire cosa sia, ma a quel punto la sostanza non ha valore economico; e il mistero resta, finché il nipote non riceva la rivelazione da uno spirito. “[…] si tratta della parola d’onore di un ufficiale, coagulata e fossilizzata” (ecco il senso del titolo Coagulo), di nuovo con una sferzata satirica non da poco.

Nel 1904 Gustav Meyrink si è trasferito a Vienna (iscrizione nel registro 1904 come suddito del regno di Baviera, certificato di residenza agosto 1905), dove è diventato caporedattore – maggio-novembre 1904 – della rivista umoristica “Der liebe Augustin”, che in realtà chiuderà molto presto, ma su cui pubblica alcuni racconti degni di nota.

Alchimia e critica sociale, conoscenza iniziatica e conoscenza di apparato si combinano per esempio in La goccia di verità (Der Wahrheitstropfen, “Der liebe Augustin”, 9, 1904), con la storia grottesca di una goccia d’un misterioso liquido che, collocata tra due punte d’argento a formare una sfera perfetta permetterebbe arcane visioni. Suggestiva l’intuizione del “sottile setaccio costituito da atomi roteanti e [del fatto che] se si fossero trovati i raggi giusti, niente avrebbe impedito di guardarvi attraverso”, precedente l’elaborazione compiuta del modello atomico di Rutheford. Ma alla fine il povero protagonista viene arrestato e “incarcerato sotto l’imputazione di matricidio plurimo” e lo strano fluido confiscato.

Il titolo Decadenza (Der Untergang, “Der liebe Augustin”, 12, 1904) evoca un tema all’epoca molto dibattuto: il termine usato nel titolo di questo racconto è Untergang e non Entartung, “Degenerazione” come nel celebre saggio di Max Nordau datato 1892-1893, ma ci si muove su provocazioni parzialmente simili. Il racconto è fortemente evocativo di un’epoca: ecco il povero, nervosissimo Chlodwig Dohna che vive ogni realtà dotata di limiti e confini – dal corpo umano agli oggetti – come soffocante, al punto da farsi saltare le cervella, quasi un caso da psicanalisi; ecco la località modaiola di cura come luogo d’incontro di personaggi peculiari – a Levico in Trentino, presso il lago di Caldonazzo, il protagonista conosce un bramino; ecco l’alta marea dell’irrazionale, una decadenza che Meyrink biasima e deride. Così ci vengono presentate le speculazioni del bramino su un futuro evento catastrofico in Asia per il 1914; la notizia che a Praga un reincarnato, Jan Doleschal, ne fosse informato tramite vie sottili; la surreale comunità di Doleschal e i discorsi estatici di lui. Il tutto in un’Europa che tra registrazioni di traumi e psicopatologie (eventualmente sessuali, come quelle repertoriate da Richard von Krafft-Ebing, morto nel 1902), stazioni termali e comunità d’illuminati (il Sanatorium del Monte Verità di Ascona, 1902) con transiti su e giù dall’Oriente, offre non poche suggestioni alle narrazioni meyrinkiane. A recare a Dohna un trauma fatale è una scioccante avventura nel tempio di vetro di quella setta, con il rischio di morire soffocato come il conte de Faast è morto soffocato nel vetro del racconto L’uomo sulla bottiglia. Qui – come in altre opere – Meyrink sviluppa la critica a un misticismo d’accatto: non vuole confondere la ricerca interiore seria con le ubbie estatiche al tempo tanto diffuse.

Nel frattempo ha pubblicato (a Monaco, come detto) la seconda raccolta Orchideen. Sonderbare Geschichten; la patologia al midollo spinale si aggrava e viene dichiarato incurabile, ma in un anno si riprende e attribuisce il successo alle pratiche yoga. Ma continua a scrivere.

In Chimera (Chimäre, Orchideen, 1904) la rivelazione a un viandante da parte di un vecchio circa un favoloso filone aurifero sotto la chiesa va a braccetto con la fallacia dell’idea – appunto la chimera –  che quell’oro possa trovare un utilizzo virtuoso in un mondo tanto avido. Sotto testo può esserci l’idea della tanto scarsa attenzione a lui e al suo lavoro nell’ottusa realtà del suo tempo.

Suggestione (Eine Suggestion, Orchideen, 1904) si presenta invece come stralci di diario, blocchetti di indicazioni datate, ma in ipotesi scritte in cifra. A scrivere sarebbe un pluriomicida (ha avvelenato due persone, uno zio e il signor Erben, con un tossico di cui si è sforzato di saper poco, la curarina, per evitare impatti sulla propria immaginazione), convinto che la coscienza esiste solo se ci si crede: ha fatto sparire le tracce, ma anche – vorrebbe – il senso di colpa… Alla data successiva, tre giorni dopo, ammette però di aver sognato i due morti dietro di sé e cerca di rimuoverli; alla data ancora successiva, sono otto notti che li sogna. Medita di andare a teatro, ma è in scena il Macbeth, non proprio la storia migliore in quel contesto… un paio di giorni più tardi mostra di valorizzare al contrario il consiglio di Paracelso: per sognare regolarmente, occorre scrivere un paio di volte i sogni. Dunque non lo farà più. Risolto quel problema, circa una settimana dopo viene spinto da un rumore a guardarsi indietro – da tempo ha la sensazione che qualcuno lo segua dal lato sinistro – e vede una delle sue vittime, certamente un precipitato dei sogni fatti e delle relative emozioni; ma un’altra settimana dopo le vede entrambe. E una decina di giorni dopo (1 novembre, la data pare significativa), avendo continuato a vedere il fantasma di Erben, prende ad arrovellarsi: le figure sono scissioni del suo Io – ma sarebbe orribile pensare di nutrirle con la propria vita – o esseri autonomi, autentici? E la stessa scrittura segreta a cui sta ricorrendo sembra dettargli i contenuti, per cui decide di ricopiare il manoscritto in chiaro…

Passano dieci giorni ed eccolo annotare: “Sono esseri reali. Mi hanno raccontato in sogno la loro agonia” e lo vogliono strangolare. Di più: ha controllato, i sintomi della curarina sono proprio quelli del sogno. “Dio mio, se mi avessi detto che si continua a vivere dopo la morte non avrei ucciso”. Due giorni dopo conclude di essere malato. Intende parlare col medico, e poi impedire che vada a raccontare qualcosa. Ma il giorno dopo il diario reca solo la data e puntini, a far sospettare una drastica interruzione dell’ossessione…

Di carattere completamente diverso, e la varietà è interessante anche se torniamo al Meyrink polemista nel segno del grottesco, G.M. (G. M., Orchideen, 1904) richiama le iniziali con cui l’avventuriero americano George Mackintosh, inventore di una macchina per fiutare rabdomanticamente (si dice) la presenza dell’oro, ritiene sufficiente farsi conoscere a Praga: arricchitosi in modo misterioso, acquista case nel centro città per farle abbattere in cerca d’oro. Ma gli antichi palazzi sono stati spianati, l’oro non si trova e appare sui giornali un messaggio dell’impagabile straniero: è costretto ad andarsene ma dona alla città un pallone aerostatico e il suo biglietto da visita. Si scopre che ha venduto segretamente tutte le aree edificabili, e compare nella vetrina di un fotografo la foto di Praga dall’alto, dove le aree degli edifici abbattuti formano megalomaniacalmente le iniziali del suo nome G M… Il racconto può richiamare quegli sventramenti immobiliari della città vecchia che avranno un rilevante peso ne Il Golem, ma a ben vedere la proiezione delle lettere sulla terra è speculare a quella pre-cinematografica dell’uomo-camaleonte di Il dottor Lederer.

(1-continua)

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