Bologna 1980. «La bomba, per me, scoppiò la sera»

di Luca Baiada

Come titolo, Cento milioni per testa di morto, pubblicato nel 1989, fa pensare a un western. La veste tipografica è orrenda: imprecisa, disadorna. La carta sembra da razionamento: quasi da pacchi, tagliata male, e sa di polvere. La stampa è cattiva. La prosa è appesantita da ripetizioni e pignolerie. La punteggiatura è confusa (qui, nelle citazioni, l’ho modificata). Quanto al marchio editoriale, da trent’anni non pubblica nulla. Però.

Un libro formidabile. Il contrasto tra la forma scadente e la sostanza aurea insegna cosa conta davvero.

L’autore, Torquato Secci, durante la guerra mondiale torna dalla Grecia e si arruola nel Corpo italiano di Liberazione. Poi lavora come perito industriale. Il 2 agosto 1980, nella strage di Bologna, perde il figlio Sergio, ventiquattro anni.

È un uomo, un padre: «La bomba, per me, scoppiò la sera di quel tragico giorno al ritorno a casa da una passeggiata». La notizia che il figlio è fra le vittime si mischia ai primi commenti, al comportamento della città, alle reazioni. Sergio è ferito in modo spaventoso; morirà dopo qualche giorno. Il padre non nasconde la debolezza iniziale:

Non potevo credere ai miei occhi, la visione era talmente brutale e agghiacciante che mi lasciò senza fiato. […] Sergio, malgrado stesse a occhi chiusi a causa delle gravi ustioni, aveva riconosciuto la mia voce, aveva capito che ero lì, quindi malgrado la gravità del suo stato era cosciente di ciò che era accaduto, di ciò che stava accadendo, e realisticamente non nutriva alcuna speranza di salvarsi. […] Dopo averlo visto me ne uscii precipitosamente dal reparto rianimazione, come se volessi fuggire per allontanarmi da un pericolo.

Torquato Secci, che voleva fuggire, invece si impegnerà, diventerà presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime, pubblicherà questo volume dopo la sentenza di primo grado del processo. Adesso seguiamolo in un segmento narrativo che ha la forza di certi racconti dell’occupazione nazifascista. Indimenticabile, la bambina muta nel film L’uomo che verrà, col suo andirivieni nella terra della morte:

Dopo aver vagato a lungo per le strade che corrono intorno all’ospedale a un certo momento mi trovai a fianco un giovane che silenziosamente mi seguiva. Allora incominciai a parlare, a raccontare di mio figlio, delle sue condizioni, delle sue menomazioni, del suo stato d’animo e delle mie certezze che tutto si sarebbe concluso ancor più tragicamente. Lui seguendomi nel peregrinare mi ascoltò a lungo, ogni tanto cercava di dirmi qualche cosa, ma io non capivo le sue parole e non mi importava di non capirle. […] Stanchi di camminare ci sedemmo sul ciglio di pietra di un marciapiede e lì continuai a lungo il mio soliloquio, ogni tanto interrotto da un momento di commozione più intensa dovuta a un ricordo più caro. Era tardi, ci salutammo.

Il giovane misterioso è un personaggio liminare, affacciato sulla soglia fra l’impossibile e la realtà: un doppio del figlio? un’ombra venuta da non si sa dove? o semplicemente uno dei tanti bolognesi che vollero portare solidarietà come potevano, anche solo con un po’ di compagnia, di umanità? L’episodio va preso così com’è, col suo tesoro di senso e nonsenso, senza pretese.

Secci è ancora più sincero e forte quando ci si offre con l’interrogativo del superstite:

Mi sentivo in colpa, la colpa di non aver saputo difendere Sergio dalle avversità della vita che ora avevano finito per travolgerlo. Non ero stato un padre capace di difendere la mia creatura dall’attacco mortale che gli era venuto da una società in cui gli egoismi, la difesa dei privilegi e la lotta per assicurarsene una parte sempre più grande era ancora e rimaneva il motore principale delle azioni di coloro che avevano in mano il potere. Mi sentivo impotente e avevo chiara, evidente la misura delle mie modestissime possibilità. Avevo lottato, con notevoli sacrifici nel corso della mia vita, per ideali altruistici, per imporre almeno un limite agli egoismi e ai privilegi. La strada era ancora tanto lunga, seminata di tanto dolore e di tanto pianto, ma non era stata ancora percorsa tutta.

Insomma, senso di colpa. Ingiustificato, ovvio. Come al solito, a portarne il peso sono i migliori, gli onesti: gli innocenti. Le carogne non hanno scrupoli. Ma è un senso di colpa che non invischia, non imprigiona: presto è affiancato dalla consapevolezza delle cause storiche e sociali del lutto, per essere affrontato collettivamente e concretamente. Subito la narrazione si allarga: attivismo cittadino, soccorsi, energie.

E subito comincia la critica alle autorità, perché lo stragismo, fascista e addomesticato agli interessi padronali, nel 1980 miete vittime già da oltre dieci anni, impunito. Ai funerali ufficiali ci sono poche salme perché 68 famiglie le portano via prima:

I familiari di queste vittime si erano rifiutati di partecipare alla cerimonia comune, di attendere i discorsi ufficiali, le bandiere e tutta quella liturgia che ormai già per troppe volte aveva accompagnato fatti di questo genere. Erano le prime avvisaglie di una riservata e silenziosa contestazione che non aveva nulla di emozionale ma che si radicava in una seria e meditata mancanza di fiducia nei vari organi dello Stato. Lo Stato non era stato capace di difenderli contro la violenza, di conseguenza non aveva il diritto di curarsi di loro, dopo morti.

Ed è chiaro che l’impunità del prima è la migliore garanzia per ciò che accade dopo:

Le stragi che avevano preceduto quella di Bologna avevano insegnato come fosse facile per terroristi, spioni, servizi di sicurezza, personaggi con responsabilità accertate, ottenere l’impunità giudiziaria. Queste protezioni avrebbero raggiunto anche lo scopo di permettere la continuazione e il rafforzamento di quel tipo di terrorismo.

La continuazione non è solo ripetizione; siamo di fronte a una diversa versione della continuità, quella dello Stato italiano – burocrazia, personale in divisa, magistratura – , tra fascismo e democrazia: in fondo, è un altro volto della continuità studiata da Claudio Pavone. E infatti, nella strage di Bologna si sente l’eco dell’occupazione del paese, del collaborazionismo, di Salò. Il crimine, del resto, come altre stragi degli anni Settanta e Ottanta, e come la più grave delle stragi nazifasciste in guerra, quella di Monte Sole, colpisce sulla direttrice che unisce la Valle Padana all’Italia centro-meridionale: si mira anche all’Unità d’Italia, nelle pieghe del bersaglio c’è il Risorgimento.

L’esigenza di giustizia è senza compromessi; Secci non cede a retoriche intimiste. Non ci sono neanche surrogati riparazionisti, come quelli che dal 2008, con la connivenza di governi, autorità, storici famosi, hanno ostacolato i risarcimenti delle stragi nazifasciste commesse dal 1943 al 1945:

Il perdono può essere del singolo, in quanto sentimento privato chiuso nella coscienza di ognuno e quindi non giudicabile dall’esterno. Ma quando la collettività viene offesa con orrendi delitti come le stragi indiscriminate, non può perdonare finché sussistono i motivi di condanna, in quanto deve difendere la sua propria essenza[1].

Severissima, Anna Maria Montani: ha perso la madre e non accetta il risarcimento offerto dallo Stato. «“Cento milioni per testa di morto”, secondo il decreto del governo. “Non li voglio. Li sento sporchi di sangue. Se quelli vogliono fare qualcosa cerchino chi ha ammazzato”»[2]. Proprio lei accetta i funerali di Stato, sì, ma solo come occasione per dire basta alle autorità, e in chiesa non stringe neanche la mano del presidente Sandro Pertini.

L’unione fa la forza. Oltre all’Associazione tra i familiari del 2 agosto, nel 1983 nasce l’Unione dei familiari delle vittime di stragi, che riguarda le stragi fasciste, compresa quella di Bologna. Il gruppo incontra difficoltà:

Cozzammo contro ostacoli insormontabili di miopia politica, di settarismo, di scetticismo, di sfiducia nei risultati, ma non ci lasciammo convincere e non ci lasciammo fermare, li superammo tutti pensando che le stragi avevano molte cose in comune e che perciò ciascuno di noi, chiedendo giustizia per sé, l’avrebbe chiesta per tutti.

Fra gli scopi dell’Unione c’è una modifica legislativa per vietare il segreto di Stato sulle stragi (e una proposta simile era già nel primo programma dell’Associazione). Così ad Arezzo, al convegno La vicenda della P2: poteri occulti e Stato democratico, Secci incontra il magistrato Marco Ramat, che prepara una bozza di intervento sulla legge 801 del 1977. Le idee sono chiare:

Il segreto di Stato nei processi per strage aveva sempre fermato i giudici nel corso delle loro indagini, pensavamo che al processo di Bologna sarebbe accaduta la medesima cosa, occorreva quindi prevenire questa eventualità. […] Non permettendo più il segreto, l’impunità, per questo crimine, cadeva e coloro che avevano pensato ed eseguito la strage sarebbero stati perseguiti senza ostacoli dalla giustizia[3].

Raccolgono le firme. Ci sono promesse di aiuto non mantenute; li riceve il presidente del Senato, Francesco Cossiga, e anche lui promette. Consegnano la proposta il 25 luglio 1984 e la data non è casuale: «Il 25 luglio era caduto il fascismo, il 25 luglio 1984 speravamo che cadesse il segreto di Stato per le stragi».

Secci non vedrà la limitazione del segreto di Stato, che sarà legge nel 2007, durante il secondo governo Prodi. C’è chi semina perché altri raccolgano.

Il comportamento di alte autorità, compresi nomi considerati affidabili, è un misto desolante di disattenzione, pochezza o peggio. L’Associazione sollecita invano la discussione di interpellanze alla Camera; quindi, a marzo 1983, manda un telegramma alla presidente, Nilde Iotti:

Familiari vittime strage Bologna ritengono offensivo, mortificante e antidemocratico comportamento Camera da Lei presieduta che dal mese di luglio 1981 malgrado insistenti solleciti non ha trovato il tempo necessario alla discussione di cinque interpellanze sulla strage mentre per Sua decisione si giunge a programmare anche prossime sedute straordinarie notturne per svolgere discussione relativa al ritorno in Italia del signor Umberto Savoia[4].

La presidente è da una vita una dirigente del Pci e ha fatto parte della Costituente; però la strage fascista aspetta e si discute su un passo indietro rispetto alla Costituzione (e quanta dignità, in quel «signor» Savoia).

Le vittime scrivono più volte a Oscar Luigi Scalfaro, allora ministro e in seguito presidente della Repubblica. Hanno buoni motivi: «In più di un’intervista Scalfaro, allora ministro degli interni, aveva fatto comprendere che le stragi non derivavano dalla deviazione dei servizi segreti ma dalle deviazioni del potere politico»[5]; però non c’è risposta. Gli scrivono ancora:

In un articolo del 30 gennaio [1988] Lei scrive di «colpevoli silenzi di fronte alla turbativa della verità sul terrorismo». A noi non risulta che Lei abbia ancora riferito ad alcun giudice quanto disse di sapere e di ciò La riteniamo gravemente colpevole. Noi pensiamo che chi conosce certe verità e non le denuncia favorisce il permanere del terrorismo e il ripetersi delle stragi. Per questa ragione l’Associazione Le rinnova l’invito a riferire alla magistratura tutto quanto è a Sua conoscenza che possa contribuire all’accertamento della verità, sulle trame eversive che si sono abbattute sulla democrazia nel nostro paese[6].

Neanche stavolta, Scalfaro risponde.

La correttezza è notevole. Per esempio, Secci, quando riceve lettere da un imputato della strage, le consegna agli avvocati di parte civile perché le diano ai magistrati. Le virtù non sono apprezzate, anzi:

La nostra richiesta di giustizia e verità era martellante e continua e a un certo momento per ostacolarla si cominciò a dire che coloro che chiedevano incessantemente giustizia erano dei «caini»[7].

Forse non c’è da stupirsi. Pochi anni fa, quando le vittime delle stragi belliche hanno chiesto giustizia, qualcuno ha accennato a imprecisati «sciacalli del dolore che fomentano superstiti e familiari nella richiesta risarcitoria»[8].

Naturalmente si fanno avanti possessori di verità. Nel 1983 Secci è avvicinato da un uomo che dice di essere un agente di un servizio segreto straniero e un giornalista; sostiene che a Bologna è stato usato un esplosivo speciale, piccolo come una moneta.

Sia singolarmente sia come Associazione, Secci pubblica sui giornali annunci a pagamento con frasi come «Sergio Secci – Morto in un giorno di sole / per una bomba incosciente. / Ma vive d’insana follia / chi mi ha negato il presente»; oppure «La giustizia senza forza è impotente, la forza senza giustizia è tirannia» (sono parole di Pascal); o ancora «Strage di Bologna 2 agosto 1980. Chi copre i terroristi è un terrorista». In seguito le pubblicazioni vengono rifiutate e le rimostranze non hanno risposta. Nel 1986 è «la Repubblica», dopo aver incassato il prezzo, a rifiutare la pubblicazione di: «Strage di Bologna. Sergio Secci, anni 24. Chi ha deciso di ammazzarlo?»; la domanda è elementare ma il quotidiano restituisce il denaro. Caparbio, il volume mostra la ricevuta.

Il processo e ciò che gli accade intorno svelano un abisso fra due Italie. Davanti alla Corte compare Francesco Pazienza:

Per ogni fatto cercava e tirava fuori dalla sua capace borsa un foglio, un documento che secondo lui lo scagionava. Pazienza chiamava sempre in causa personaggi importanti per darsi importanza, per influenzare favorevolmente la Corte. Con il suo mellifluo comportamento cercava di entrare nelle grazie di tutti[9].

Il name-dropping è tipico degli ambienti striscianti, del sottobosco che vuole emergere. Secci ha altre radici, le sue parole sanno di pulito e di necessario come il sapone:

L’operato di Francesco Pazienza da quanto è risultato dalle indagini giudiziarie e confermato da sentenze non è sostenuto da ideologia. È un soggetto partorito da una cultura intrisa di falso perbenismo, di massoneria, di affarismo e di costante ricerca di privilegi a danno degli altri, non lo hanno mosso né idee politiche né il dovere che incombe sul militare, ma ha agito solo per denaro e quindi non è altro che un «terrorista mercenario»[10].

Quando sfilano come testimoni i feriti c’è qualche amarezza:

Alla domanda rivolta dal presidente ai feriti se dopo sette anni erano guariti, rispondevano tutti affermativamente, anche quelli che portavano ancora evidenti i segni delle lesioni subite; perché vergognarsi di essere vittime?.

Già, perché? La coscienza retta di Secci si tormenta.

Quando poi è respinta un’istanza di libertà provvisoria del fascista Paolo Signorelli, e la difesa protesta, c’è una lettera degli avvocati di parte civile al presidente della Corte, ben precisa:

Appare chiaro che l’intolleranza verso la parte civile, che è una parte processuale che sta legittimamente esercitando il proprio diritto nel processo, così come manifestata dall’avv. Bordoni [difensore di Paolo Signorelli] è del tutto fuori luogo. […] Il processo fino ad ora si è svolto con un rispetto delle garanzie processuali degli imputati particolarmente accentuato, mai contrastato dalle parti civili[11].

Anche considerando il modo in cui le parti civili sono state trattate nei processi sulle stragi belliche, a partire dal primo caso in cui la Germania è stata chiamata in causa in sede penale per i risarcimenti, cioè dal processo del 2006 sulla strage di Civitella, si sente quanto vale la presenza di una parte civile risoluta[12].

Sempre al processo su Bologna, nel 1987, depongono anche pentiti e fascisti estranei al crimine ma al corrente di elementi utili; fra loro Angelo Izzo, colpevole del delitto del Circeo del 1975:

Detenuto per un orrendo crimine comune, molto intimo in carcere degli elementi di destra, tanto da raccoglierne le confidenze. Confermò e ampliò i suoi precedenti interrogatori, sgomberando il terreno da ogni dubbio sulla veridicità delle sue affermazioni[13].

A ciascuno il suo. Da una parte le vittime che si organizzano, col perito industriale Secci che sente le sue «modestissime possibilità» ma mette in pratica i suoi ideali contro egoismi e privilegi; dall’altra i conciliaboli fra uno stupratore assassino e i fascisti, che in carcere fanno comunella perché annusano a vicenda i loro trascorsi.

Se a fiutare aria cattiva sono le vittime, invece, si tirano indietro, a costo di rinunciare al palcoscenico. Nel 1985 sono invitate in televisione da Maurizio Costanzo e rifiutano:

Non abbiamo ritenuto di dover discutere del crimine della strage del 2 Agosto con il signor Costanzo, membro di quella Loggia P2 che dallo stesso Parlamento viene indicata come il centro occulto «che svolse opera di istigazione agli attentati» che hanno insanguinato il paese e che può ritenersi «in termini storico-politici gravemente coinvolta anche nella strage dell’Italicus quale essenziale retroterra economico, organizzativo e morale»[14].

Il 16 aprile 1988 – dopo la requisitoria del pubblico ministero al processo, e prima delle arringhe delle difese – a Firenze c’è il convegno Massoneria e architettura, in cui il gran maestro Armando Corona esclude o minimizza le colpe di Licio Gelli. L’Associazione prende posizione:

Contrariamente a quanto da Lei affermato in merito all’estraneità, negli attentati e nelle stragi, di Licio Gelli, La informo che dai documenti riportati nella relazione della Commissione di inchiesta sulla Loggia P2 risulta che tale Loggia, dallo stesso Parlamento, viene indicata come il centro occulto che svolse opera di istigazione agli attentati che hanno insanguinato l’Italia, e che può ritenersi in termini storico-politici gravemente coinvolta nella strage dell’Italicus quale essenziale retroterra economico, organizzativo e morale. Recenti condanne confermano questo giudizio[15].

Magnifico per la fermezza contro tutte le ipocrisie, Cento milioni per testa di morto merita di essere riconsiderato, adesso che una nuova sentenza ha ribadito le colpe della P2, di fascisti e di livelli dello Stato nel massacro. Tutto ciò, a proposito di piduisti, tenendo presente che Secci ha fatto in tempo a vedere al governo il più ricco e potente di loro: un nome che oggi è un punto di riferimento per chi è al potere.

All’infinita autostima di Berlusconi, alla sua immagine smodata anche nell’età avanzata e nella morte, va contrapposta una cosa accaduta a Bologna, subito dopo l’eccidio:

Il numero dei morti si profilava talmente alto che si pensò subito di trasportarli all’obitorio con un autobus; la cosa sembrò straordinaria, fuori dalla realtà, ma poi risultò pratica e a tale scopo si adeguò l’autobus n. 4.030 della linea 37. I vetri erano stati internamente coperti da lenzuola, sul pavimento era stata gettata della segatura.

Il mezzo pubblico è adattato a un uso anomalo, con l’aiuto dei lavoratori. Dentro l’episodio ci sono un’intercambiabilità apparente di morte e vita (quella di chi usa i mezzi pubblici) e, più in profondità, un timbro che Aldo Capitini avrebbe chiamato compresenza dei morti e dei viventi. L’autobus della linea 37 che va dalla stazione all’obitorio, segnando la città, è un ultimo taglio e una prima sutura, una linea d’ombra: la comunità si prende carico, si muove, anche forzando le regole. Intanto le ricostruisce: chi era alla stazione usava un mezzo pubblico, e con un mezzo pubblico, insieme agli altri, si avvia per l’ultima volta. Proprio Capitini, vertiginoso, scrive: «Perché come si potrà apprezzare la liberazione se non saranno con noi anche i morti a festeggiare?»[16].

[1] Torquato Secci, Cento milioni per testa di morto. Bologna 2 agosto 1980, Targa Italiana Editore, Milano 1989, p. 144.

[2] Ivi, p. 50.

[3] Ivi, p. 104.

[4] Ivi, p. 102.

[5] Ivi, p. 142.

[6] Ivi, p. 158.

[7] Ivi, p. 120.

[8] Sono parole di Marco De Paolis, procuratore generale militare in appello, lanazione.it.

[9] Secci, Cento milioni per testa di morto, cit., p. 146.

[10] Ivi, p. 154.

[11] Ivi, pp. 148-149.

[12] Mi permetto di rinviare a Luca Baiada, La sentenza della Corte costituzionale del 2014, la giurisprudenza italiana e una storia aperta, in Luca Baiada, Elena Carpanelli, Aaron Lau, Joachim Lau, Tullio Scovazzi, La giustizia civile italiana nei confronti di Stati esteri per il risarcimento dei crimini di guerra e contro l’umanità, Editoriale Scientifica, Napoli 2023, pp. 106-108.

[13] Secci, Cento milioni per testa di morto, cit., p. 157.

[14] Ivi, pp. 124-125.

[15] Ivi, p. 160.

[16] Aldo Capitini, La compresenza dei morti e dei viventi, Il Ponte Editore, Firenze 2018, p. 225.

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