Nel mare delle opinioni variegate in merito alla vittoria di Trump nelle elezioni del 5 novembre non molte hanno riguardato le possibili conseguenze per i lavoratori col suo ritorno alla presidenza.
Il senatore socialista indipendente Bernie Sanders, rieletto per la quarta volta, ha affermato che “non dovrebbe sorprendere troppo che un Partito Democratico che ha abbandonato la classe lavoratrice scopra ora che è stato a sua volta abbandonato dalla classe lavoratrice. Prima lo ha fatto la classe lavoratrice bianca, e ora anche i lavoratori latini e neri. Mentre la leadership democratica difende lo status quo, il popolo americano è arrabbiato e vuole un cambiamento. E ha ragione! I grandi interessi economici e i consulenti ben pagati che controllano il Partito Democratico impareranno qualche vera lezione dalla sua disastrosa campagna?”.
Sanders da anni è un paladino di politiche a sostegno dei lavoratori: dalla richiesta di un salario minimo orario di almeno 15 dollari, all’assistenza sanitaria garantita a tutti, al miglioramento dei diritti sindacali. Ed aveva spinto per l’appoggio alle vertenze sindacali da parte dell’Amministrazione Biden, che è intervenuta una sola volta in negativo, nel dicembre 2022, sul contratto dei ferrovieri, a cui aveva imposto una conclusione insufficiente. Inoltre non aveva portato a compimento la legge Protecting the Right to Organize (Pro Act), congelata in Parlamento da anni, che avrebbe potuto dare una grande mano alla sindacalizzazione.
La piattaforma economica di Kamala Harris invece prevedeva solamente un credito d’imposta per i figli di 6.000 dollari e un acconto per l’acquisto della casa di 25.000 dollari. Ciò che evidentemente non rappresentava un vero e proprio piano economico che affrontasse le emergenze popolari, quali i salari da fame, le retribuzioni mangiate dall’inflazione, i milioni di senza casa, le carenze del sistema sanitario che lasciano almeno 50 milioni di statunitensi senza assistenza sanitaria, ecc. Mentre prevedeva la diminuzione dell’aliquota di imposta sulle plusvalenze e il rifiuto di aumentare le imposte sui ricchi e sulle società, che in questi ultimi anni hanno incamerato profitti astronomici, portando ad una sperequazione della ricchezza tale che l’1% delle famiglie statunitensi detiene il 27% dei patrimoni.
In realtà, lo spazio per proporre e attuare una politica a favore del popolo c’era: quando Trump in campagna elettorale ha organizzato uno spettacolino cucinando le patatine fritte in un ristorante McDonald’s, si è rifiutato di dire ai giornalisti che avrebbe sostenuto anche il più piccolo aumento del salario minimo della nazione che è ancora di 7,50 dollari all’ora. Ora Trump rientrerà alla Casa Bianca con l’agenda Project 2025, scritta da Heritage Foundation, la quale prevede, in tema di lavoro, un’ulteriore sua individualizzazione, riducendo o cancellando anche le, già difficili, possibilità di sindacalizzazione con la proposta di abbattere le funzioni dell’agenzia federale National Labor Relations Board (NLRB), che negli anni della presidenza Biden è quasi sempre intervenuta contro le politiche antisindacali del padronato.
Nella stessa giornata delle elezioni, presidenziale e dei due rami del Parlamento, si sono svolti anche numerosi referendum nei singoli Stati dell’Unione, che hanno visto soprattutto risultati positivi per il mondo del lavoro.
Ciò che potrebbe appunto significare che la gran parte del popolo è conscia dei propri interessi, e li sostiene, se li si vede proposti con nettezza.
Il salario minimo previsto a livello federale statunitense è ancora di 7,25 dollari all’ora, non è legato all’inflazione e non è stato aumentato dal 2009. La campagna nazionale per i 15 dollari all’ora, iniziata dallo sciopero del 2012 nei fast food di New York, aveva già portato un aumento a 26 milioni di lavoratori. Ora, anche in altri 3 Stati, a voto di maggioranza repubblicano (Missouri, Alaska e Nebraska), il salario minimo sarà portato di 15 dollari. Negli ultimi due di essi, è passato anche un referendum per istituire permessi retribuiti per i lavoratori per prendersi cura di se stessi e delle loro famiglie.
Inoltre, col successo di altri referendum, sono passate alcune norme che aumentano le possibilità di contrattazione collettiva: in Alaska si è vietato d’imporre ai lavoratori, che hanno raccolto il necessario 30% per arrivare a un voto di sindacalizzazione del proprio posto di lavoro, di assistere alle famigerate riunioni anti-sindacali imposte dal padronato, affidate ad aziende specializzate in union busting (contrasto della sindacalizzazione). In Colorado, la contrattazione collettiva è stata estesa a 7.000 lavoratori municipali a cui era finora vietata. A New Orleans (Louisiana), gli elettori hanno approvato l’emendamento Workers Bill of Rights allo Statuto della città che prevede salari equi, congedo retribuito, assistenza sanitaria e il diritto di sindacalizzarsi. L’emendamento approvato ha purtroppo solo un significato politico in quanto le leggi dello Stato, come in genere quelle che si chiarmano paradossalmente di “diritto al lavoro”, vigenti in quasi tutti gli Stati amministrati dai Repubblicani, annullano automaticamente le ordinanze locali sui diritti del lavoro, impedendole di stabilire a livello cittadino diritti dei lavoratori non voluti dal padronato.
Infine, un’iniziativa nazionale, l’Abolish Slavery National Network, ha sostenuto i diritti fondamentali per la forza lavoro incarcerata. Le Costituzioni di molti Stati dell’Unione mantengono infatti la possibilità del lavoro forzato a basso salario (o, in alcuni casi, non retribuito) nelle carceri, poichè il tredicesimo emendamento della Costituzione federale proibisce la schiavitù e la servitù involontaria se non come punizione per un crimine. Il 5 novembre sia la California che il Nevada hanno approvato misure di voto per rimuovere le norme delle loro Costituzioni statali che consentono quella che è una vera e propria schiavitù come punizione per un crimine.
Le suddette vittorie di varie iniziative proposte da Sindacati e Associazioni (così come altre vittorie referendarie in alcuni Stati sul tema della scelta delle donne in tema di aborto) possono essere la premessa per la dura lotta per il mantenimento, e magari per l’estensione, dei diritti civili e sociali, che sarà necessario attivare nei prossimi mesi negli Stati Uniti contro le politiche della nuova amministrazione Trump.
Fonte principale:
T. Rowden, M. Gruenberg e J. Wojcik, Voters back pro-worker and abortion rights measures across the country, People’s World, 8.11
Immagine di copertina: Strike May Day 2017 in New York City (Wikimedia Commons)