SERVI DEI SERVI

di Giovanni Amicarella

Lungi dal voler definire Kamala Harris una sconosciuta in senso proprio del termine, tuttavia la corsa elettorale che ha portato avanti, col subentro da ultimo al posto dell’ormai rudere Joe Biden, mi ha ricordato molto lo sketch televisivo “La sconosciuta del PD”, in cui Sabina Guzzanti interpreta quella scena, che è ormai reale e quotidiana tanto quanto tragicomica, di una sconosciuta liberal-borghese rappresentante di quel partito mandato a fare carne da cannone della classe media in trasmissioni di vario genere e tema.

Kamala Harris è stata di fatto tirata come scudo fra una vittoria schiacciante di Trump e un altrettanto schiacciante sconfitta di Biden, che sembra aver trovato una nuova occupazione a tempo pieno nello stringere la mano al nulla, l’annusare bambini ed il partorire frasi talmente criptiche ed incomprensibili, che al confronto il primo Carmelo Bene risulta un estratto da Topolino.

A nulla sono serviti i fact checkers che hanno provato a decontestualizzare ogni contesto, pur di non far emergere una mal celata demenza senile, Biden non ha convinto, nemmeno i democratici.

La Harris, tuttavia, ha scelto la stessa strada malsana che ha contraddistinto i democratici nelle scorse tornate elettorali, non solo nelle presidenziali: fare leva su genere e etnia come identity politics, fare leva sul virtue signalling dei vari divi di Hollywood e cantanti, cercare di fare breccia sugli afroamericani presentandosi come una di loro, prediligere l’ingraziarsi gli ambienti universitari anziché quelli lavorativi.

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A chi sembrassero aramaico i due termini appena utilizzati, oltre che confessarvi che vi invidio profondamente perché significa che non siete mai venuti in contatto con la “sinistra” americana o americaneggiante, spiego brevemente:

L’identity politics è l’insieme di idee basate sull’identità (genere, colore della pelle, orientamento sessuale, prettamente questi tre a cui talvolta si aggiunge la religione) su cui imbastire la propaganda politica facendo leva sul “io sono uno di voi”.

Naturalmente chi vota un politico perché donna, omosessuale o nero esattamente come sé? Infatti, nessuno. È un approccio fallimentare che comunque ha attraversato l’Atlantico: non so se ricordate il Salvini che si fa la pizza, la Meloni madre di famiglia e la Schlein con la compagna, proprio come noi. Se non fosse per una serie di privilegi non proprio trascurabili…

Il virtue signalling, letteralmente “segnalazione di virtù”, è quel frequente e plateale suggerimento a conformarsi ad un soggettivo modello di bene che mandano avanti certi attivisti, che su piccola scala è propagandato da personaggi discutibili per cercare di prendersi il like e la conseguente dopamina che ne ottengono. Non so se ricordate durante il COVID, quando Hollywood chiedeva a tutti di mettersi la mascherina o di vaccinarsi.

Oppure quando gli attori italiani ci chiedevano di farlo. Qui ovviamente l’idiozia è duplice, perché non solo è un approccio disfunzionale di per sé, ma perfino l’americano medio (che sulla scala di intelligenza si attesta fra una mensola e un frigorifero) non riesce più a prendere seriamente quell’Olimpo di celluloide costellato di scandali sessuali di ogni tipo e per ogni risma, di degenerati che non esitano un attimo a promuovere per pochi spicci la qualunque, dalle pillole dimagranti tossiche alle sette para-religiose.

Insomma, il “sono come voi” e il fare la morale ovviamente sono ambedue volti di una tattica fallimentare, che in Italia soprattutto ha dato vita a quell’astensione popolare che difficilmente si può vedere con antipatia. Gli americani avranno i neuroni un po’ più anneriti, ma sono riusciti comunque, in buona parte, a vedere il burrone prima di finirci dentro.

L’altra parentesi Harris è quella etnica e di genere, che fa oggettivamente ridere letto da noi fuori dalla degenerazione culturale e sociale dell’Impero del Sol Calante, almeno per ora. Ha ricevuto diversi appoggi da figure di vari ambiti con più o meno fama, perché sarebbe potuto essere non solo la prima presidentessa donna ma anche afro-americana. E giustamente voi direte: “ma chi se ne frega”, cosa che è stata pensata e detta, a quanto pare, da molti americani.

Tuttavia, per comprendere la tendenziosità di questa strada “progressista” presa anche da diversi giornali italiani, dobbiamo analizzare chi sia Kamala Harris. Per prima cosa si è scoperta afroamericana di recente, lo dico ovviamente con ironia: vedendo le versionipassate di Wikipedia e le sue dichiarazioni in merito, prima risultava di origine indiana, poi indiana e anche afro-americana, poi giamaicana.

Una mente particolarmente stronza come la mia potrebbe pensare che si sia giocata queste diverse identità in base al pubblico di riferimento, ma non risiedendo nella sua testa resterò col dubbio.

Inoltre, non è certo nella posizione di guardare la comunità afroamericana e dirsi una di loro, nei suoi ventisette anni come procuratore in California affibbiava pene detentive severissime.

Non che ci sia un problema nell’arrestare e perseguire i criminali, semmai il problema è quando si ha a che fare con una società dilaniata – e la tipica risoluzione americana alle questioni sociali (siano essi delinquenti abituali o drogati) è lavori forzati o piombo. La Harris non si è certo battuta per l’integrazione o per affrontare davvero le problematiche della comunità a cui da anni chiede il voto.

Se Trump, sia chiaro per convenienza elettorale, ha giocato per un giorno a fare l’uomo del popolo da McDonalds, non vanno certo dimenticate alcune questioni legate all’imprenditore che dovrebbero fare da monito a quelli che dall’estero lo vedono con eccessiva simpatia: basti ricordare il barbaro assassinio di Qassem Soleimani, un eroe del popolo in Iran.

Non è stata certo una mossa da grande pacifista o da portatore della pace mondiale, come lo vorrebbe dipingere una certa area del “dissenso” in Italia e anche altrove nel mondo. Trump incarna quell’America che si sente un po’ Superman. Per quanto, fra i due, viste le passate mosse di Nancy Pelosi a Taiwan e le sparate di Joe Biden sulla Cina e dintorni, penso sinceramente che abbia decisamente vinto il meno peggio. Mi sorprendo che il clamore elettorale dietro al tentato assassinio, meglio dire più di uno, non abbia avuto tutta questa centralità fra le motivazioni della vittoria.

Va ovviamente dedicata una menzione d’onore – dopo aver parlato dell’area nostrana del dissenso che vede Trump come messia della pace mondiale – a tutte le pagliacciate dei partiti dell’arco costituzionale: da una Lega che sfoggia un Salvini che si congratula con Donald vestito da Trump, ad una Ceccardi in maglietta e bandiera americana (alla faccia del “prima gli italiani”), fino alla Meloni, seguita a ruota da Mattarella o viceversa, che definisce Italia e Stati Uniti “nazioni sorelle” (mentre alla nostra vera sorella per storia e per genesi, l’Albania, abbiamo destinato i campi profughi), passando ad un Partito Democratico dissanguato alle regionali, che tifava enormemente per la Harris, affranto di un ritorno al fascismo (il grande ed eterno spauracchio da cui ci aveva messo in guardia Costanzo Preve).

Resta da chiedersi quanto durerà questa malsana ossessione per le questioni americane, questa febbre a stelle e strisce, che colpisce la nostra classe dirigente, prima che il popolo si accorga del vassallaggio a cui la nostra stessa politica dimostra di dipendere. Vogliamo considerare anche il deep state?

A quel punto non siete semplicemente servi, ma servi dei servi.

di Giovanni Amicarella

10.11.2024

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