Il profeta americano dell’illusione e il talento necessario per sopravvivere agli anni Sessanta

di Sandro Moiso

Robert Stone, Una sala di specchi, traduzione di Dante Impieri, Edizioni minimum fax, Roma 2024, pp. 550, 20 euro

Un critico letterario americano ha definito Robert Stone (1937-2015) “il profeta americano dell’illusione”, una definizione che, pur essendo adatta anche a numerosi altri scrittori statunitensi, sicuramente calza a pennello per l’autore originario di Brooklyn. Cosa che il romanzo appena pubblicato da minimum fax, che dello stesso autore aveva già pubblicato in precedenza Dog Soldiers (qui), conferma senza alcun dubbio.

Con una differenza rispetto al precedente, però, poiché mentre Dog Soldiers era stato pubblicato originariamente nel 1974, in pieno svolgimento della sconfitta americana in Vietnam e nel corso del disfacimento politico e sociale che ne era conseguito, il presente (titolo originale Hall of Mirrors) era stato pubblicato otto anni prima, all’alba di quella che sarebbe diventata l’estate dell’amore del 1967, del rinascimento psichedelico della California e di San Francisco e in pieno movimento per i diritti civili degli afro-americani (e non solo).

A Hall of Mirrors. il suo primo libro gli valse sia la Houghton Mifflin Literary Fellowship che il William Faulkner Foundation Award per il miglior romanzo d’esordio. Come afferma Assunta Martinese nel breve profilo bio-bibliografico anteposto all’edizione attuale:

Nel romanzo era già presente la struttura che caratterizzerà le migliori opere di Stone: l’intrecciarsi delle linee narrative di più protagonisti, in cerca di un brandello di significato a cui non sembrano giungere mai e sballottati da eventi sui quali sembrano non avere alcun controllo mentre la narrazione si muove inesorabilmente verso un epilogo apocalittico. Ambientato nel 1960 a New Orleans e ispirato in parte a eventi realmente accaduti, il romanzo descrive «il lato oscuro dell’America, che negli anni Sessanta emerse in modo esplosivo». Nonostante offra uno spaccato vividissimo dell’epoca – la scena politica dominata dal razzismo bianco, gli albori della controcultura, il movimento per i diritti civili – lo stile si discosta in modo evidente da quello dei primi esponenti del realismo sociale, avvicinandosi di più – con la sua alternanza di naturalismo e flusso di coscienza – a quello dei Beat1.

Dal romanzo fu tratto un film di Stuart Rosenberg – Un uomo oggi, con Paul Newman nel ruolo del protagonista – di cui Stone curò la sceneggiatura, rimanendo però profondamente deluso dal risultato finale, come sarebbe poi ancora successo con la trasposizione cinematografica di Dog Soldiers. Anche se, grazie al successo del romanzo, Stone ottenne la Guggenheim Fellowship, che diede inizio alla sua carriera di scrittore professionista.

La vicenda vede al suo centro due figure, egualmente disperate e reiette: l’alcolista Rheinhardt, clarinettista e un tempo, forse, buon esecutore di alcune delle opere più difficili di Mozart, e Geraldine, una giovane, forse giovanissima, ragazza fuggita da Galveston in Texas per finire, prima, a Saint Louis, nel Missouri, e successivamente a New Orleans. Sempre a caccia di un sogno che non la porterà ad altro che a lavorare nei bordelli o sulle strade, nelle mani di protettori sempre violenti e di poliziotti sempre corrotti. In una città che più che vocare lo splendore del passato coloniale e schiavistico, ne evoca soltanto il marciume e la miseria, economica e morale, mentre a dominare il paesaggio non sono il Mississippi o i locali noti fin dalle origini del jazz, ma le fabbriche chimiche e le paludi inquinate dalle stesse. Così, anche se su Congo Square non si vendono o acquistano più gli schiavi di origine africana, le onde radio continuano a portare nelle case un razzismo ugualmente feroce e condito di anticomunismo viscerale.

Le speranze di Geraldine sono accompagnati dalle canzoni di Faron Young e Hank Williams, dai dischi dei juke-box e dal ritmo di “Walk Don’t Run” dei Ventures; quelle di Rheinhardt dal sogno di diventare, o averlo potuto fare in passato, il migliore esecutore di Mozart. In particolare del quintetto in La maggiore per archi e clarinetti, comunemente noto come “Quintetto Stadler”. Musiche diverse per la colonna sonora di un medesimo e disgraziato film.

Una narrazione sempre sospesa tra dramma e ironia, talvolta feroce, che vede coinvolti anche altri comprimari, sia per brevi apparizioni che per ruoli più complessi e compositi. Marinai assatanati di sesso e di alcol per Geraldine oppure predicatori/truffatori come il Fratello Jensen, che Rheinardt aveva conosciuto in passato come marinaio Farley, originario della Nova Scotia e fondatore e pastore della Chiesa della visione del Potere dell’Amore. Un intreccio di storie ed esperienze, ora drammatiche ed ora esilaranti, che danno vita ad un incredible e policromatico arazzo da cui è quasi impossibile distogliere l’attenzione, anche se tutto sembra, fin dall’inizio, irrimediabilmente destinato a precipitare nel baratro.

Un mondo di derelitti e di sconfitti che, nonostante i sorrisi che lo scrittore riesce spesso abilmente a strappare al lettore, non si trasforma mai in “epica” dell’alcol, delle sbronze e dei perdigiorno affamati di sesso, come invece, troppo spesso, accade nella produzione letteraria di Charles Bukowski, contemporaneo di Stone, ma fatto di tutt’altra pasta.

Il sogno americano, grande o piccolo che sia, non porta a nulla se non alla morte, anche se si presenta tappezzato di richieste di nuovi talenti: talento per vendere il proprio corpo per pochi dollari per una ragazza come Geraldine oppure per prestarsi ad opera di imbonimento politico-religioso radiofonico nei confronti di altri poveri disgraziati, come lui, per Rheinhardt.

All’angolo tra Rampart e Canal Street c’era un negozio che vendeva oggettini splendenti. In una delle vetrine c’era una fila di telescopi d’acciaio, illuminati da una luce bianca; c’erano binocoli, radioline, treppiedi, shaker di metallo e medagliette cattoliche. Nella seconda vetrina, stesi su un velluto nero, c’erano revolver, coltelli a scatto e rasoi. […] La poesia stava tutta nei rasoi. I rasoi erano disposti a cerchi concentrici, o meglio, a forma di spirale, secondo la qualità della fattura. Quelli all’esterno erano modesti quanto i coltelli tedeschi; un uomo avrebbe potuto tranquillamente usarli per radersi. Quelli nel cerchio successivo erano più piccoli ma molto più graziosi; le lame erano affilatissime e limpide come specchi, e alcuni avevano manici pastello o a strisce o di plastica multicolore. Quelli nei cerchi più interni erano molto più festosi, ricchi di decorazioni colorate in plastica brillante: alcuni avevano la presa in legno, per quando ti sudavano i palmi; le lame avevano un luccichio particolare e parevano incredibilmente precise.
Al cuore di tanta ricchezza, esposto poco sopra gli altri e adagiato su una lussuosa pelle scamosciata, c’era un rasoio di circa trenta centimetri: il più maestoso, l’imperatore e campione dei rasoi. Non solo aveva il manico di madreperla viola, ornato da otto gemme di pietra dura, ma vi era stampata sopra l’immagine di una bionda dal seno sublime, che indossava solo una giarrettiera rossa, i cui tratti somatici mostravano, a un più attento esame, un’espressione di lascivo abbandono dedicato unicamente al suo possessore. La lama era come una musica: sembrava forgiata da una rara lega di metallo simile al ghiaccio, segretamente, di notte. […] Rheinhardt restò a guardarlo per molto tempo; dietro gli occhi gli scorreva una sinfonia che non riusciva a distinguere, antichi accordi suonati da corde perdute. Che rasoio è quello!, pensò. Dev’essere il Grande Rasoio Americano. Non riusciva proprio a distogliere lo sguardo. Da qualche parte, pensò tremando, da qualche parte, nel cuore di una montagna di pietra c’è un vecchio sfregiato dal volto demoniaco che indossa una camicia a righe e una sola bretella, e coi denti serrati e il mento umido di saliva prende quel rasoio e taglia un sudicio pezzo di spago. E mi uccide. Il Destino Americano, l’Angelo della Morte Americana, il Suo Rasoio2.

Robert Anthony Stone era nato a Brooklyn il 21 agosto 1937, figlio di Homer Stone, un impiegato delle ferrovie, e Gladys Grant, un’insegnante. I genitori si separarono quando lui era ancora in fasce, e fino ai sei anni a occuparsi di lui fu prevalentemente Gladys, che però soffriva di un grave disturbo mentale, probabilmente schizofrenia. Insieme, Robert e la madre conducevano una vita
abbastanza isolata, tra piccoli monolocali e, quando la madre perdeva il lavoro a causa della sua malattia, rifugi per senzatetto (la cui descrizione riveste un aspetto importante nel corso dello svolgimento di Una sala di specchi).

Dopo l’internamento di Gladys in un ospedale psichiatrico nel 1943, Robert rimase solo e trascorse molti anni in un orfanotrofio cattolico. All’infanzia seguì un’adolescenza tormentata. Robert frequentò severissime scuole cattoliche, dove studiò il latino e imparò a scrivere bene, distinguendosi e vincendo anche un concorso di racconti, ma a causa dell’abuso di alcol e delle sue posizioni apertamente atee venne espulso per condotta immorale l’anno in cui avrebbe dovuto diplomarsi.

Da tutto questo, e dalle successive e disordinate esperienze di vita, Stone avrebbe tratto la sua poetica e la sua filosofia: «Le storie non sono un lusso che l’umanità si concede, inventarle è necessario quasi come il pane. […] Non possiamo contemplare e analizzare la nostra situazione se non abitando, per una parte del tempo, nel mondo dell’immaginazione, dove selezioniamo, classifichiamo e ridefiniamo la caotica promiscuità degli eventi»3.

Non può esserci alcuna bellezza nel delirio alcolico e, tanto meno, nel vendere il proprio corpo al bancone di un bar. Stone lo sapeva bene e, forse, anche per questo poteva affermare che in fin dei conti il suo modo di vedere le cose era intrinsecamente religioso, quasi mistico, nutrito però di «energie distruttive», come sostiene il suo biografo Madison Smart Bell.

Energie distruttive che, a loro volta, si nutrivano anche delle droghe che lo accompagnarono a lungo: Quaalude, peyote, eroina, Ritalin, benzodiazepine. Arrivò un momento in cui le droghe gli erano necessarie anche solo per alzarsi dal letto la mattina, ma Stone non smise mai di scrivere e di “cantare” la grande disillusione americana. Cui l’alcol non poteva certo portare, come d’altra parte le droghe, un reale beneficio.

Quando si fermò, la strada si era ridotta a due smilzi binari che si attorcigliavano tra due lotti vacanti. Tirò fuori il vino, gettò via la busta di carta, trascinò la valigia sulle assi marce sotto le rotaie e si sedette su un copertone nell’erba secca. Era circondato da magazzini dalle nere finestre quadrate, e da mozziconi di umide strade senza uscita. Le luci dello scalo merci ferroviario, seminascoste dal fumo, lampeggiavano in lontananza. Si accomodò e bevve il vino sciropposo, chiudendo gli occhi e ascoltando i tramestii nell’erba, le tubature fognarie che gocciolavano acqua piovana, il vento che trascinava le lattine di birra vuote sulla ghiaia umida e i vetri rotti.
Quando ebbe finito il vino e gettato via la bottiglia si rese conto di aver afferrato una qualche profonda verità, di aver avuto un’intuizione, o di aver colto un elemento di redenzione logica di straordinaria importanza. Non aveva idea, però, di cosa fosse.
[…] «Rheinhardt», disse, per sperimentare la sua nuova consapevolezza, reggendosi a una sbarra. «Rheinhardt». Immediatamente lo scalo ferroviario e i neri edifici smisero di esistere. […] Iniziò a venirgli la nausea. Vaffanculo, pensò. Era certo che l’intuizione non fosse quella. Afferrò la valigetta e barcollò attraversando il piazzale finché, dopo un po’, non si ritrovò immerso in una profonda tenebra, una rancida e mefitica tenebra colma di un suono che non aveva mai udito. Il suono si fece sempre più forte, sferragliando a ogni suo passo, e diventò un rombo mostruoso costellato di lamenti, urla e pianti che riecheggiavano e rimbalzavano contro mura invisibili, in un frastuono di onde dal ritmo ossessivo e soffocante; la tenebra ne era carica, pareva anzi che fosse proprio questo suono ad annichilire l’aria e la luce. Rheinhardt rimase immobile, trattenendo il respiro, ma il suono non si interruppe,così decise di ritornare sui propri passi, ma era troppo buio. Allungò una mano e toccò qualcosa dalla consistenza spugnosa e umida che gli si attaccò al palmo; fece un passo indietro, mollando la valigetta, e si sentì sprofondare fino alle ginocchia in una sostanza vischiosa che lo risucchiava. Fu colto dal terrore, balzò in avanti, cadde, si rimise in piedi a fatica; ferito e coperto di sudiciume cominciò a correre inciampando e sbattendo la testa contro colonne invisibili; aveva le mani sporche di sangue, e tutto attorno a lui il suono nero e rancido martellava e martellava e Rheinhardt non si fermò finché non vide, improvvisamente, la circonferenza della luna coperta da nuvole sudicie. Finalmente si fermò, alzando le mani insanguinate, si voltò in direzione del rumore e vide strisce di luce che, come lame di rasoio, disegnavano cerchi e spirali nell’aria notturna; al di sopra del rombo c’erano migliaia di fanali che arrivavano fino al cielo rosso e poi si disperdevano in un nero infinito4.

Il buio fitto del delirio alcolico in cui sprofonda Rheinhardt sembra richiamare i deliri ottocenteschi di un altro grande alcolista e visionario: Edgar Allan Poe. Deliri, come ha affermato David Samuels, stratificati «con pesanti distorsioni emotive e feedback in stile Jimi Hendrix»5, che forse proprio al suo romanzo si sarebbe ispirato per il titolo di uno dei suoi brani più famosi: Room Full f Mirrors.

Stone era l’unico tra i suoi coetanei letterari che poteva sentire in un registro emotivo che gli permetteva di seguire come le divine speranze di trasfigurazione in cui il sogno americano si mostrava in tutta la sua nuda bellezza fossero finite in tanta desolazione e confusione. C’era qualcosa di essenzialmente religioso nel cuore della sua visione, che gli permetteva di affrontare le terribili conseguenze del mondo reale del desiderio umano di trascendenza e di non distogliere lo sguardo6.

Così come il lettore non riesce a distogliere lo sguardo dalle più di cinquecento pagine del romanzo per leggerlo, tutto d’un fiato, fino alla fine.


  1. A. Martinese, Le storie non sono un lusso. Profilo bio-bibliografico in R. Stone, Una sala di specchi, traduzione di Dante Impieri, Edizioni minimum fax, Roma 2024, pp. 7-8.  

  2. R. Stone, op.cit., pp. 74-76.  

  3. cit in A. Martinese, op. cit., p. 13  

  4. R. Stone, op. cit., pp. 85-87.  

  5. D. Samuels, Il profeta americano dell’illusione: l’ultima grande intervista di Robert Stone, «The Daily Beast», 15 novembre 2013.  

  6. Ivi  

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