Il protocollo Italia-Albania è un flop totale: sospeso di fatto alle prossime pronunce della Corte di Giustizia Europea (CGUE), anche Medihospes, la cooperativa che si è aggiudicata il bando da oltre 133 milioni di euro per gestire il CPR e l’hotspot italiani in Albania, richiama gran parte del suo personale in Italia. L’annuncio è di venerdì 22 novembre, a pochi giorni dall’uscita dell’inchiesta di Altreconomia[1] che ha rivelato come la Prefettura di Roma, a sei mesi dall’aggiudicazione dell’appalto, non avrebbe ancora firmato con Medihospes nessun contratto di gestione, superando di gran lunga il termine massimo di 60 giorni imposto dal codice degli appalti pubblici.
Non l’unica, ma l’ennesima irregolarità del protocollo Italia-Albania, contro cui si scagliano anche realtà, associazioni e individui delle rispettive società civili ora riunite nel Network Against Migrant Detention. Il Network ha indetto una manifestazione in Albania nelle giornate dell’1 e 2 dicembre per dare il colpo di grazia all’accordo, opporsi al modello di politiche che rappresenta ed esigere la chiusura definitiva dei centri di Gjadër e Shëngjin.
Un accordo forzato e un fallimento annunciato: i primi 16 deportati
L’accordo Italia-Albania non è stato altro che una forzatura dalla sua nascita: è stato raggiunto infatti tra il premier albanese Edi Rama con la corrispettiva italiana Giorgia Meloni, in contraddizione con la Costituzione Albanese che attribuisce una tale prerogativa al presidente della Repubblica.
Dopo i ripetuti rinvii nell’apertura dei centri, la prima operazione di ottobre si è conclusa con il diniego del trattenimento per tutti i 12 deportati rinchiusi a Gjadër, dopo che altri 4 dei 16 totali erano già rientrati in Italia: due perché minori, due perché vulnerabili.
I giudici italiani, infatti, non potevano ignorare la sentenza della Corte di Giustizia UE che aveva invalidato la lista dei “paesi sicuri” dell’Italia, escludendo che Egitto e Bangladesh potessero essere considerati tali.
Questo ha impedito l’applicazione delle procedure di frontiera: delle procedure “express” che permettono di velocizzare le espulsioni di persone richiedenti asilo alleggerendo le garanzie sui loro diritti fondamentali.
Sotto procedura di frontiera non solo è possibile potenzialmente espellere un individuo in sole 4 settimane, ma è anche possibile detenerlo nel frattempo. Una misura che dovrebbe essere eccezionale, una “extrema ratio”, ma che non per questo viene applicata in soli casi rari e straordinari. I giudici di Roma comunque hanno dovuto negare il trattenimento dei primi 12 anche perché in Albania non c’è alcuna alternativa alla detenzione: le persone intercettate in mare e portate lì dalle autorità italiane possono muoversi solo dal porto al CPR di Gjadër e solo sotto scorta dei carabinieri italiani.
L’attacco alla magistratura e lo stop dei giudici
Nonostante i continui inciampi, il governo Meloni sembra non demordere dalla strategia dell’accanimento. Da una parte contro le persone migranti, a cui infligge un prolungamento dei tempi in mare dopo salvataggi che sotto questo protocollo sembrano più veri e propri sequestri; dall’altra contro i giudici, che cerca di piegare al proprio volere con una propaganda sovranista aggressiva, anche a costo (o forse con la speranza), di incrinare il bilanciamento dei poteri tra esecutivo e giudiziario su cui si basa la democrazia liberale in Italia.
In vista di successivi trasferimenti in Albania, infatti, il governo ha cercato di forzare sui paesi “sicuri” reintroducendo la lista in un decreto legge (DL 158/2024) invece che in un decreto interministeriale. La scelta è tutta politica: sebbene un decreto legge sia gerarchicamente superiore a un decreto ministeriale, all’apice della gerarchia rimane la Costituzione Italiana, che obbliga governo e giudici ad attenersi anche alle convenzioni e corti europee. Per questo motivo, quando altri 8 uomini sono stati deportati in Albania lo scorso 8 novembre, anche loro originari del Bangladesh e dell’Egitto, la XVIII sezione immigrazione del Tribunale civile di Roma, presieduta da Luciana Sangiovanni, non ha ritenuto di decidere nel merito della richiesta di trattenimento da parte della Questura, e l’11 novembre ha rinviato alla Corte di Giustizia UE “per chiarire vari profili di dubbia compatibilità con la disciplina sovranazionale emersi a seguito delle norme introdotte dal citato decreto legge”.
Sebbene il rinvio pregiudiziale del Tribunale di Roma rappresenti una non-scelta di fatto (chiede infatti alla CGUE se può applicare il decreto legge italiano), esponenti di tutte le forze politiche al governo si sono scagliati nuovamente contro la magistratura, accusata di interventismo politico. Un’occasione d’oro del resto per il ministro Salvini, attualmente a processo e imputato per i reati di sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio nel “processo Open Arms”, per cui rischia sei anni.
Il governo insiste, ma intanto richiama una cinquantina di agenti dal resort a quattro stelle che il Viminale ha riservato alle forze di polizia di stanza in Albania e che prevede una spesa annua di 9 milioni di euro dei contribuenti italiani. Ne restano comunque 170 ancora operativi e in turnazione nei centri vuoti, mentre Medihospes lascia in Albania sette amministrativi insieme a un centinaio di dipendenti albanesi.
Tutto congelato fino alla pronuncia della Corte di Giustizia Europea. Nel frattempo, sulla stampa filomeloniana cominciano ad apparire ipotesi su nuove destinazioni d’uso per i centri appena costruiti e, in particolare Gjadër, neanche ultimati[2]
Le criticità medico-sanitarie e rischi di salute per le persone migranti
I profili di incompatibilità con la normativa europea non sono gli unici aspetti di illegittimità del protocollo. Sono state 24 in tutto le persone deportate in Albania. Poche, seppur già troppe persone selezionate direttamente in mare secondo procedure discrezionali, di fatto solo perché provenienti da paesi considerati “sicuri” dal governo italiano. Una selezione evidentemente discriminatoria, se non addirittura persecutoria, se si pensa alla nave della marina militare Libra in stallo per giorni a poche miglia nautiche da Lampedusa, nella speranza di intercettare quante più persone dal profilo specifico per essere trasferite in Albania.
Ammesso e non concesso che qualsiasi individuo possa essere ritenuto idoneo per una detenzione senza reato, la presunta inadeguatezza del pre-screening sulla Libra è stata poi confermata quando ulteriori controlli a Shëngjin hanno rivelato la presenza di due minori nella prima deportazione e di tre uomini in stato di vulnerabilità tra la prima e la seconda.
Uno scandalo annunciato, dato che il Protocollo e più precisamente la sua legge di ratifica non cita nessun riferimento normativo per le vulnerabilità. Per questo ancor prima che fosse operativo, molti erano i dubbi sulle possibili violazioni dei diritti fondamentali che potevano consumarsi già in mare, tamponati maldestramente dalla sola presenza dell’UNHCR, che si è promessa come unica garanzia di “legalità” dell’operato del governo italiano.
«La gravità di aver inviato dei minori è presto detta: quella selezione, nel concreto, non è stata una selezione basata sulle vulnerabilità. Ricordiamoci che il protocollo non cita nessun riferimento normativo per le vulnerabilità e questo è ancora più grave e di fatto si vede poi che le maglie di questa rete che dovrebbe rappresentare una tutela per le persone vulnerabili sono talmente larghe che passano i minori». Queste le parole di Nicola Cocco, medico infettivologo con esperienza penitenziaria ed esperto di CPR.
In merito allo screening sanitario sulla Libra poi, sono state rilasciate solo dichiarazioni generiche e talvolta imprecise su chi fosse presente e su quali fossero esattamente gli accertamenti operati sulla nave. Quello che sappiamo oggi è dovuto al progetto In Limine di ASGI che ha condiviso quanto ottenuto tramite richiesta di accesso civico generalizzato alle “Standard Operating Procedures (SOP)” che strutturano le attività condotte in mare nell’ambito dei trasferimenti in Albania.
Il dottor Cocco ha commentato la documentazione come segue: «E’ chiaro che nelle cosiddette “SOP” non esiste una definizione di vulnerabilità sanitaria e sociale; non è chiaro invece da chi sia composto il “team” che comprende il personale sanitario». Sulle condizioni a bordo della Libra invece dichiara «nonostante si parli di rendere “adeguati” i locali della nave hub, non si specifica nulla in termini di servizi igienici, docce, cuccette, cucine, e varie». Una riflessione che trova la sua importanza nelle dichiarazioni rilasciate dagli uomini deportati durante la seconda operazione della Libra: costretti a quattro giorni di navigazione senza potersi lavare né cambiare e con il grave peggioramento di ferite aperte.
L’appello per una presa di posizione del personale medico-sanitario
E proprio sulla base di queste riflessioni condivise, diverse realtà sanitarie che si occupano di soccorso civile nel Mediterraneo centrale e che si battono per il diritto alla salute delle persone migranti, hanno scritto un appello[3] rivolto a operatori e professionisti della salute affinché non si rendano complici del Protocollo e delle sue violazioni.
Le organizzazioni spiegano che la maggior parte delle persone soccorse «hanno subito violenze fisiche, abusi, torture, violenza sessuale e che la totalità di esse, per il contesto del paese di origine, per il viaggio attraverso il deserto, la permanenza e la detenzione in Libia o Tunisia, per il viaggio in mare e per tutto ciò che hanno vissuto come dirette vittime o come testimoni, è da considerarsi a rischio di conseguenza anche gravi di salute fisica e mentale, incluso il disturbo post-traumatico da stress».
Tuttə sono da considerarsi vulnerabili a queste conseguenze, che potrebbero emergere con il tempo e non sempre sono immediatamente rilevabili. Inoltre, spiegano che sulla Libra e sulle motovedette italiane in generale, non è possibile uno screening sanitario adeguato, perché manca «un ambulatorio medico o stanze adibite a tale scopo, che garantiscano una adeguata privacy e una opportuna percezione di luogo sicuro, come non sono presenti strumenti in grado di diagnosticare determinate condizioni cliniche e patologie, acute o croniche».
Infine, aggiungono che se anche fosse effettivamente possibile, la pratica di “selezione” medico-sanitaria come criterio per la deportazione in Albania è di per sé contraria al codice deontologico professionale, perché comporta avallare la destinazione dei pazienti in strutture che la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce un fattore di rischio per la salute mentale e fisica, in particolare per la possibile diffusione di malattie infettive e per i bassi standard di presa in carico e cura anche delle malattie non trasmissibili.
La Federazione nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri (FNOMCeO) ha risposto all’appello e precisato che il medico «ha un’unica finalità che è quella di curare le persone senza alcuna discriminazione» mentre «la selezione dei migranti a fini amministrativi non è un processo di cura».
La mobilitazione contro l’accordo prosegue
La Corte di Giustizia Europea potrebbe dare uno stop definitivo al protocollo Italia-Albania per come lo abbiamo conosciuto, ma il rischio è che torni in altre vesti dalla porta sul retro. Dietro al protocollo incombe l’ombra spettrale del Patto Europeo su migrazione e asilo, di cui ogni Paese membro, Italia compresa, presenterà un piano di implementazione nel 2026.
La ricetta è la stessa dell’accordo bilaterale, di cui di fatto rappresenta una prima zoppicante sperimentazione: esternalizzazione delle procedure di asilo, procedure accelerate alle frontiere per stabilire rapidamente se le domande di asilo siano fondate o meno e nel frattempo, tuttə in detenzione fino a 12 settimane. Nemmeno le famiglie con bambini sembra che saranno escluse dalle procedure, sono previste eccezioni solo nel caso di minori non accompagnati.
Per quanto ancora terranno le tutele giurisdizionali fondamentali, di fronte a una continua e incessante produzione di norme liberticide e repressive di libertà di movimento, del dissenso e della solidarietà?
Nel buio di questi scenari è maturato il desiderio di unirsi per una battaglia che metta un punto e a capo definitivo all’accordo e che sia in grado di far fronte comune per l’abolizione dei CPR e della detenzione amministrativa in Albania, in Italia e altrove.
«Se il patto Rama-Meloni rappresenta una pericolosa sperimentazione che eccede l’interesse politico di Italia e Albania, allora mai come oggi abbiamo bisogno di una mobilitazione transeuropea, ben oltre i confini geopolitici UE, che riallacci e rafforzi le numerose reti di solidarietà sviluppatesi negli anni in supporto alla libertà di movimento. Per questo invitiamo le realtà europee e dei paesi vicini, da anni mobilitate sui confini e contro il confinamento coatto, ONG, attivist@ no border, persone in movimento e di origine non europea, a costruire insieme uno spazio di dissenso partendo dalle mobilitazioni contro i centri in Albania che ci vedranno protagonist@ nelle prossime settimane», ha rilanciato il Network Against Migrant Detention.
Un insieme ampio ed eterogeneo che vuole dare il colpo di grazia all’accordo, opporsi al modello di politiche che rappresenta ed esigere la chiusura definitiva dei centri di Gjadër e Shëngjin.