Citadel Diana, Inganno, Lisa Poët e una Mindfull story

di Mauro Baldrati

Citadel Diana

L’aggettivo che sale spontaneamente dalle immagini di questa serie in sei episodi, è carina. E moderna, secondo i canoni del miglior mainstream patinato, che vuole un mix di avventura, sesso, sceneggiatura ordinata, ottima fotografia, bravi e attraenti attori; da un lato offre esagerazioni negli effetti speciali, nell’intrigo, dall’altro parsimonia nelle dinamiche sociali, nelle implicazioni psicologiche dei personaggi. Forse è per questo che è stata definita un grande successo internazionale? Di sicuro è avvincente, corre sicura di sé sul giusto ritmo narrativo, con frequenti accelerazioni e colpi di scena, svelte suggestioni da video gioco, una regia fiera e al contempo rilassata che non teme la sfida. E’ ambientata in un 2030 lacerato da una guerra tra due super agenzie che dispongono di risorse inimmaginabili (e necessariamente inverosimili): Citadel, nella quale milita la protagonista, Diana, che ha come obiettivo combattere il male, e Manticore, che punta invece al controllo totale delle persone. In ballo c’è un’arma potentissima il cui progetto è disaggregato in file diversi. La lotta senza quartiere tra gli agenti riguarda il suo possesso, attraverso la fusione dei diversi componenti. Dunque il prodotto è di qualità, diciamo pure “eccellenza del made in Italy”, ma il fulcro dinamico e ipnotico è lei, la giovane attrice Matilda De Angelis, col suo fascino magnetico e il suo personaggio fatto di bellezza, fragilità e tenacia. Diana-Matilda corre, indaga, si lancia in straordinari combattimenti di arti marziali, attraversa territori oscuri di violenza, tradimenti, intrighi diabolici, continuando a restare viva e salda nella sua missione, che porta avanti a costo della vita. Senza di lei la serie resterebbe un lungometraggio ben fatto, ma privo della forza interna generata dalla sua eroina, dalla sua determinazione incorruttibile e dai frequenti primissimi piani che sprigionano un fascino di mistero e pericolose promesse. Citadel è lei. Il finale è propedeutico a una nuova stagione.(Su Prime)

Inganno

Un’altra serie in sei episodi che ha al centro un personaggio femminile forte e affascinante. L’argomento non è originalissimo, una storia d’amore tra una donna sessantenne e un fustacchiotto trentacinquenne, con tutti gli annessi. Forse l’antesignano per eccellenza è il leggendario Harold e Maude, che i critici non citano mai, forse perché è una stella luminosa che brilla nella lontana costellazione hippy anni Sessanta (anche se il film è uscito nel 1971). Qui la differenza di età è più estrema, Harold aveva diciotto anni e Maude settantanove. Inoltre il personaggio in difficoltà con la famiglia era Harold, che voleva sposarla a tutti i costi. In Inganno invece a subire le pressioni dei famigliari, soprattutto del figlio, è Gabriella, che gestisce un hotel di lusso sulla costa di Amalfi. L’uomo di cui è innamorata, Elia, interpretato da quel Giacomo Gianniotti che abbiamo visto nei panni dell’ultimo Diabolik, è accusato di essere un truffatore che punta ai soldi. La storia procede molto ben diretta dal regista Pappi Corsicato, viaggiando nel flusso di un’atmosfera ambigua e in una colonna sonora di stampo thriller, che crea una certa tensione. Intanto noi spettatori continuiamo a chiederci: “Ma Elia è davvero un truffatore?” Gabriella è interpretata da Monica Guerritore, un’attrice esperta e sicura di sé, che rende bene il suo personaggio di donna libera e indipendente disposta a combattere per essere la protagonista della propria vita. E come tale si mette in gioco con coraggio nelle scene di nudo, infischiandosene della legge non scritta per cui la donna mostrata senza veli deve essere per forza giovane e conforme alla morfologia dominante della bellezza femminile. Per tornare a Harold e Maude, a quei tempi c’era più coraggio. Il suo finale non è certo happy hending, ma triste e malinconico; Inganno invece, dopo un sotto finale interessante, crolla miseramente in un epilogo così stucchevole da rischiare di rovinare crudelmente la forza narrativa e la classe che l’hanno preceduto. Ma proprio per le ore piacevoli che ci hanno donato la storia e i personaggi, con un po’ di buona volontà, riusciamo a perdonarlo. (Netflix)

La legge di Lidia Poët

Torna Matilda Angelis in questa serie in due stagioni di sei episodi ciascuna (pare che questo stia diventando il dimensionamento tipo della serialità), antecedente di un anno rispetto a Citadel Diana. Qui non siamo nel futuro ma nel passato. C’è l’Ottocento, tutto, ottimamente rappresentato nelle scenografie, nei costumi, negli eventi (qualcuno ha criticato l’uso di colt in alcune scene ma dove sta scritto che alla fine dell’Ottocento non potevano circolare pistole americane a Torino?). Lidia Poët – un personaggio realmente esistito – è una giovane avvocata che non può essere iscritta nell’Ordine perché donna. I severi uomini barbuti e baffuti, ebbri di prosopopea e pregiudizi, continuano a ripeterglielo. Ma Lidia non si rassegna. Combatte ininterrottamente contro la chiusura arcaica e patriarcale, mentre indaga su vari episodi criminosi. Talvolta è osteggiata dal fratello (interpretato da un vecchio amico dell’attrice, Pier Luigi Pasino, musicista e cantante punk, come la stessa De Angelis), che la invita più volte a desistere, ma finisce sempre per appoggiarla, tra proteste e brontolamenti vari. Arriva addirittura a sostituirsi a lui in un’indagine, mandandolo su tutte le furie. Proprio il rapporto col fratello, fatto di tensioni e di aspetti comici, insieme alla rappresentazione dei vecchi tromboni imbalsamati che detengono il potere, costituisce il nucleo portante della stagione, sul quale si innestano le indagini di Lidia, supportate dalla sua competenza e dal suo prodigioso intuito. La seconda stagione perde un po’ della tensione politica. Continua la battaglia per i diritti delle donne, mentre il plot scivola verso una narrativa più classica da giallo. Entrano in scena personaggi storici, come il vecchio Primo Ministro Agostino Depretis, o lo scienziato Lombroso, del quale la protagonista è stata allieva (e ora contestatrice), con la sua fisiognomica criminale. Non mancano eventi e personaggi con sfaccettature più intriganti, compresa una certa tensione affettiva e addirittura erotica della protagonista verso due uomini: un giornalista socialista interpretato dal pronipote del famoso Eduardo Scarpetta, e il Procuratore del Regno, un austero giovanotto calato in pieno nel proprio dovere, ma disposto a derogare dall’applicazione spietata della legge in nome di una legge più giusta, senza escludere il suo amore segreto e non dichiarato verso la Poët. (Prime)

Inspira, espira, uccidi

Questa serie tedesca procede sul segmento di una interessante connessione: la Mindfulness, una pratica antistress di derivazione buddista che si basa soprattutto sul motto qui ed ora. Il protagonista è un avvocaticchio che lavora per uno studio – senza esserne socio, per cui è considerato di serie B e riceve ogni giorno le battute sprezzanti della segretaria strega – che non si limita a seguire dei grandi criminali, ma ne ricicla pure i soldi. Un giorno viene convocato da uno dei pesi massimi del crimine, Dragan Sergowicz, che è stato filmato da un autobus di ragazzini mentre massacra a sprangate un nemico che sta pure bruciando vivo. E qui entriamo nella seconda connessione: il crimine più efferato è rappresentato con un’ottica comica-paradossale che se da un lato sembra alleggerire la componente horror, dall’altro la enfatizza esaltandone la folle crudeltà. Ora Bjorn si trova in un maledetto pasticcio. Dragan pretende che lo tolga da guai, cosa impossibile visto che il video è diventato virale. Ma vaglielo spiegare a quel pazzo assassino. Allora Bjorn, che ha seguito da scettico un corso di Mindfullness, come ultima risorsa prova a metterne in pratica gli insegnamenti. Qui e ora significa ripulire la mente dai pensieri tossici, paura, previsioni negative, per concentrarsi su ciò che si sta facendo in quel preciso momento. Il metodo guida è la respirazione. La mente si concentra sul flusso d’aria che entra ed esce attraverso il naso, passa per i polmoni, viaggia nel sangue. Con questa pratica, che attiva nei momenti critici rivolgendosi ironicamente allo spettatore per spiegare, mentre intorno a lui la scena colma di violenza si ferma, riesce a risolvere le situazioni più estreme. Per esempio lasciar cuocere per giorni il suo nemico mortale nel baule di un’auto in pieno sole. Poi lo squarta con una motosega da Non aprite quella porta. Infine mette i pezzi in un tritatutto che spara la poltiglia sanguinolenta come dessert per i pesci di un lago. Bjorn è stralunato, nauseato, vomita, ma s’ha da fare per restare vivo, quindi metti da parte gli accessori, respira e concentrati sul qui e ora. Mingherlino, apparentemente sempliciotto, braccato da un enorme killer pronto ad assassinargli la figlioletta, diventa un micidiale mix di Walter White e Saul, geniale, preciso e letale. Insipra, espira, uccidi è attualmente una delle serie più atroci e divertenti che viaggiano sul web. (Netflix)

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