C’è una frase, uno slogan, in cui credo profondamente: “no era depresiòn, era capitalismo”. Non era depressione, era capitalismo. Una frase che mi ha fulminata quando ormai anni fa l’ho sentita per la prima volta, durante un dibattito di cui stavo facendo un report, che ha cambiato radicalmente la mia visione di ciò che già volevo fare – studiare per diventare psichiatra – ma anche, in qualche modo, del mondo stesso e della nostra vita in questo sistema capitalista. Questo slogan viene dalle proteste, partite dalla popolazione studentesca, che nel 2019 hanno sconvolto Santiago del Cile, e ci raccontano un concetto che è il sottotesto del saggio “Psicologia della resistenza. Di salute mentale, cambiamento e lotta”, edito da effequ.
Questo libro non è, a mio avviso, un semplice saggio, ma anche un bellissimo racconto di ciò che potrebbe essere la presa in carico della salute mentale: crea un immaginario, racconta la storia di una certa psicologia a partire dai personaggi che hanno fatto questa storia, ci fa emozionare e getta un seme di speranza, rimanendo pur sempre analitico ed approfondito. Questa è sicuramente la prima cosa per cui ho apprezzato molto l’opera di Gianpaolo Contestabile.
Un volumetto agile nella mole e nella scrittura, che in quattro parti va ad indagare, attraverso storie ed esempi, la relazione stretta tra capitalismo e salute mentale, e gli strumenti che nei decenni sono stati collettivamente elaborati per capovolgere e neutralizzare questa relazione, attraverso determinate esperienze, in particolare in Sud America.
Gianpaolo Contestabile, dottorando in Psicologia sociale a Città del Messico e co-fondatore della Brigata Basaglia, parte proprio dal concetto di psicologia della salute, nato a Cuba durante la Rivoluzione guidata da Guevara, quando gli psicologi cominciano a lavorare non solo negli studi e nei reparti di Psichiatria, ma anche nei quartieri, nei policlinici, dove l’approccio diventa di prevenzione. Con Psicologia della salute, quindi, “ci si riferisce a come la pratica psicologica possa aiutare a migliorare la prevenzione e la cura delle malattie, a capire quali fattori cognitivi, affettivi, comportamentali, sociali e culturali sono collegati alle varie patologie e ad analizzare e migliorare il sistema sanitario”.
Un importante dato per la lettura e l’analisi del nostro tempo e della nostra società è l’aumento delle malattie cronico-degenerative, che hanno soppiantato per epidemiologia le infezioni, un tempo patologie di gran lunga più frequenti e mortali. Ma per comprendere tutte le complesse sfaccettature di queste patologie, è necessario (e qui cito) “inserire la cartella clinica del paziente nella sua storia personale, e quest’ultima nella Storia”. Non basta più indagare semplici correlazioni causa-effetto, patogeno-malattia: le malattie cronico-degenerative sono una sfida per il nostro presente perché ci mettono di fronte alla necessità di valutare tutti quei determinanti sociali di malattia che invece sempre di più a livello sistemico vengono appiattiti e, soprattutto, ignorati. Ed è qui che anche la psicologia della salute dovrebbe venire in aiuto, nella prevenzione ma soprattutto nella creazione di un concetto sociale e collettivo di salute.
L’autore del saggio fa l’interessante lavoro di tracciare delle linee che colleghino i grandi problemi e temi del nostro mondo (la guerra, la crisi climatica, il lavoro, le migrazioni, etc) alla salute mentale, osservando come non sia tanto la psicologia a darci delle risposte in merito, quanto piuttosto un certo approccio a questa disciplina, libero, aperto, critico, che permetta di svelare ed evidenziare come spesso sia stata la psicologia in quanto scienza a rafforzare in senso negativo, a imbrigliare, queste linee, mettendosi al servizio del Capitale.
Nella seconda parte, ad esempio, “Dello sfruttamento”, disegna una linea retta tra le violenze e le situazioni degradanti che vivono i migranti nei CPR e la psicologia del lavoro, quella branca della psicologia che si occupa, di fatto, di rendere i dipendenti più efficienti nel loro lavoro. Da un lato, l’utilizzo di una distorsione della psicologia per plasmare sedandole le persone migranti, emarginate nei CPR ed in qualche modo nascoste dalle città, messe a tacere da psicofarmaci. Dall’altra, corpi e menti di lavoratori sfruttati, in uno scenario in cui il conflitto di classe viene appiattito anche e soprattutto con gli stessi mezzi della psicologia del lavoro, il cui scopo è cancellare ed efficientare quella sofferenza mentale che invece dovrebbe essere proprio segno di questo conflitto di classe. La psicologia del lavoro insegna a subordinare la salute mentale dei dipendenti al bilancio di un’azienda, sempre più anche con l’aiuto dell’automazione e degli algoritmi dell’intelligenza artificiale. Un compito ben diverso, insomma, dal lavoro di analisi di Basaglia e non solo, che partiva dalla domanda “se non ci fosse più la miseria, la psichiatria esisterebbe?”
Questa modalità di “riparazione” del disagio mentale è tema anche della terza parte “Della catastrofe”, in cui vengono riportate le parole di Franca Ongaro Basaglia, in riferimento al modello medico egemonico: “un’organizzazione dell’assistenza ospedaliera tutta incentrata sulla “riparazione”, atta a confermare e a trattare la malattia come semplice fenomeno naturale, non potendo interferire nel processo storico-sociale che la produce”. Ancora una volta, quindi, il pensiero dominante ci porta a pensare che una terapia risolverà tutti i nostri problemi, con tecniche di mindfulness che ci promettono di risolvere lo stress, nonostante il contesto politico ed economico in cui viviamo, e lasciandolo intaccato nel momento in cui si va ad ignorare l’aspetto sociale della sofferenza psicologica.
E da qui non può che derivare un automatismo sterile negli spazi di cura psicologica, in cui psicologi e psichiatri e in generale operatori della salute mentale diventano meri strumenti di “riparazione”, in cui la relazione tra individui e soprattutto con la società e le sue componenti viene annullata. Ricordo un aneddoto che mi aveva colpito particolarmente, raccontato da Piero Cipriano, lo psichiatra riluttante, in uno dei suoi libri. Raccontava di aver ricevuto un paziente che era stato portato dalle Forze dell’Ordine in Pronto Soccorso, e nel colloquio aveva capito che la persona per cui stavano richiedendo un TSO per accessi di rabbia molto aggressivi stava aspettando da mesi un pagamento per un lavoro che gli veniva continuamente rifiutato. La considerazione di Cipriano era che anche lui sarebbe stato arrabbiato, e si chiedeva perché mai avrebbe dovuto imbottirlo di farmaci in modo che si dimenticasse di una rabbia giusta e motivata. Credo che questo aneddoto molto semplice sia l’esemplificazione di un continuo scollamento tra pratica clinica e contesto sociale.
Alla luce di tutto ciò che Contestabile racconta nel suo libro, non posso fare a meno di giungere ad una domanda: è possibile portare avanti, in un mondo capitalista, una presa in carico sociale, politica, aperta, sincera, etica, della salute mentale, quando è proprio questo sistema di sfruttamento e oppressione che, come abbiamo visto e come ci insegna anche Franco Basaglia, che più mette alla prova il nostro benessere mentale e anche fisico? O invece, per abbracciare davvero l’idea di una psicologia della resistenza, è necessario non solo dichiararsi anticapitalisti, ma integrare in toto l’anticapitalismo nelle nostre pratiche cliniche? Per me è una domanda retorica, ma allo stesso tempo non si possono negare le difficoltà e le contraddizioni che si aprono a questo punto, contraddizioni che prepotenti emergono poi nelle esperienze, in primis quella cubana, in cui questo processo di lotta radicale è stato portato avanti.
Anche per l’autore di questo libro la risposta a questa domanda è chiara e semplice: “La militanza contro l’oppressione è una medicina sociale. Il lavoro di cura e la lotta per la liberazione sono inseparabili. La resistenza, anche quella armata, non è solo un diritto e un dovere, ma rappresenta anche un rimedio per la sofferenza degli oppressi”. Contestabile racconta, con esempi ed esperienze che vi lascio scoprire all’interno del suo libro, come questa militanza sia stata, nei contesti e nei tempi più disparati, possibile. Ed è così che, con tante domande e poche risposte, questo libro sicuramente ci porta alla consapevolezza di quanto l’occuparsi di salute mentale sia una delle sfide del nostro tempo, e ci chiama ad affrontarla in perenne ricerca e messa in discussione, con l’umiltà e la curiosità del “camminare domandando” zapatista.
Il libro verrà presentato a cura del Collettivo Critical Psychology il 5 dicembre alle h. 18 in Aula Multiuso al Polo di Psicologia, a Padova.