La prima cosa da chiarire, quando si parla di impatti delle attività militari, è che ci muoviamo nell’ambito del probabile. Non esiste una rendicontazione certa, strutturata e puntuale. Nessuna istituzione nazionale, internazionale o globale l’ha mai chiesta. In Italia dati sono talmente nebulosi che, all’interno di questo approfondimento, ci muoviamo a tentoni attraverso ipotesi articolate che sommano, sottraggono, moltiplicano o dividono, a partire dalle poche informazioni a nostra disposizione. L’aura di mistero che circonda le più di 120 basi militari segrete disseminate lungo lo Stivale, si estende anche a quello che deriva dalla loro esistenza, come si estende ai traffici internazionali che portano il nostro paese a vendere a paesi impegnati in un genocidio.
Alcune cose, però, le sappiamo per certo. Sappiamo che migliaia di persone, in Sardegna, hanno pagato con la vita la subalternità del nostro paese alle disposizioni NATO. Sappiamo anche che il settore della Difesa ha un gruppo di lavoro impegnato per la transizione, ma gli unici documenti reperibili, come vedremo, non sembrano testimoniare una presa di coscienza dell’entità del danno.
In questo approfondimento proveremo, con i pochi strumenti a nostra disposizione, a costruire un quadro: qual è l’impatto climatico del settore militare e dell’apparato industriale a esso connesso? Quanto inquiniamo e quanti fondi pubblici destiniamo alla produzione di questo inquinamento? Cosa stiamo facendo, al di là dei proclami, per ridurre la nostra impronta carbonica?
Le emissioni dichiarate
Il National Inventory Report del 2020 della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti (Unfcc), per il settore militare nazionale, contiene solo il dato sulle emissioni mobili. Nel 2018, anno di riferimento del documento, le emissioni legate all’utilizzo di combustibili da trasporto erano 341 chilotoni. Il chilotone è un’unità di misura per calcolare l’intensità di esplosioni: equivale alla forza meccanica generata dall’esplosione di 1.000 tonnellate di tritolo.
Non abbiamo dati sulle emissioni fisse, quelle cioè generate dalla numerose basi militari distribuite sul nostro territorio [1, 2, 3]. Ipotizzando che i numeri siano analoghi a quelli delle emissioni mobili, cioè a un intermedio a quello di Francia e Germania, l’Osservatorio su Conflitti e Ambiente (Ceobs) ne ha elaborato una stima. Il calcolo è stato elaborato a partire dalla somma delle emissioni dirette di siti militari o attrezzature (Scope 1) e di quelle che si verificano altrove, ma dipendono dall’elettricità e dal calore utilizzati (Scope 2) del settore. A questo dato, sono state aggiunte le Scope 3 nazionali, le emissioni cioè legate alla catena di fornitura nel Paese. Secondo questa ipotesi, le basi militari in Italia sono responsabili dell’emissione di 1,8 milioni di tonnellate di gas CO2 equivalenti.
Mancano anche i dati sull’impronta carbonica legata al consumo di energia degli apparati militari. Anche qui è possibile azzardare ipotesi, tutte al ribasso. Se consideriamo il ciclo di vita medio di un esercito in Europa, l’impronta carbonica di quello italiano dovrebbe essere di più di due milioni di tonnellate di CO2e. Questi calcoli, è bene ribadirlo, si basano sul presupposto che la quantità di emissioni fisse e mobili si equivalgano: sono solo indicativi.
Le emissioni delle industrie militari
Anche per quanto riguarda le emissioni legati alle industrie militari non abbiamo informazioni complete. Sappiamo la quantità emissioni generate dalle quattro principali aziende che operano in Italia: Leonardo (183.3 chiloton di CO2e); Fincantieri (20.1); la francese Thales (3.5) e la statunitense Northrop Grumman (0.9). A partire da questi numeri, combinati con la percentuale di vendita del settore e del numero di dipendenti per impresa, si può ipotizzare che l’intera industria produca 208 chiloton di emissioni. In media 7,9 tonnellate per dipendente. Anche qui, tuttavia, stiamo considerando unicamente le Scope 1 e 2.
Dati alla mano, l’impresa con la maggiore impronta carbonica è Leonardo. La stima approssimativa dell’impronta carbonica dell’intero settore si aggira intorno ai 2,6 milioni di tonnellate di CO2e, calcolati incrociando diverse informazioni. Moltiplicando la media ponderata di emissioni per singolo dipendente (7,9 tonnellate) per il numero complessivo di dipendenti (circa 62.000), si può ipotizzare che le emissioni totali si aggirino intorno alle 492mila tonnellate, con un’impronta carbonica per dipendente pari a 42,7 tonnellate.
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Chi fa cosa
Il Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima
Il Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima, il documento cioè che delinea la strategia di decarbonizzazione di ogni settore, non menziona le attività militari. Esiste un Piano per la Strategia Energetica della Difesa che prevede alcuni interventi di risparmio e riduzione per edifici e sistemi, ma il focus del documento è la garanzia della sicurezza energetica per il paese, non la tutela dell’ambiente. L’Area Energia e Ambiente della task force “Valorizzazione Immobili, Energia e Ambiente” è deputata ad applicare la Strategia. L’obiettivo è operare “per il raggiungimento dei livelli più elevati di resilienza e per una maggiore continuità dei flussi energetici all’interno del sistema Difesa”.
Dell’attività di questi anni, troviamo un solo documento di indirizzo, le linee guida per il controllo del consumo elettrico, menzionate ma non reperibili sul sito del ministero. Nella sezione progetti del sito, la sola iniziativa documentata è il progetto di efficientamento energetico di un complesso di strutture mentre, per quanto riguarda gli accordi e le collaborazioni, c’è un protocollo quinquennale con l’Università degli Studi di Genova per lo sviluppo di tecnologie utili alla transizione energetica.
Focus 1
Le spese militari
L’Italia è tra i primi 15 paesi al mondo per spese militari. Basandoci sui dati primari forniti dalla NATO, sappiamo gli investimenti sono cresciuti del 17% tra il 2014 e il 2020, mentre la sola guerra in Ucraina ha fatto schizzare la percentuale al 31%. Nel 2018 il nostro paese investiva nella difesa 21,7 miliardi, l’1,23% del PIL. Per il 2019 (21 miliardi) e il 2020 (22,8 miliardi), ancora una volta, ci affidiamo ad approssimazioni.
Il 25% di queste cifre è impiegato per le attrezzature utilizzate dalla Marina (portaerei, cacciatorpediniere, fregate e sottomarini), dall’Aeronautica (aerei da caccia o per attacco al suolo, mezzi da trasporto da trasporto medio o pesante e aerocisterne) e dall’esercito (carri armati, veicoli da combattimento, artiglieria, elicotteri da trasporto, blindati). Oltre che per le 40 testate nucleari statunitensi conservate nel nostro paese in base agli accordi Nato.
Focus 2
Gli impatti ambientali delle attività militari in Sardegna
Il 65% del demanio afferente alla difesa nazionale italiana si trova in Sardegna. L’isola ospita due grandi poligoni: il Poligono sperimentale e di addestramento di Salto di Quirra, nel Perdasdefogu, in provincia di Nuoro, e il poligono di Capo Teulada. Qui è stato sparato l’80% del munizionamento italiano: lo sappiamo dal resoconto prodotto dalla Commissione di inchiesta parlamentare che si è occupata di malattie connesse all’utilizzo di uranio impoverito.
Il poligono di Salto di Quirra è un’area interdetta di tredicimila ettari, con altri duemila ettari verso Capo San Lorenzo e una estensione in mare. L’area è vasta quasi quanto Parigi: più di 120 chilometri quadrati. Qui, dalla “zona torri”, un’altura di 600 metri, si giocava a far la guerra facendo esplodere gli ordigni NATO obsoleti della Seconda Guerra Mondiale. L’area è ambientalmente distrutta. Sterile. Per anni vi sono state testate armi, ancora si vedono gli effetti sulla salute della popolazione. La zona, infatti, ha una malattia tutta sua. La Sindrome di Quirra colpisce la popolazione animale con malformazioni e quella umana con un aumento catastrofico del numero di tumori.
A Teulada, la situazione non è migliore. Per 65 anni navi, aerei ed elicotteri militari hanno bombardato ininterrottamente l’area che, già dal 1970, sappiamo essere imbonificabile. Secondo l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), ci sono almeno 13 misurazioni di arsenico e piombo fuori norma, e da qualche parte nell’area interdetta riposano almeno 235 ordigni inesplosi.
A gennaio 2011 la procura di Lanusei ha aperto un’inchiesta sulla sindrome di Quirra. Dopo un mese erano già venute fuori discariche illegali di materiali bellici, in terra e in mare: almeno 100 metri di fondale, a partire da Capo San Lorenzo, conservavano un numero impressionante di residui di guerra. A marzo 2012 i dati riportati da uno studio con il CERN sulla diffusione di malattie portano a indagare 20 persone per omicidio plurimo e omissione di atti d’ufficio per non aver effettuato controlli sanitari. I primi 12 saranno assolti senza processo nel 2016. Gli altri otto nel 2021 perché, secondo la giudice monocratica del tribunale di Lanusei, Nicole Serra, «Non c’è idonea prova che abbiano commesso il fatto contestato».
*In copertina foto della base militare di Marina di Pisa.