di Sandro Moiso
Tim Harper, Asia ribelle. Assalto agli imperi e rivoluzione globale, add editore, Torino 2024, pp. 776, 45 euro
Non vi può essere dubbio alcuno che ogni grande rivoluzione abbia rappresentato sicuramente, per i suoi protagonisti più o meno famosi come per le generazioni e le classi sociali coinvolte, sia un evento drammatico che avventuroso. Con una forte prevalenza del secondo elemento rispetto al primo, soprattutto quando ad agire nel suo nome sono stati giovani militanti tutt’altro che restii ad adattarsi alle logiche normalizzatrici del tempo in cui sono nati e degli stessi partiti che avrebbero dovuto rappresentare il cambiamento sociale.
Così la serie di articoli che ha inizio con la presente recensione del bellissimo testo di Tim Harper, per i motivi suddetti ed altri ancora, vuole costituire per chi scrive, oltre che la ricostruzione di momenti storici particolarmente significativi e convulsi dal punto di vista socio-politico e militare, ancora una volta un omaggio sia al genio letterario di Emilio Salgari che a quello politico dell’amico e compagno di riflessione teorica Emilio Quadrelli, recentemente scomparso.
Il primo per la gran mole di libri avventurosi prodotti, in cui il tratto anticoloniale e antimperialista si accompagnava, sia che si trattasse dei romanzi del ciclo del Borneo e della Malesia che di quelli ambientati nelle Filippine durante la guerra ispano-americana del 1898 oppure di quelli dei fuggiaschi dalle prigioni siberiane dello zarismo o, ancora, ambientati sulle grandi pianure del West durante le guerre indiane, una ricca mole di osservazioni decisamente antirazziste che, nell’insieme, contribuirono a formare generazioni di futuri scrittori e rivoluzionari. Come lo stesso Che Guevara che, prima di diventare egli stesso un personaggio da avventure leggendarie a Cuba, in Africa e, infine, in Bolivia, aveva letto tutti i romanzi dell’autore italiano1, intendendoli sempre come parte fondamentale della sua formazione rivoluzionaria.
Il secondo per la concezione dell’audacia necessaria per i rivoluzionari nel momento in cui si pongano il problema dell’azione destinata a combattere e rovesciare l’esistente. Un’audacia nell’osare che deve costituire, nella riflessione di Quadrelli, la diretta conseguenza dell’espressione piena e cosciente della soggettività della classe, al di là ed oltre i limiti imposti da qualsiasi tipo di ortodossia comunista, socialista o d’altro genere ancora2.
E nel libro di Tim Harper di avventura, determinazione e audacia ce n’è davvero moltissima, come ben si adatta ad un progetto che, sorto sotto il tallone dell’imperialismo e colonialismo occidentale nel momento della sua massima espansione e forza militare, dovette sembrare ai più, soprattutto tra coloro che rappresentavano le potenze coloniali europee a cavavllo tra XIX e XX secolo, davvero incredibile e folle.
Tim Harper è, dal 2020, a capo della School of the Humanities and Social Sciences e Direttore del Centro per la Storia e l’Economia dell’Unversità di Cambridge, oltre che essere membro, da quest’anno, della Accademia Britannica. I suoi interessi di ricerca si concentrano sulla Storia del Moderno Sud-est asiatico e le conesioni globali di quella regione. Il suo primo libro, The End of Empire and the Making of Malaya (1999), è uno studio sulla guerra, la ribellione comunista e il raggiungimento dell’indipendenza sia della Malesia che di Singapore.
Da allora ha pubblicato, insieme a Christopher Bayly, un resoconto storico in due volumi della Seconda guerra mondiale e delle sue conseguenze nell’Asia meridionale e del Sud-est: Forgotten Armies (2004) e Forgotten Wars (2007). Asia ribelle. Assalto agli imperi e rivoluzione globale (uscito originariamente come Underground Asia: Global Revolutionaries and the Assault on Empire nel 2020) costituisce il suo lavoro più recente. Oltre a ciò ha collaborato con una grande mole di articoli e contributi compresi in svariate riviste, come «Modern Asian Studies», e raccolte di saggi.
La ricerca appena pubblicata in Italia da add editore è stata accolta e segnalata come libro dell’anno sia dall’«Economist» che dal «Financial Times». E, sostanzialmente, prende avvio da una annotazione contenuta in un un pamphlet anonimo del 1913, di autore indiano, a metà fra il manuale bellico e l’esortazione alla rivolta: «Come può liberarsi dal terrore chi dal terrore è oppresso? Come possono gli schiavi ottenere la libertà? Ecco la risposta: con la “Bomba”».
A inizio Novecento l’Asia coloniale – l’immensa rete di località marittime, passi montani, piantagioni e vie d’acqua compresa tra l’oceano Indiano e le coste orientali cinesi – costituiva una polveriera pronta a mandare in frantumi gli imperi europei. Da Bombay a Shanghai, da Singapore a Manila, le banchine dei porti e i transatlantici che facevano la spola dall’Europa diventarono la via d’accesso di idee anarchiche e marxiste, oltre che il teatro di un continuo scambio di personalità, traduzioni, ricette politiche tanto varie quanto originali. I pellegrini di questo sottosuolo antimperiale – come il futuro Ho Chi Minh, Sun Yatsen, la nemesi di Gandhi M.N.Roy e Mao Zedong – hanno tutti un ruolo nelle vicende narrate, ma non sono necessariamente i protagonisti, anche se quasi tutti avrebbero finito col convergere verso una nuova Mecca, la Mosca dei primi anni Venti, per poi diffondere in Asia il verbo di un mondo che non sarebbe più stato lo stesso.
Confermando in tal modo come la Rivoluzione russa e la successiva fondazione dell’Internazionale Comunista all’interno del paese dei Soviet più che servire alla causa della liberazione del proletariato dell’Europa Occidentale, soprattutto dopo la fallita e disastrosa avanzata sulla Polonia del 1920 fermata alle porte di Varsavia, sia servita alla liberazione dell’Asia dal giogo imperiale e coloniale europeo.
Come afferma l’autore nella Premessa:
Ho scritto dalla prospettiva di attori diversi, molti dei quali oggi trascurati dalle storie nazionali, partendo da ciò che sapevano, vedevano o pensavano sarebbe stato possibile. Ricostruendo le loro vicende, ho cercato di non indulgere troppo nel giudizio postumo dello storico. Con il senno di poi, molti potrebbero sembrare degli sconfitti; invece, con i loro trionfi, i fallimenti e le avversità che hanno attraversato, hanno segnato a fondo il futuro dell’Asia.
Questo libro fornisce consapevolmente una visione eccentrica, nel senso più letterale del termine, della storia asiatica, traccia la geografia ribelle della rete clandestina dei rivoluzionari asiatici, descrivendone le traiettorie e illustrando come certi contesti abbiano contribuito alla nascita di nuove idee e strategie di lotta. Racconto di vite vissute negli interstizi degli imperi, di battaglie in cui lo Stato nazionale non era il fine ultimo e nemmeno l’ordine naturale del mondo futuro. Sebbene gran parte dei protagonisti del libro si trovassero su posizioni assai distanti, spesso in violento contrasto, in tutti era vivo l’impegno per una «nazione umana mondiale», secondo la definizione del giornalista, scrittore e militante indonesiano Mas Marco Kartodikromo. Questi intellettuali sottolineavano con particolare enfasi di vivere in un’epoca di transizione, in un tempo e in uno spazio tra l’impero e la nazione. O forse, per essere più precisi, accanto all’impero e alla nazione. Mas Marco Kartodikromo e i suoi contemporanei celebravano un «mondo in movimento» e un «mondo sottosopra». Parole che rimandavano a un’idea di Asia – e del mondo nel suo complesso – più aperta di quanto non fosse mai stata e forse non sarebbe stata mai più 3.
In un contesto in cui rivoluzione anticoloniale e rivoluzione proletaria si svilupparono inizialmente in un breve tempo, anteriore allo sviluppo di qualsiasi successivo dogmatismo, in cui si concretizzò in “un’onda inarrestabile di consapevolezza collettiva” volta a liberarsi dalla violenza, dai soprusi e dallo sfruttamento coloniale più implacabile. Un contesto, però, che ci rivela anche come tali istanze rivoluzionarie fossero ben distanti dalle successive affermazioni nazionalistiche espresse a rivoluzioni avvenute e, altrettanto, dalla attuale conflittualità antioccidentale espressa dai Brics, sia ristretti che allargati
Terroristi, ammutinati, femministe con i capelli a caschetto, doppiogiochisti, tipografi clandestini, facinorosi che s’imbarcarono come marinai: tra fonti d’archivio, stampa dell’epoca e documenti privati, Tim Harper ripercorre, in un affresco affascinante e magistrale, le traiettorie avventurose degli uomini e delle donne che, attraverso l’intero continente ma anche attraverso i mari e gli oceani, posero le basi del mondo di oggi. Le cui radici affondano forse più in quelle aree e in quelle rivolte che non in Occidente e nelle sue sempre parziali rivoluzioni.
E’ un racconto epico quello che attende il lettore in queste pagine, attraversato da decine di vicende individuali e collettive che sarebbe qui troppo lungo riassumere, ma di cui vale la pena di raccontare almeno alcuni episodi. Come quella di Pham Hon Thai, il giovane rivoluzionario vietnamita che nel giugno del 1924 aveva attentato alla vita di Martial Merlin, governatore generale dell’Indocina francese recatosi in visita all’isola di Shamian, una delle più antiche enclave coloniali in terra cinese, posizionata di fronte a Canton, la più grande città autonoma del continente.
Città, la prima, già attraversata da condizioni estreme di carattere nazionale, sindacale, militare, politico e sociale, che nel 1923 divenne sede del neonato governo nazionalista di Sun Yat-sen, che controllava tutte le sei province meridionali, mentre il resto della Cina era ancora suddiviso fra cricche militari capeggiate dai cosiddetti «signori della guerra», in continua lotta tra loro per succedere agli ultimi eredi della dinastia Qing.
Nei primi mesi del 1924 venne presa la fondamentale decisione di creare una base militare indipendente del governo nazionalista e di fondare l’accademia militare di Whampoa, a una ventina di chilometri da Canton. Una delle sue principali funzioni sarebbe stata la formazione politica, tanto che i giovani radicali cinesi, coreani e del Sudest asiatico sgomitavano per essere ammessi. Canton, ora il centro ideale della nuova nazione, era un luogo di intense sperimentazioni sociali in nome dell’unità e del progresso, ed esportava nuove idee e pratiche: un faro per l’Asia libera4.
Mentre l’isola di Shamian, era posta al di là di un canale largo appena trenta metri e unita alla terra ferma da due ponti sigillati all’ingresso da filo spinato e sorvegliati rispettivamente da soldati sikh e vietnamiti.
In quell’avamposto dell’Occidente, costruito su un banco di sabbia artificiale di circa ventidue ettari nel cuore della città cinese, risiedevano cinquecento cittadini britannici, un centinaio di francesi e una manciata di tedeschi, americani e giapponesi. In seguito all’intervento anglo-francese in Cina del 1860, il porto di Canton, soggetto ai trattati di pace, era stato suddiviso in due concessioni extraterritoriali: una, che occupava i quattro quinti dell’isola, era amministrata dagli inglesi; l’altra, dai francesi. […] I piroscafi e le cannoniere europee ormeggiati al Bund – la banchina nella zona meridionale di Shamian – navigavano lungo il fiume delle Perle, una delle vie d’acqua interne più trafficate del mondo, affollata di sampan cinesi, giunche, enormi battelli a ruota a propulsione umana, case sull’acqua e flower boats, i leggendari bordelli galleggianti. A nord e a est, i due ponti collegavano Shamian alla vecchia periferia occidentale di Canton, con il suo labirinto di mercati e botteghe, abitata da oltre un milione di cinesi. Per questi ultimi l’isola era un luogo «quasi proibito»: per accedervi era necessario il permesso del consiglio cittadino di Shamian, che ne limitava comunque l’ingresso a zone ben precise, mai dopo mezzanotte, e beninteso con il divieto di calpestare i prati. [Motivo per cui] All’epoca Shamian era al centro di forti tensioni patriottiche ed era sostanzialmente sotto assedio. Come scrisse un giornalista locale: «Chiunque, a parte i collaborazionisti cinesi, mettendo piede su quest’isola segnata dal marchio dell’infamia sentirebbe il cuore accendersi di rabbia e disprezzo»5.
Ma fu proprio in quel contesto, ultra-sorvegliato e protetto, che il giovane Pham Hon Thai osò applicare il metodo indicato dall’anonimo libello indiano del 1913 citato in apertura di questa recensione.
Il 19 giugno 1924 sua eccellenza Martial Merlin, governatore generale dell’Indocina francese, fece il suo ingresso in quella polveriera. Arrivò in serata da Hong Kong, dove aveva fatto tappa rientrando da una visita in Giappone e nel Nord della Cina, in tempo per partecipare a una cena nella concessione britannica di Shamian. Merlin apparteneva alla prima generazione di funzionari civili coloniali e aveva raggiunto l’attuale posizione dopo un turbolento periodo di servizio nei nuovi possedimenti francesi in Africa. Se all’inizio della carriera aveva sostenuto la politica di «associazione» con le élite native, i cosiddetti évolués, nel corso dell’ultimo incarico in Senegal aveva adottato la posizione opposta: gli évolués, ammoniva, erano déracinés («sradicati») ed era compito della Francia ripristinare la coesione sociale di fronte agli «appelli individualistici e alle promesse fallaci degli agitatori di professione». […] La cena, per una cinquantina di invitati, si tenne nel salone principale, con le grandi finestre aperte sulla strada. In occasione della visita, il governo di Canton aveva disposto un rigido sistema di sicurezza su entrambe le rive del canale. I due ponti di pietra che collegavano l’isola alla città erano chiusi e presidiati. Agenti di polizia, seppure non armati, pattugliavano le strade. Gli ospiti si sedettero a tavola alle 20:30; dieci minuti dopo, mentre veniva servita la minestra, un uomo «molto ben vestito» si affacciò a uno dei finestroni. Secondo un testimone oculare, si mise a osservare la tavolata «come farebbe chiunque, gentiluomo o coolie». Poi, tutto a un tratto, lanciò all’interno una ventiquattrore che finì dritta sul tavolo, mandando in frantumi piatti e bicchieri. Dopo qualche secondo la valigetta esplose. Il boato rimbombò per tutta l’isola6.
La bomba fece diversi morti e numerosi feriti tra i commensali, anche se non raggiunse l’obiettivo principale, ma lo stesso con il suo fragore esplose nella via come quella proletaria cantata di Francesco Guccini quasi settanta anni dopo7. Innescando una serie di eventi che nonostante la morte del giovane attenatore, inseguito e ferito dagli agenti e in seguito suicida, avrebbero scosso il continente dalla Cina all’Indocina francese.
Ma era stato già prima, al momento del coinvolgimento delle truppe coloniali nel primo conflitto mondiale che l’antagonsimo tra colonizzati e colonizzatori si era acuito. Come in quel lunedì 15 febbraio 1915, festa del Capodanno cinese, quando il 5º Fanteria Leggera indiano si ammutinò alla caserma Alexandra di Singapore. Il reggimento, composto interamente da truppe musulmane, era il pilastro della guarnigione dell’isola. Intorno alle 15:00 erano stati sparati dei colpi, quando i soldati avevano tagliato le linee telefoniche militari. Gli ufficiali britannici del reggimento erano fuori servizio, riposavano a casa o sulla spiaggia, e la notizia della rivolta tardò a diffondersi. Nessuno, a quanto pare, pensò di dirlo alla polizia. Così un gruppo di ribelli si diresse verso la Chinatown di Singapore, uccidendo i britannici incontrati lungo la strada. Altri si diressero verso una batteria vicina, presidiata da Sikh reclutati localmente dalle Guide degli Stati Malesi: uccisero l’ufficiale britannico e lanciarono le armi contro le Guide, ma la maggior parte di loro fuggì nella giungla vicina. La più numerosa e risoluta banda di ribelli si diresse a ovest verso il campo di Tanglin, dove erano detenuti 307 internati e prigionieri di guerra tedeschi, e offrì loro armi e libertà. Ma le gerarchie coloniali tennero: nelle parole riportate da un tenente di marina, “un ufficiale tedesco non combatte senza la sua uniforme o nelle file degli ammutinati”. Alcuni militari e alcuni uomini d’affari, tuttavia, colsero l’occasione per fuggire. Nei confusi combattimenti in tutta l’isola, 47 soldati e civili furono uccisi: cinque cinesi e malesi morirono, ma la maggior parte erano britannici, presi di mira sui campi da golf, in auto e in carrozze. Le loro donne e i loro bambini si ritirarono – “come le immagini cinematografiche dei profughi belgi” – sui piroscafi nel porto, provocando una brutta rissa razziale quando le donne eurasiatiche e altre donne asiatiche tentarono di unirsi a loro. Gli inglesi persero il controllo della loro fortezza sull’isola per due giorni e la fragilità di fondo della società coloniale fu messa a nudo8..
Ma non solo, poiché ancora una volta la rivolta contro la guerra e l’occupazione coloniale era partita proprio da coloro che avrebbero dovuto ubbidire agli ufficiali. Anticipazione non soltanto delle successive rivoluzioni asiatiche, ma anche delle insurrezioni nelle trincee europee del 1916 e 1917 che portarono in Russia alla Rivoluzione di Febbraio prima e a quell di Ottobre poi. E successivamente alla capitolazione tedesca dopo l’insurrezione dei soldati, dei marinai e degli operai nel 1918. Chiudebdo idealmete un cerchio che ancora oggi ha qualcosa di importante da ricordarci e suggerirci. Come lo splendido testo di Harper riesce ancora a fare con qualsiasi lettore appassionato di Rivoluzione e di avventura.
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Si vedano in proposito: P. I. Galli Mastrodonato, Emilio Salgari. The Tiger Is Still Alive!, Fairleigh Dickinson University Press copublished by The Rowman & Littlefield Publishing Group, Lanham (Maryland- USA) – London (UK) 2024 e S. Moiso, Il Magister e il Capitano. Sogno e immaginario guerrigliero in S. Moiso, A. Sebastiani (a cura di), L’insurrezione immaginaria. Valerio Evangelisti autore, militante e teorico della paraletteratura, Mimesis edizioni, Milano-Udine 2023, pp. 119-138. ↩
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Per cogliere tutta la riflessione sul tema da parte di Emilio Quadrelli, si vedano: E. Quadrelli, György Lukács, un’eresia ortodossa, in corso di pubblicazione su «Carmillaonline» e, ancora, L’altro bolscevismo. Lenin, l’uomo di Kamo, DeriveApprodi, Bologna 2024 e, infine, sempre dello stesso, Cronache marsigliesi capitoli 7 e 8: la guerra civile in Francia, «Carmilaonline», 6 e 13 luglio 2023. ↩
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T. Harper, Asia ribelle. Assalto agli imperi e rivoluzione globale, add editore, Torino 2024, pp. 21-22. ↩
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T. Harper. op. cit., p. 29. ↩
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Ibidem, pp. 27-28. ↩
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Ivi, pp. 30-31. ↩
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F. Guccini, La locomotiva, nell’album Radici del 1972. ↩
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Si veda in proposito proprio il capitolo 7, Navi fantasma (1915) in T. Harper, op. cit. ↩