Lo scorso venerdì, 22 novembre, si è conclusa la ventinovesima Conferenza delle Parti (COP), l’appuntamento annuale che dovrebbe rappresentare un momento cruciale a livello mondiale per affrontare la crisi climatica con azioni e misure concrete. Tuttavia, il contesto politico globale di quest’anno ha quasi completamente oscurato l’evento. La continua escalation militare, il G20 a Rio e l’elezione di Trump alla Casa Bianca hanno relegato in secondo piano i tavoli di lavoro e le trattative climatiche. Lo dimostra anche il calo significativo dei partecipanti, scesi da 83 a 66 mila rispetto allo scorso anno. Non è invece diminuita in modo significativo la presenza dei rappresentanti dell’industria fossile, che, con 1.773 delegati, pur essendo meno rispetto alla COP precedente, resta comunque in proporzione alta.
Quest’anno la COP29 si è svolta in Azerbaigian, un Paese il cui PIL dipende per un terzo dall’estrazione di combustibili fossili e il 90% delle esportazioni è legato a questo settore. Non certo quindi una nazione che si contraddistingue per i propri impegni climatici, nonostante i dati scientifici siano sempre più preoccupanti. Infatti, il rapporto pubblicato dalla World Meteorological Organization (WMO) stima che il 2024 sarà probabilmente l’anno più caldo mai registrato dal 1850, con una serie di record relativi all’emissioni di gas serra, all’acidificazione degli oceani, all’innalzamento del livello del mare e allo scioglimento dei ghiacciai.
Anche quest’anno la gestione della COP è stata affidata a figure legate all’industria fossile. Mukhtar Babayev, presidente della COP, vanta 25 anni di carriera come dirigente nella compagnia petrolifera azera Socar, mentre Elnur Saltanov, vice ministro dell’energia dell’Azerbaigian, parte del consiglio amministrativo della Socar e amministratore della COP, ha usato la sua posizione per stipulare accordi a favore dell’industria fossile durante i tavoli di lavoro. Dichiarazioni imbarazzanti, come quella di Babayev che definisce le risorse fossili un “dono di Dio”, la cui commercializzazione non deve essere oggetto di critiche, e le azioni di Saltanov riflettono una normalizzazione di comportamenti nelle ultime COP che sono in netto contrasto con lo scopo della conferenza e un ostacolo per il raggiungimento di risultati ambiziosi.
Il tema centrale, su cui si è maggiormente discusso e lavorato, è stata la finanza climatica. Clima e finanza, due concetti che spesso, nell’immaginario collettivo, risultano difficili da accostare, ma che in realtà risultano essere un tema cruciale per immaginare un possibile scenario mondiale che vada oltre l’emergenza climatica. Dopo due settimane di confronti, è stato pubblicato il secondo documento successivo al Global Stocktake approvato lo scorso anno, che definisce il nuovo obiettivo sui flussi finanziari climatici: il New Collective Quantified Goal on Climate Finance (NCQG). Questo documento, insieme all’approvazione dell’Articolo 6 sul mercato dei crediti di carbonio, erano gli obiettivi principali della COP e hanno ufficialmente finalizzato l’accordo di Parigi per la prossima decade 2020-2030. In apparenza, potrebbe sembrare un successo, ma analizzando i testi nello specifico, emergono gravi criticità e carenze.
Infatti, il raggiungimento del nuovo NCQG è solamente un risultato formale, ma insufficiente rispetto alle esigenze per contrastare la crisi climatica in corso. Lo stesso testo ammette che gli obiettivi finanziari stabiliti non soddisfano minimamente i bisogni reali. Si prevede che tutti gli attori mobilitino attraverso qualsiasi tipologia di finanziamento, pubblico e privato, 1,3 trilioni (mille miliardi) di dollari all’anno entro il 2035, con un impegno specifico per i Paesi sviluppati di 300 miliardi di dollari all’anno. Tuttavia, secondo diversi rapporti e gli stessi paesi in via di sviluppo, per sostenere solamente i loro Contributi Determinati a Livello Nazionale (NDCs) sarebbero necessari, secondo delle stime a ribasso, tra i 5 e i 6,9 trilioni di dollari entro il 2030, equivalenti ad almeno 584 miliardi di dollari all’anno.
Il testo è inoltre debole e generico, non presenta alcuna menzione al fondo Loss and Damage, una delle grandi iniziative lanciate alla scorsa COP, oggi completamente dimenticato e per il quale ogni anno dovrebbero essere stanziati almeno 742 miliardi per far fronte alle perdite e ai danni subiti solamente dai paesi in via di sviluppo. Inoltre questo obiettivo non garantisce minimamente che i fondi finanziari siano erogati da risorse pubbliche, quindi direttamente dai paesi sviluppati come riportato nell’articolo 9 dell’Accordo di Parigi.
La tesi più probabile è che questi finanziamenti saranno coperti tramite concessioni fossili, crediti di carbonio, prestiti, tassi e polizze assicurative, aumentando le disuguaglianze tra Nord e Sud Globale. Questo New Collective Quantified Goal on Climate Finance non rispecchia minimamente i bisogni e le priorità dei paesi e delle comunità più vulnerabili. Più che un obiettivo per la finanza climatica appare una manovra economica per investire su processi di espropriazione, estrattivismo e sfruttamento dei territori e delle comunità locali ed indigene. Il testo è un’enorme ingiustizia climatica e per di più in 38 paragrafi non cita mai neanche una volta tematiche legate ai diritti umani e alla giustizia climatica, principi fondamentali per immaginare un futuro pacifico, equo e giusto. Questi due elementi, tra altro, sono completamente avulsi da ogni testo che è stato redatto ed approvato in questa COP.
Se il risultato ottenuto dal NCQG sembra un fallimento, il rimando ai trattati intermedi di Bonn 2025, dei Dialoghi degli Emirati Arabi Uniti sul Global Stocktake (GST) e il testo finale dedicato al Mitigation Work Programme sono un vero disastro e forse la dimostrazione che per l’agenda politica mondiale il clima ormai sia un tema superfluo e di poco conto. Infatti, all’interno del Mitigation Work Programme sono addirittura scomparsi gli obiettivi di Parigi, mai citati nei paragrafi, così come la frase che diede speranza al termine della COP28 “transition away from fossil fuel”. La parola combustibili fossili non viene mai citata nel testo, così come non viene mai temporalmente fissato e nominato un picco di emissioni globali e pure l’obiettivo di triplicare la capacità di produzione rinnovabile è scomparso.
Tutto questo all’interno di una narrazione che sembra comunque promuovere questa conferenza per aver raggiunto gli obiettivi prefissati, quasi a non voler ammettere che stavolta l’accordo è stato peggiore dei precedenti. A Baku i risultati sono stati fallimentari, era forse meglio non raggiungerli, rimandare tutti i tavoli di lavoro e condannare la governance climatica per la sua inadempienza.
Sarebbe stato meglio ripartire da zero, mantenendo però i progressi raggiunti. Invece, gli accordi della COP29 rappresentano un passo indietro nella lotta ai cambiamenti climatici e nella definizione di azioni concrete per affrontare i loro effetti quotidiani nel mondo. Un passo che oggi non dovevamo permetterci di fare e che spinge ancora più nel baratro una pluralità di nazioni e comunità che ancora una volta sono state messe in secondo piano per il volere del élite fossile e del mero profitto.