W il cinema!

di Roberta Cospito

Francesco Costabile, quarantaquattrenne regista calabrese, ha portato di recente sul grande schermo Familia, un film tratto dall’autobiografia di Luigi Celeste, uomo violento che, uscito dal carcere, dopo dieci anni di assenza, torna prepotentemente nella vita della moglie Licia e dei figli Alessandro e, appunto, Luigi.

Il suo film d’esordio del 2022 – Una femmina, ispirato a fatti realmente accaduti – è tratto dal libro inchiesta Fimmine ribelli, scritto da Lirio Abbate, sulle donne vittime di violenza all’interno dell’organizzazione mafiosa; in particolare, è la storia di Maria Concetta Cacciola e Giusy Pesce, due donne che sono state tra le prime a essersi ribellate alla ‘ndrangheta.

Sono entrambe visioni difficili perché provocano sofferenza; film violenti perché è di questo che parlano, di violenza: fisica e psicologia, subita in primis dalle donne ma inevitabilmente anche dai figli, siano essi bambini o ragazzi.

Donne che subiscono botte, stupri, insulti, scoppi d’ira, prevaricazioni, pedinamenti; figli che vivono in contesti familiari brutali, che vengono risucchiati in vortici di rabbia che in molti casi li porteranno a replicare quanto hanno subito. Purtroppo, l’esser stati vittime di abusi durante l’infanzia è decisamente un fattore di rischio per esprimere successivamente violenza, anche se non una condizione necessaria.

La famiglia, sia quella data da legami di sangue sia quella di stampo mafioso, è rappresentata come luogo di detenzione in cui le istituzioni sembrano a volte incapaci e a volte impossibilitate a proteggere le donne maltrattate, isolate, abusate.
Luoghi di paura in cui pare difficile per le donne non solo opporsi, alzar la testa, ma anche difendersi, schiacciate come sono non solo dalla forza bruta, ma anche da ricatti di ogni tipo.

La presa di coscienza da parte delle donne, la voglia di ribellarsi e di cambiare lo status quo è un processo doloroso e pericoloso anche per chi sta loro accanto.

È comunque possibile: “La paura della violenza maschile ci ricorda costantemente di non essere persone e che gli uomini hanno ancora il potere di porre limiti e restrizioni alle nostre vite. […] Il patriarcato […] è per sua natura insostenibile: è impossibile sorvegliare un altro essere umano in ogni istante di ogni giorno; non è possibile controllare cosa (o chi) una donna desideri. Non si può possedere una risorsa che si trova nel corpo di un altro – come il sesso e la riproduzione. E se solo le donne comprendessero quanto fragile sia il dominio maschile, tutto potrebbe cambiare” – da Il mostruoso femminile. Il patriarcato e la paura delle donne, un saggio del 2021 che indaga sulle origini del patriarcato, di Jude Ellison Sady Doyle.

Ultimamente, la violenza di genere è argomento molto presente nella sale cinematografiche, basti pensare che uno dei film che ha sbancato il botteghino lo scorso anno, trattava proprio di questo: C’è ancora domani – opera prima come regista di Paola Cortellesi. È la storia di Delia che, nella Roma della seconda metà degli anni Quaranta, è intrappolata nel ruolo di moglie devota e madre instancabile.

Al di là di qualche stereotipo, il film della Cortellesi ha il pregio di rappresentare il marito violento per quello che è: non un mostro, ma un tipo scarsamente intelligente, vittima egli stesso d’uno schema/sistema decisamente patriarcale. Non solo, la pellicola evidenzia come la violenza si manifesti non solo con calci, pugni e schiaffi, ma in molti altri modi: zittire le donne o ignorarne l’opinione, impedirne l’accesso agli studi o al lavoro, oppure, una volta entrate nel mondo del lavoro, umiliarle con uno stipendio più basso a parità di mansioni rispetto al collega maschio e, in ambito domestico, addossare sulle loro spalle tutto il lavoro di cura della casa e dei familiari.
E pazienza per gli stereotipi cui facevo cenno prima e anche per certi personaggi tagliati un po’ con l’accetta: se questo è il prezzo da pagare perché cinque milioni e mezzo di spettatori nel solo 2023 hanno riempito le sale cinematografiche, lo si paga volentieri, e lo dico per mille motivi, uno su tutti che, volenti o nolenti, in milioni di case italiane s’è dovuto affrontare in qualche modo l’argomento patriarcato, termine ancora sconosciuto ai più. Il film, inoltre, è stato venduto in centoventisei paesi, in alcuni dei quali raramente esce in sala un film italiano – Cina, Corea del Sud e Hong Kong –, sarà sugli schermi USA a novembre di quest’anno e, successivamente, verrà proiettato in Canada.

Il periodo storico in cui si svolge C’è ancora domani, gli anni in cui s’è provato a ricostruire l’Italia sulle macerie del fascismo, mi fa venire in mente un altro aspetto dolorosamente attuale in Familia: il giovane Luigi, senza una guida paterna e in aperto contrasto con la figura della madre, subisce fortemente la fascinazione degli ambienti neofascisti; stessa situazione è molto ben rappresentata anche in Caracas, film di Marco D’amore del 2022 incentrato sulla figura di un affermato scrittore napoletano che, ritornato a casa dopo molti anni, ritrova il suo vecchio amico Caracas il quale, lasciatosi alle spalle il suo passato da naziskin, si sta incredibilmente convertendo all’Islam.

In entrambi i film, sono terribili le scene di questi gruppi di ragazzi, tipicamente rappresentati con la testa rasata e il corpo pieno di tatuaggi che, con “boschi di braccia tese”, inneggiano al Duce strillando slogan con tale convinzione e veemenza da non lasciare indifferenti.

In cerca di protezione, fratellanza e di un’identità, questi giovani restano invischiati in un sistema violento e intollerante nei confronti del diverso, con cui impareranno a convivere; il cosiddetto “vuoto pneumatico” con cui si indica l’inesistenza di contenuti, attribuito spesso ai nostri ragazzi, non rimane così in eterno: se non viene riempito da un interesse, un lavoro, un sentimento, certe idee piuttosto semplici, una facile distinzione tra “noi buoni” e “altri cattivi” può facilmente far presa sulla gioventù, e si possono prendere strade da cui poi è difficile discostarsi: “È per esempio molto ingiusto dire che il fascismo annienta il pensiero libero; in realtà è l’assenza di pensiero libero che rende possibile l’imposizione con la forza di dottrine ufficiali del tutto sprovviste di significato” – da Sulla Germania totalitaria di Simone Weil.

La violenza è un argomento difficile da trattare. Spesso ho riscontrato una sorta d’insofferenza nel vedere rappresentate storie di donne vittime di abusi da parte di padri, mariti o figli, ma il fatto che un film come quello della Cortellesi sia riuscito a battere al botteghino anche produzioni Marvel, sinceramente mi dà speranza e mi conferma l’idea che, se si trova il modo giusto di comunicare, le persone sono disponibili ad ascoltare, e se un film non può cambiare la società può forse darne una rappresentazione che aiuti le persone a meglio comprenderla.

Credo si sia capito: io tifo per il cinema. E so di non essere la sola. A questo proposito, ho un ricordo bellissimo, il mio incontro con un altro tifoso del cinema: anni fa sono stata ospite nella casa romana del regista Giuliano Montaldo e di sua moglie Vera Pescarolo, e avevo con me una vecchia locandina di un suo famoso film, Sacco e Vanzetti e gli chiesi un autografo. Mi scrisse “A Roberta. W il Cinema”. Altro da dire non ho, se non che la locandina l’ho fatta incorniciare e fa bella mostra di sé nell’ingresso di casa mia.

Condividi questo contenuto...

Lascia un commento