di Luca Cangianti
Olúfẹ́mi O. Táíwò, La cattura delle élite. Come le identità oppresse vengono strumentalizzate dal potere, trad. Emanuele Giammarco, Alegre, 2024, pp. 142, € 15,00 stampa, 7,99 ebook.
Nel 2001 una radio commerciale romana lanciò una campagna pubblicitaria con lo slogan «Globalizziamoci!»: sui cartelloni disseminati per la città erano raffigurati giovani in tuta bianca che danzavano. Con ogni evidenza si alludeva al movimento di protesta che di lì a poco avrebbe animato le giornate di Genova. Naomi Kein in No logo, un best seller d’inizio millennio, racconta che la multinazionale anglolandese Uniliver (tra i suoi marchi più noti: Algida, Findus, Bertolli, Calvé, Knorr, Coccolino, Cif, Bio Presto, Mentadent, Dove) acquistò l’industria di gelati statunitensi Ben & Jerry’s. I proprietari prima di vendere avevano vincolato l’Uniliver a un programma di iniziative sociali e politiche cui dovevano esser destinati il 7,5% degli utili. La Ben & Jerry’s si era distinta nelle proteste contro una centrale nucleare e aveva sostenuto la causa del black panther Mumia Abu Jamal (accusato controversamente di aver ucciso un poliziotto e inizialmente condannato per questo alla pena capitale), nonché la Ruckfus Society, un’associazione dell’universo noglobal che, stando alla stampa, non esitava a scontrarsi con la polizia per manifestare contro il Wto. Fin qui il racconto della giornalista canadese.
Il filosofo afroamericano Olúfẹ́mi Táíwò va oltre. Nel saggio La cattura delle élite generalizza e spiega questi fenomeni bizzarri in cui le élite dominanti abbracciano «una politica delle identità di tipo simbolico per pacificare le proteste senza avanzare alcuna vera riforma materiale». Il bello è che queste stesse politiche dell’identità erano nate negli anni settanta in ambito antagonista per facilitare la partecipazione nelle lotte sociali di donne, omosessuali e gruppi etnici discriminati. Ma il blob capitalistico quando gli conviene non discrimina nessuno e ingloba tutti. E così la Cia arruola indigeni e persone queer (senza per questo smettere di esser ciò che è); sulle strade dove sono stati randellati gli attivisti antirazzisti si scrive a caratteri cubitali BLM (cioè Black lives matter); i consigli di amministrazione e i gabinetti di guerra accolgono le donne similmente al personale politico postcoloniale che continua la prassi precedente cambiando solo il colore della propria pelle. Insomma se fossimo nella Fattoria degli animali di George Orwell, Mr. Jones, senza aspettare la rivoluzione, avrebbe invitato nella sua residenza i maiali Vecchio Maggiore e Palla di Neve. Tutti e tre si sarebbero inginocchiati per esprimere deferenza nei confronti della condizione animale per poi rialzarsi (su due zampe) e lasciare il mondo così com’è.
Táíwò, attingendo alla tradizione del pensiero coloniale, rifiuta di accontentarsi di verniciare le catene dell’oppressione con i colori dell’arcobaleno e propone un’alternativa materialistica che affronti «direttamente il compito di redistribuire le risorse e il potere sociale, piuttosto che perseguire obiettivi intermedi riscossi solo sul piano simbolico». Tale «politica costruttiva» non nega le specifiche oppressioni (di genere, di classe e di etnia), ma cerca un nesso comune nella pratica di lotta contro il potere.