di Claudio Vitagliano
Il 19 ottobre 2024, è comparso sul Fatto Quotidiano un articolo di Crocifisso Dentello sul romanzo “Sangue di cane” di Veronica Tomassini. Mi ha incuriosito subito, insieme al titolo del romanzo, anche quello dell’articolo; “Andata e ritorno nell’inferno dei reietti”. Ad un lettore che ha sempre subito il fascino di una certa letteratura “estrema” non poteva capitare nulla di meglio per veder lievitare la curiosità alla velocità della luce.
Premetto che, tra gli autori da me preferiti di un certo tipo di letteratura, come definirla… maleducata, inserisco autori come Henry Miller, Anais Nin, Georges Bataille, escludendo invece Charles Bukowski, che ha comunque dei punti di contatto con Tomassini, per il motivo che mi ha dato sempre l’impressione di viaggiare un pò a traino della beat generation. Fatto sta, che dopo aver letto l’articolo ho chiamato subito la libreria dove faccio i miei acquisti e ho prenotato il suddetto romanzo. Dopo le prime pagine ho capito di essere inciampato in una scrittrice anomala, anzi, incollocabile, come si definisce lei stessa.
Il romanzo è un’esperienza vertiginosa, servita facendo ricorso ad uno stile affilato come il bisturi. Esso chiede da subito la devozione di un lettore d’altri tempi, presente anima e corpo, e si dipana come un’esperienza che non concede divagazioni. Sì, sono stato colpito senza pietà da una prosa ora dura come la pietra ora leggera come una piuma. Mettiamo pure che io sia stato colto a tradimento, poiché a colpa di non poche letture effettuate per forza d’inerzia, versassi in uno stato di sedazione emotiva e che per contrasto le pagine di “Sangue di cane” mi sono parse come una sveglia roboante, è comunque fuori di dubbio che lo scritto è oggettivamente materia esplosiva, attrazione irresistibile per lettori affamati di emozioni.
Le pagine del romanzo ci entrano nella pelle, anzi sotto la pelle. Ci obbligano a guardare un mondo che raccontiamo a noi stessi essere lontano anni luce, intuendo però che in fondo, quel mondo è lo stesso in cui ci dibattiamo tutti quanti. Ed è proprio questo fatto a procurarci un nodo in gola: leggiamo di individui lontani, culturalmente e geograficamente lontani, ma nel mentre questo avviene scrutiamo nelle nostre indicibili profondità.
Il romanzo si presenta come una lunga supplica rivolta al proprio amato Slawek, incontrato ad un semaforo mentre chiedeva l’elemosina. Lei se ne innamora perché egli è di una bellezza fuori dal comune, senza neanche il preambolo di una parola scambiata. E già qui possiamo notare una discordanza rispetto alla prassi della letteratura corrente. Infatti, le motivazioni improntate alla moralità con cui si giustifica quasi sempre un’attrazione che ha qualcosa di animalesco, in questo caso non hanno nessuna rilevanza. Nella vita vera, esiste anche l’amore per l’amore, a prima vista, che nasce da un’attrazione erotica formidabile, senza che in ciò siano ravvisabili spiegazioni “domestiche”, come potrebbero essere ad esempio la scoperta di affinità caratteriali, intellettuali o altro.
Questo tipo di innamoramento finisce quasi sempre per possedere gli uomini, mentre qui, chi innesca il gioco è una donna. Questa donna che è la protagonista della storia oltre che l’autrice del romanzo, non usa filtri o scappatoie, la realtà non è altro che i fatti. E i fatti sono ciò che i veri personaggi devono compiere ogni giorno per procurarsi quella porzione di morte apparente che li attende in fondo ad ogni bottiglia. Oppure le menzogne più spudorate a cui Slawek deve dare seguito per soddisfare il suo immenso appetito sessuale, insofferente e sordo alla monogamia. I piccoli imbrogli, i piccoli furti, le piccole risse, che prendono forma in questo teatrino della sopravvivenza, non hanno neanche un poco della dignità che contraddistinguono invece le gesta tragiche della vera criminalità. Dato tutto questo, prendiamo quindi nota di trovarci di fronte ad uno scandalo. Come fu un vero scandalo “Il delta di Venere” di Anais Nin, probabilmente il primo romanzo della nostra epoca che si possa definire pornografia pura senza contaminazioni di altra natura.
Il sesso e l’alcol, hanno sempre fatto da carburante per certi scrittori, oliandone i meccanismi immaginativi e condizionandone sensibilmente la loro produzione. Nello stesso tempo hanno funzionato anche da sedativi per i loro meccanismi emotivi perennemente fuori giri e per mantenere l’immaginazione sotto controllo. Qui, al contrario, abbiamo l’alcol per l’alcol, utilizzato con l’unico scopo di annullare veglia e coscienza. Esso viene elevato a divinità incontrastata del proprio destino, tanto più buona quanto più utile ad annullare la consapevolezza della propria condizione. I personaggi straziati di cui il libro racconta le vicende, non fanno calcoli, la morte è la semplice e naturale conseguenza di un percorso già tracciato. Il tragitto che li porta dal nulla verso un occidente che è pur sempre un nulla, seppure agghindato a festa, non può che avere un tragico epilogo. La morte viene accolta con una agghiacciante naturalezza, come se fosse sempre vita, coniugata però in altri termini.
Ma pure in questo mondo in cui la redenzione ha la stessa possibilità di prendere forma di quanto un miracolo possa concretizzarsi, traspare vagamente qualcosa che si può definire pietà. In effetti, tutto il libro è percorso da vibrazioni sotterranee che ci lasciano intuire, se pur da lontano, la presenza del sacro. E’ intuibile a un certo punto, che la scabbia, le pustole, il vomito, i sudori rappresi e maleodoranti, i pidocchi, la rogna non sono un deterrente abbastanza efficace per tener lontano lo sguardo di Dio. Ma come in accattone di Pasolini, i personaggi del libro sono fino alla fine schiavi della loro umanità, la cui liberazione passa per forza dalla caduta finale. Ciò nonostante, tra i personaggi in scena ce n’è uno al quale la Tomassini presta la sua voce e che è tra i pochi a rappresentare una flebile ma pur viva fiammella in questo deserto di speranza, e alludo alla suorina.
Essa è il rovescio della medaglia, quella parte della nostra coscienza che abdica all’umanità semplicemente e con naturalezza, assolvendo ad una missione che nessuno comanda e che risponde solo al richiamo della vera natura umana. La suorina viene presa in giro, è fatta oggetto di menzogne, viene usata al fine di estorcerle soldi, e pur capendolo essa continua nella sua presa in carico dei problemi e del dolore altrui, ostinatamente e senza titubanze. Una riflessione non troppo tra le righe lanciata nello spazio. Quà e là nel libro si possono fare anche valutazioni che rimandano alla sociologia. E viene in mente Bauman, con il suo “Vite di scarto”, secondo il quale la definizione dell’essere umano nella contemporaneità avviene solo usando il metro dell’utilità che esso può avere nell’infernale ingranaggio produttivo. La dimensione contemplativa, ludica o speculativa sono retaggi del passato a cui non bisogna più volgere lo sguardo, a meno che non si voglia essere scartati.
Cosa sono quindi i derelitti di cui parla Tomassini se non i nostri aggiornati ritratti di Dorian Gray? Essi avvizziscono nelle periferie man mano che i nostri rituali di regolari e benpensanti adepti al culto del consumo, da peccati veniali si trasformano in peccati mortali. Cerchiamo insensatamente la felicità distruggendo un pianeta per costruire gli attrezzi utili a tale scopo, ma sobbalziamo se qualcuno, intercalando, pronuncia il sostantivo “cazzo”. Fatto sta che nel romanzo di Tomassini non si può far finta di non vedere tra le altre cose la nostra controfigura inchiodata alla sua ipocrisia. Insomma, il romanzo ci emoziona fino allo sfinimento, inducendoci contemporaneamente a porci domande e a elaborare riflessioni. Chiudendo però l’ultima pagina, siamo presi da una certezza, e cioè, che la bellezza della letteratura risiede nella ricerca della verità oltre che nel talento e nella libertà di chi la genera.
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Uscirà a breve ed in esclusiva per i lettori di CDC, un’intervista inedita all’autrice Veronica Tomassini. a rileggerci presto.
Claudio Vitagliano per ComeDonChisciotte.org