di Gioacchino Toni
Adrian Hon, La società della ricompensa. Perché la gamification ci fa giocare di più ma divertire di meno, traduzione di Paolo Bassotti, Luiss University Press, Roma 2024, pp. 320, € 23,00 edizione cartacea, € 12,99 ebook
Uscito con il titolo You’ve Been Played: How Corporations, Governments, and Schools Use Games to Control Us All (Basic Books, 2022), il volume, dal taglio divulgativo, è stato scritto da un autore che conosce bene l’universo dei videogame e delle loro applicazioni extra-ludiche. Adrian Hon è programmatore di videogiochi, co-creatore di Zombies Run! – uno dei più popolari mobile fitness game – e co-fondatore della celebre casa di produzione indipendente di videogame Six to Start.
Nonostante il termine gamification si sia diffuso soltanto in avvio del nuovo millennio, del ricorso a logiche di gioco per scopi non ludici si può parlare anche a proposito di pratiche in uso ben da prima dell’avvento del digitale e di internet. Indubbiamente le nuove tecnologie hanno incrementato il grado di pervasività e di incidenza della gamification1 ed è passando in rassegna i fattori tecnologici e sociali che hanno portato a tutto ciò che si apre il libro di Hon.
Lo sguardo utopico con cui si guardava ai giochi come se questi potessero “salvare il mondo” proprio dei decenni a cavallo tra il cambio di millennio – onda lunga di quel tecno-ottimismo che aveva contraddistinto la nascita di internet e l’arrivo del digitale –, può dirsi scemato a metà degli anni Dieci quando, invece, si è diffusa una sorta di disillusione circa il mondo della rete. In realtà scrive Hon, «l’aura carismatica che avvolgeva i vecchi ideali utopistici non è morta, ma si è spostata su quel tipo di gamification della vita e del lavoro oggi tanto in voga, conferendole una legittimità morale che cela i suoi aspetti più manipolatori» (p. 33).
Nonostante ad avere la meglio sia stata una gamification conservatrice, utilizzata per aumentare la produttività e lo sfruttamento, Hon si guarda bene dal demonizzazione il ricorso a logiche di gioco per scopi extra-ludicinon, non mancando di sottolineare come la gamification sia effettivamente dotata di un grande potenziale educativo e scientifico.
L’autore si sofferma dunque sull’aura che brilla sulla gamification del consumatore e della sua vita: come un mantra viene ripetuto che tutto ciò che ci appare noioso o difficile può diventare divertente e facile; se una cosa è in qualche modo misurabile, allora può essere gamificata e migliorata. In questo storytelling si evita di specificare in cosa consista il miglioramento (produttività?) e chi , comunque, ne tragga “reale beneficio”. Detto che è bene mantenere un certo scetticismo circa i risultati sbandierati dalle app di gamification, Hon sottolinea come molte di quelle dedicate al fitness facciano proprie le derive competitive dell’attuale società.
Lo storico Jürgen Martschukat2 ha messo in luce come la nascita del fitness negli Stati Uniti coincida con l’ascesa del neoliberismo, quando l’esaltazione del mercato e della responsabilità individuale si sono fuse con l’individualismo e l’autorealizzazione delle controculture: da allora la propensione degli individui ad ottimizzarsi è stata assorbita e sfruttata dalle aziende in termini di incentivazione al consumo e all’autosfruttamento. Se di per sé la gamification dell’automiglioramento non per forza di cose è negativa, in un contesto come l’attuale non è difficile immaginare come si sia trasformata in dipendenza consumista.
È sul lavoro che la gamification porta la logica del miglioramento alle estreme conseguenze; esempi eclatanti di ciò si possono individuare non solo nei settori del trasporto di merci e persone (autotrasportatori e tassisti), ma anche degli addetti ai magazzini, dei call center e dei programmatori. In realtà, sostiene Hon, le promesse della gamification di rendere il lavoro più divertente e produttivo risultano spesso tradite: se inizialmente l’attività gamificata può sembrare meno alienante, ciò è dovuto soprattutto ad un “effetto novità” di breve durata, mentre del fatto che renda davvero più produttivi, sempre sul lungo periodo, spesso mancano prove scientifiche. Piuttosto che rendere il lavoro più divertente e produttivo, la gamification «fa in modo che i lavoratori che non riescono a centrare obiettivi sempre più difficili se ne assumano tutte le colpe, a vantaggio del datore di lavoro» (p. 11).
Ai lavoratori vengono assegnati punteggi in base alle loro condotte ed alle loro performance. Molte delle cose richieste non sono obbligatorie, certo, ma se non le si compiono scattano punteggi di penalità che portano a stipendi sempre più magri. Emblematico il caso Uber; se non si conseguono i risultati auspicati la “colpa” ricadrà sul lavoratore che non ha saputo sfruttare le opportunità che pure gli erano state offerte mentre altri colleghi hanno saputo approfittarne. La gamification si palesa dunque come «un modo accattivante e amichevole per pagare meno chi lavora» (pp. 64-65).
Come detto, la gamification si basa sulla misurabilità, dunque sui dati. Se all’inizio del Novecento, con il taylorismo, si ricorreva al cronometro per le misurazioni per ridurre il costo del lavoro, la variante digitale contemporanea vanta molti più strumenti di misurazione e, soprattutto, la sua estetica amichevole tenta di trasformare «le punizioni del taylorismo in un’avventura virtuale anche quando mette i lavoratori l’uno contro l’altro» (p. 76).
Non è infrequente che le misurazioni, siano esse applicate al lavoro o, ad esempio, un’attività di cura della persona, effettuate anche attraverso dispositivi molto sofisticati, tradiscano le finalità dichiarate. Hon riporta l’esempio degli autotrasportatori statunitensi tenuti, per ridurre i rischi di incidenti stradali, a sostituire i vecchi registri cartacei (facilmente falsificabili) attestanti il rispetto delle norme governative circa le ore di servizio, con dispositivi ELD (Electronic Logging Devices). Introdotti con l’obiettivo di “rendere le strade più sicure”, i sistemi di monitoraggio ELD da questo punto di vista non sembrano aver ottenuto grandi risultati. L’idea di focalizzarsi sul conteggio delle ore di guida anziché guardare alle tante cause che determinano l’elevato numero di incidenti, somiglia molto, sostiene Hon, all’ossessione degli individui per il rispetto del numero di passi quotidiani suggeriti dalle app di fitness anziché guardare alla salute o al focalizzarsi sui dati che quantificano la performance nei giochi di allenamento per il cervello anziché ambire ad una vita intellettuale più ricca.
L’ossessione per per le cifre (ore di guida, numero di passi giornaliero, performance di brain training…) tende a far passere in secondo piano quelli che dovrebbero essere i veri obiettivi (scongiurare gli incidenti, la salute, la crescita intellettuale…) e rende più vulnerabili alla gamification. Insomma, secondo l’autore, la logica del game applicata ad attività extra-ludiche, con la sua ossessione per la misurabilità e la quantificazione, in diversi casi è destinata a “perdere per strada” le buone intenzioni di partenza.
L’idea che un’attività lavorativa debba essere divertente, come sostengono le imprese che introducono sistemi di gamification, è messa in discussione dall’autore del volume che, a tal proposito, riprende le efficaci parole di David Graeber: «È crudele costringere i lavoratori alla grottesca messa in scena di un gioco. Un lavoro sensato e pagato il giusto si ricompensa da solo. Se ciò viene a mancare, gamificare il lavoro equivale a gettare acido su una ferita infetta»3.
Non condannando aprioristicamente il ricorso a pratiche proprie del gioco ad attività extra-ludiche, Hon riporta anche alcuni esempi di gamification non affidata ai consueti sistemi di punteggio e badge. Nel volume viene dato spazio anche a come la gamification tocchi l’universo dei videogiochi con lo scopo di massimizzare l’engagement ed il profitto. Venendo invece ad aspetti che hanno a che fare più direttamente con la sfera politica, l’autore evidenzia come, nonostante i media si siano più volte occupati dei sistemi di credito sociale gamificato cinesi, quasi mai hanno trattato casi occidentali non meno inquietanti. «Negli USA e in Gran Bretagna la gamification è endemica nelle campagne elettorali, nei wargame, nella propaganda, nelle scuole e nelle università» (p. 12).
Hon ricorda che la gamification non solo preceda l’universo digitale, ma si sia estesa già in passato ben oltre il capitalismo, come testimonia la proposta di Lenin, nel lontano 1917, di una “Competizione socialista” per motivare le fattorie ad incrementare la produzione attraverso un sistema di punti, livelli e medaglie4. Se la gamification applicata all’ambito lavorativo viene utilizzata per ridurre gli stipendi e controllare i lavoratori, sul piano politico questa viene finalizzata dai governi a rendere maggiormente virtuose le condotte dei cittadini. Foucault le definirebbe “estensioni dello stato carcerario”5. A ben guardare si tratta soprattutto di virtù volte al mantenimento dello status quo. «La gamification attuata dai governi è una tecnica fondamentalmente conservatrice, usata per mantenere in vigore rapporti e sistemi già esistenti e non per trasformarli» (p. 134).
Tra gli esempi di gamification attuati dai governi occidentali, Hon si sofferma in particolare sulle più che discutibili modalità con cui viene assegnato il punteggio nella graduatoria per l’assegnazione delle abitazioni ai senza tetto di Okland in California6, sul sistema di crediti FICO introdotto nel 1989 per valutare l’affidabilità finanziaria degli individui a cui ricorrono banche e società di carte di credito e su altri sistemi di assegnazione di punteggi a cui guardano le assicurazioni sanitarie ecc.7.
Sebbene, al momento, i punteggi di credito sociale e finanziario si trovino al confine della gamification, sopratutto per lo scarto temporale ancora esistente tra l’analisi dei dati e la decisione, presto, grazie l’aumento dei dati raccolti online e offline ed alla loro elaborazione in tempo reale, vi potrebbero rientrare a tutti gli effetti trasformando la partecipazione (obbligatoria) al sistema dei crediti sociali in una grottesca parvenza di avventura fantasy.
Il ricorso alla gamification ha investito l’ambito militare e non solo nelle operazioni di training ma anche nella conduzione dei conflitti8, così come l’ambito dell’istruzione che, da tempi lontani, procede assegnando punti, ricompense, e diversi altri elementi tratti dall’universo ludico. All’indignazione occidentale suscitata dal diffondersi nel 2018 della notizia del ricorso al riconoscimento facciale adottato dalle scuole cinesi, non è certamente corrisposta analoga attenzione nei confronti di equivalenti statunitensi ed europei9.
Tra gli esempi occidentali, persino precedenti al monitoraggio cinese, l’autore riporta il caso di ClassDojo, una app di gamification che aiuta gli insegnanti a tracciare gli studenti per meglio gestirli. Si tratti di una app, lanciata nel 2011 ed utilizzata dal 95% delle scuole K-8 degli USA (primi otto anni di insegnamento) e sperimentata da 180 diversi Paesi, basata sull’assegnazione di punteggi da parte degli insegnanti alle condotte degli alunni (gentilezza, adattamento al lavoro di squadra, rispetto delle consegne, frequenza delle uscite per andare in bagno durante le lezioni ecc.). Sebbene sia pubblicizzato come strumento propedeutico ad una “mentalità orientata alla crescita”, diversi studi contestano la reale utilità del growth mindset. Insomma, quello proposto dalla app ha tutta l’aria di essere “semplicemente” un vero e proprio sistema di disciplinamento gamificato e se tra i docenti gode di una certa fortuna, ciò potrebbe derivare soprattutto dalle difficoltà che questi incontrano nel gestire le classi, difficoltà che di certo diminuirebbero anche semplicemente diminuendo drasticamente il numero di allievi per classe e ciò renderebbe possibile non solo una migliore gestione comportamentale degli alunni ma anche un rapporto didattico più personalizzato, dunque proficuo.
Un capitolo del volume è dedicato alle similitudini che Hon ravvisa tra le moderne teorie del complotto (QAnon su tutte) e gli ARG (Alternate reality game), complessi giochi di realtà alternativa che collegano l’universo online al mondo reale che propongono storie misteriose da risolvere con indizi da ricercare nel mondo reale. Le similitudini individuate dall’autore riguardano soprattutto il comune rendere labile il confine tra mondo online e mondo offline.
All’affievolirsi della distinzione tra online ed offline corrisponde una progressiva dissoluzione della distinzione tra essere umano ed avatar digitale con il rischio che si guardi agli esseri umani reali come se si trattasse di personaggi di un videogioco (si pensi ai tanti fenomeni di odio che infestano la rete estendendosi anche nel mondo fuori dagli schermi e alle guerre condotte alla consolle ove i nemici da eliminare sono sempre più vissuti come incorporee figure sui monitor10.
Lo sviluppo sempre più raffinato della Realtà aumentata permetterà la gamification di ogni momento della vita degli individui e la realtà virtuale, secondo l’autore, potrebbe allontanare dal mondo del lavoro in presenza un’intera generazione allenata sin da piccola ai dispositivi digitali, come prospetta il progetto Metaverso di Mark Zuckerberg11.
Di sicuro l’AR renderà il controllo dei lavoratori ancora più completo: il tracciamento dello sguardo e la “visione artificiale” (computer vision) di fatto assegneranno a ogni lavoratore un Frederick Taylor virtuale. Automotivazione e robotica salveranno i lavoratori da questo guinzaglio così stretto? Forse, ma l’esperienza ci dice che i robot nei magazzini in generale aumenteranno la pressione sugli esseri umani. Ci vorrà del tempo prima che i robot possano sostituire del tutto la velocità, l’intelligenza e la versatilità degli esseri umani nel lavoro in magazzino e, fino ad allora, i lavoratori controllati con l’AR diventeranno manichini viventi usati per sopperire ai limiti delle macchine (p. 220).
Hon sottolinea come il sistema comportamentista alla base della gamification coercitiva sia debitore del sistema carcerario studiato da Foucault12, ove si ricorre a ricompense e punizioni per ottenere i comportamenti desiderati. Lo studioso mette in evidenza come anche la pratica della vendita delle indulgenze, cioè di «un sistema di punteggio ineluttabile, unitario e spendibile, che governava le vite dell’intera comunità cattolica, determinandone il comportamento» (p. 223), rimandi alla gamification.
Nell’Europa Occidentale del Quattordicesimo secolo questo sistema a punti per misurare le buone e cattive azioni era una novità. Si ritiene che il passaggio a una quantificazione formale della penitenza rifletta il passaggio da una visione aristotelica, che riteneva le qualità impossibili da determinare con precisione, a un sistema di misurazione non dissimile al coevo processo di monetizzazione. In modo simile, la gamification deriva dalla iper-quantificazione del valore di una persona, dovuta a una concezione quantificata del sé e alla nostra ossessione per i dati (pp. 224-225).
Certo, evidenzia Hon, esistono differenze importanti tra indulgenze e gamification; se con quest’ultima tutto è registrato, con le prime si lasciava che Dio ne tenesse conto, dunque non era possibile “vincere”, «ma va detto che anche la gamification sembra spesso infinita, con i tabelloni e le sfide che ogni giorno si azzerano» (p. 228). Le indulgenze, inoltre, non possono essere dette comportamentiste visto che richiedevano preghiere sincere per contare e, inoltre, non potevano essere divertenti né erano granché interattive, a differenza della gamification. Ad assomigliare invece molto ad un gioco erano i “pellegrinaggi virtuali”.
In chiusura del libro Hon scrive che come game designer ed ex neuroscienziato aveva sognato il diffondersi di una gamification divertente e capace di aiutare i principianti a padroneggiare nuove abilità, si trova a constatare con amarezza che a diffondersi è stata piuttosto una gamification coercitiva e manipolatrice, votata a far accettare di buon grado la sorveglianza e l’imposizione di un preciso sistema di valori ed obiettivi, sostanzialmente coincidente con quello delle aziende e dei governi autoritari. Se le tecniche comportamentiste di carattere conservatore a cui ricorre la gamification non nascono certo con la rivoluzione digitale, indubbiamente «la combinazione di tecnologia per la sorveglianza e intrattenimento ha reso la gamification seducente e inevitabile» (p. 232).
La gamification egemone, dichiara esplicitamente l’autore, serve esclusivamente al mantenimento dello status quo. «Fa in modo che i lavoratori restino al loro posto, arricchendo ulteriormente chi già dispone di grossi capitali. Ci spinge a studiare, allenarci o giocare per raggiungere scopi che non ci interessando davvero. E ribadisce l’idea che il mondo sia un gioco, le cui regole vanno eseguite e non cambiate. Perfino la gamification utopistica è significativamente conservatrice» (p. 244).
Se la gamification più deteriore non può che prosperare in un contesto in cui gli individui sono messi l’uno contro l’altro e tenuti a provare il loro valore tramite la produttività, come detto, Hon resta convinto che di per sé la gamification non sia destinata allo sfruttamento e alla coercizione, dunque prospetta alcuni esempi di come la si potrebbe progettare in modo etico, rispettoso degli utenti e di come sia comunque possibile per le istituzioni regolamentarla.
In chiusura di volume, l’autore riprendendo il convincimento espresso dalla scrittrice di fantascienza Ursula K. Le Guin (Dispossessed: an ambiguos utopia, 1974): «non vogliamo che gli studenti si diano da fare per ottenere buoni voti e un buon lavoro, ma per l’amore intrinseco dell’apprendimento». Insomma, «Le persone non devono guidare con prudenza o fare volontariato solo per guadagnare punti da scambiare con un mutuo migliore: devono credere davvero che tali attività siano giuste ed etiche. La gamification coercitiva, che utilizza solo la forza e la sorveglianza, può portare solo all’obbedienza non a una vera comprensione» (p. 245). E se proprio la vita deve essere un gioco, conclude l’autore, «che non sia monotono o punitivo, ma pieno di gioia e cose da imparare» (p. 246).
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Cfr. Gioacchino Toni, Gamification e controllo comportamentale, in “Pulp”, 22 febbraio 2023. ↩
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Cfr. Jürgen Martschukat, The Age of Fitness: How the Body Came to Symbolize Success and Achievement, Polity, Cambridge 2021. ↩
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David Graeber, Bullshit Jobs, tr. it. di Albertine Cerruti, Garzanti, Milano 2018. ↩
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Cfr. Mark J. Nelson, Soviet and American precursors to the gamification of work, “MindTrek”, october 2012, pp. 23-26. ↩
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Cfr. Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita delal prigione, tr. it. di Alcesti Tarchetti, Einaudi, Torino 1976. ↩
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Cfr il podcast di Katie Mingle, Accordin to Need, 2020. ↩
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Nonostante i sistemi di credito non siano direttamente gestiti dal governo statunitense, questi condizionano enormemente l’accesso all’affitto di un’abitazione o a diversi tipi di occupazione. ↩
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Cfr.: Gioacchino Toni, Guerra contemporanea, sviluppo tecnologico-comunicativo e immaginario visuale, in “Clionet”, 31 marzo 2023; più in generale si veda la Serie di scritti di Gioacchino Toni, Guerrevisioni, su “Carmilla online”. ↩
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Cfr., ad esempio, Angélique del Rey, La tirannia della valutazione, Elèuthera, Milano, 2018. ↩
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Cfr. Gioacchino Toni, Guerrevisioni. Il sangue oltre gli schermi. Uccidere così, come in un videogioco, in “Carmilla online”, 22 Aprile 2021. ↩
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Cfr., ad esempio: Eugenio Mazzarella, Contro Metaverso. Salvare la presenza, Mimesis, Milano-Udine 2022; Adriano Pessina, L’essere altrove. L’esperienza umana nell’epoca dell’intelligenza artificiale, Mimesis, Milano-Udine, 2023. ↩
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Cfr. Michel Foucault, Sorvegliare e punire., cit. ↩