Quando centinaia di persone intonano “Occupiamola”, il coro simbolo della lotta degli operai di Gkn, al termine dell’assemblea nazionale No Ddl si percepisce nitidamente che si è di fronte a qualcosa di importante. Se fossimo amanti della cabala potremmo dire che quando l’Aula 3 della Sapienza straborda ci troviamo di fronte a momenti che – nel bene o nel male – hanno un impatto importante per i movimenti di questo Paese, segnando talvolta anche svolte storiche. Ma siamo materialisti e crediamo che l’assemblea del 16 novembre possa rappresentare un passaggio significativo solo se tiene fede agli obiettivi che si è prefissata: una manifestazione di massa a Roma il 14 dicembre e un momento di contestazione e blocco nei giorni in cui il Ddl Sicurezza approderà in aula. Partecipazione e conflitto: due termini che non possono essere slegati e che devono necessariamente nutrire qualsiasi percorso politico che ambisce a essere minimamente incisivo. Con questo primo appuntamento si sono create le condizioni per uno spazio plurale di possibilità, che in questo Paese mancava da troppo tempo.
È ormai chiaro a chiunque che il “ddl Sicurezza” a firma Crosetto, Nordio e Piantedosi è qualcosa di diverso rispetto agli ormai “soliti” decreti che negli ultimi anni hanno dato al concetto di sicurezza un connotato univoco: interpretare fenomeni sociali con l’unica lente del diritto penale. Anche la diversità giuridico-normativa alla base di questo testo, concepito come disegno di legge e non come decreto, sottolinea l’organicità di un intervento che si configura come un vero e proprio manifesto ideologico e politico del governo Meloni. Non si tratta solo dell’ennesimo giro di vite repressivo, ma di un progetto di disciplinamento che permea l’intero corpo sociale, fondendosi con una visione profondamente classista della società. La centralità attribuita al controllo e alla repressione non risponde unicamente a esigenze immediate di ordine pubblico, ma ambisce a ridefinire le relazioni sociali, consolidando un modello autoritario e gerarchico. La sola idea di attivarsi, o semplicemente di simpatizzare per le battaglie ambientali e sociali diventa penalmente nemica. Non solo, il governo, attraverso la paura, indica come criminale anche la compartecipazione etica all’azione illegale o presunta tale. Il vero obiettivo del Ddl è chiaro: non solo fermare il dissenso già esistente, ma prevenire e sopprimere quei segnali che potrebbero evolversi in una nuova spinta sociale e politica.
Questo intervento normativo è uno dei punti apicali di un ciclo reazionario che accompagna e alimenta la crisi della democrazia contemporanea. Come ha evidenziato Étienne Balibar, tale crisi non si manifesta solo come un indebolimento delle istituzioni, ma come un processo attivo di trasformazione che svuota le forme democratiche del loro contenuto sostanziale. Questa crisi, che investe soprattutto il terreno della rappresentanza politica, non coincide ovviamente con l’ascesa del governo Meloni. Ma è l’effetto di un processo di trasformazione del rapporto tra capitale e istituzioni statali che nei decenni ha svuotato lo Stato di diritto della sua funzione storica. In Italia, è bene ribadirlo, questo processo ha coinvolto in modo consapevole tutte le forze politiche che si sono alternate alla guida del Paese.
Allo stesso tempo è innegabile che ci troviamo di fronte a una cesura congiunturale. Il “vento di destra” che è soffiato alle elezioni europee di giugno e il mostruoso ibrido Trump-Musk alla Casa Bianca segnano una nuova fase di questo ciclo reazionario a livello globale. D’altronde non c’è da stupirsi se l’intero asse politico si sposta a destra in un’epoca storica segnata da una guerra che ha colonizzato tutta la sfera sociale e da una ristrutturazione capitalista che – dopo la crisi pandemica – ha reimposto con forza il modello di “crescita infinita” in un mondo segnato dalla fine della “natura a buon mercato”, per dirla con Jason W. Moore. Sul terreno della guerra, quello che sta accadendo in Palestina normalizza l’idea che uno Stato, pienamente inserito nel campo delle “democrazie occidentali”, possa agire in termini genocidiari per perseguire i propri interessi nazionali.
Sono anni che si discute se esista realmente un “ritorno dello Stato” nelle relazioni internazionali, se è giusto parlare di Imperi o di imperialismi. Una cosa è certa però: lo Stato sta implementando la sua capacità di operare una guerra interna contro segmenti della propria popolazione — classi subalterne, persone migranti, soggettività marginalizzate. Questa strategia non solo consolida assetti autoritari, ma abusa anche di una narrativa che giustifica l’erosione dei diritti proprio in nome della sicurezza. Se leggiamo inoltre questo Ddl insieme alla manovra di bilancio, ci si rende conto che questa guerra interna ha un chiaro connotato di classe, che trasforma le vittime della crisi sistemica in bersagli.
A fronte di questo quadro bisogna porsi delle domande: da dove veniamo e quale direzione vogliamo prendere? Questo interrogativo si lega alla necessità di assemblare e ricomporre le molteplici istanze emerse dai territori, provando realmente a trasformare l’indignazione diffusa in una forza organizzata. Le mobilitazioni delle scorse settimane, come ad esempio la manifestazione di Padova del 26 ottobre, rappresentano una risposta sociale spontanea e determinata: cinquemila persone in piazza in una città di provincia sono un segnale potente, un’indicazione di una potenzialità latente che deve continuare a essere alimentata e sviluppata. E come non guardare alla marea transfemminista, che ha invaso nuovamente le vie della Capitale per dire con forza che il governo Meloni è tra i principali alleati dell’oppressione di genere.
Osserviamo, inoltre, che esiste oggi una ricollocazione sul tema del Ddl di un fermento che è in atto già da tempo e che in particolare abbiamo visto con il risveglio politico che c’è stato nelle università nei mesi scorsi. Una ricollocazione che è tutta politica, proprio perché il Ddl sicurezza mira esplicitamente a entrare nelle maglie dell’attivazione potenziale, colpendola ab origine. Per questo motivo, il nostro compito non è solo difendere gli spazi di conflitto esistenti, ma anche allargarli e organizzarli.
Lo spazio pubblico, in questo senso, diventa non solo il luogo del confronto, ma una vera e propria conquista, specialmente in una fase in cui l’egemonia semantica è dominata dal pensiero reazionario. La battaglia per lo spazio pubblico è quindi una battaglia per ridare voce e visibilità a un’immaginazione politica alternativa, capace di rompere questa narrazione egemonica. L’assemblea di sabato 16 novembre è stata un atto politico di rilancio, mirato a riaffermare la centralità dell’assemblea come strumento fondamentale dei processi organizzativi collettivi e a ricucire una dialettica tra dimensione politica e sociale, senza inseguire logiche obsolete di alleanze fatte a tavolino. Ed è probabilmente questa una delle chiavi per dare allo spazio pubblico la forza politica di uno spazio di possibilità, capace non tanto di difendere una democrazia formale già pienamente in crisi, ma di reinventarne i contenuti materiali. E con essa dare forma a nuovi istituti di contro-potere che nascano dalla lotta di classe contemporanea.
La definizione di un obiettivo chiaro e condiviso, come la manifestazione del 14 dicembre, dà concretezza e direzione a questo percorso. Tale obiettivo può concretamente rappresentare un punto di convergenza per forze sociali e politiche che si oppongono al governo Meloni, ponendosi come la prima vera occasione per costruire un’opposizione di massa generalizzata sebbene organizzata.
Per funzionare realmente, questo processo deve ora essere capace di esercitare la spinta opposta, una forza centrifuga che sposta l’energia e l’azione dal centro verso i territori, in un processo di disseminazione e potenziamento che amplia lo spazio pubblico della possibilità. Questo significa moltiplicare luoghi di discussione, confronto e mobilitazione, creando reti capaci di durare nel tempo e di crescere in potenza.
In questo processo, la vera sfida è garantire la continuità delle relazioni e delle pratiche politiche, perché non possiamo permetterci che la frammentazione e l’isolamento siano il destino dei movimenti sociali. Il percorso che ci porta verso il 14 dicembre ha un obiettivo che si legge tra le righe: porsi come antidoto a questa dispersione, intendere lo spazio politico non come sintesi in vitro ma come ingranaggio di molteplicità, che non si esaurisca in un evento isolato, ma che si proietti nel tempo. La continuità e la tenuta diventano quindi essenziali per moltiplicare spazi di possibilità, mantenendo saldo il filo rosso che lega il politico al sociale, i territori alla dimensione nazionale (e non solo), il presente alle prospettive di lungo periodo.
Lo spazio politico per sua natura non è predeterminato, è la sostanza di quello che ci mettiamo che lo rende efficace o meno nel suo divenire. Di sicuro sappiamo che questa fase storica ci richiede coraggio e immaginazione. Viviamo nella consapevolezza che la battaglia contro il governo non rappresenta che l’orizzonte minimo e non sarà mai in grado, da sola, di creare una frattura di fase. Ma rappresenta in questo momento una condizione che possiamo percorrere e che può consentirci di affrontare una sfida ancora più ampia, quella della guerra globale, della crisi ecologica e di un mondo che sta affrontando probabilmente la più intensa e veloce trasformazione degli ultimi secoli. Ci vediamo in piazza il 14 dicembre!
Info partenze dal Nord-Est per la manifestazione nazionale del 14 dicembre
Padova: [email protected] / 3338186927
Schio: [email protected] / 3403015919
Vicenza: [email protected] / 3406562167
Venezia: [email protected] / 320 9147039
Trento: [email protected] / 3392838104
Treviso: [email protected] / 3298667371