Di Davide Amerio per ComeDonChisciotte.org
Mentre sugli appuntamenti elettorali piove a catinelle l’astensione, sintomo di un chiaro malessere degli elettori, delusi e affranti dall’ipocrisia politica, i partiti gioiscono comunque, come se avessero vinto un torneo di calcetto. Alcuni intellettuali riesumano un tema ricorrente, quando il risultato elettorale non è in linea con le loro aspettative: il diritto di voto deve essere concesso a tutti? Anche a chi non possiede un “adeguato livello culturale”?
La questione è strettamente connaturata con il sistema democratico, e pone una serie di questioni: quale deve essere il livello culturale di un elettore affinché esprima una scelta consapevole e informata? La disaffezione dal voto può essere fomentata da gruppi di potere che agiscono attraverso la produzione di un sistema mediatico di livello culturale sempre più basso? Il “populismo” è la causa della disaffezione degli elettori? Non sarebbe meglio tornare a un “suffragio ristretto” consentendo l’accesso al voto solo a elettori culturalmente preparati?
Capita di leggere alcune considerazioni che, piuttosto frettolosamente, attribuiscono la causa del mali della Democrazia contemporanea alla scarsa preparazione culturale dell’elettore:
[…] In democrazia la maggioranza vince, ma non è detto che faccia la scelta giusta. Molti, troppi votanti tendono a credere a chi dice loro quel che vogliono sentirsi dire; mantenere i propositi, poi, è opzionale […]
[…] La democrazia naturale, non affidata ad una macchina, funziona se viene praticata da persone ben informate, in grado di difendere i propri interessi. Il fine principale di una democrazia, quindi, dovrebbe essere il costante aumento del livello culturale di chi la esercita. Chi vuole drogare la democrazia, invece, mira ad abbassare il livello culturale.
I programmi e le riviste “spazzatura” hanno enorme successo. […] Lo sdoganamento del basso livello culturale è stato perseguito da tutto l’arco costituzionale. Gli ignoranti possono finalmente essere fieri di esserlo e hanno tutto il diritto di sbeffeggiare chi osi mostrare anche una parvenza di cultura. Non avendo gli strumenti intellettuali per pesare le proposte politiche, fette sempre più consistenti di popolazione pensano: tanto sono tutti uguali, e non esercitano più il diritto di voto. (1)
Queste tesi ricorrono ogni qual volta gli elettori non seguono le indicazioni che alcune élite intellettuali pretendono siano seguite: allora esplode uno “psicodramma” che, piuttosto di indagare a fondo i motivi di certe scelte politiche (o di astensione), preferisce puntare l’indice contro i reprobi disubbidienti, accusandoli di non essere in grado di capire le salvifiche indicazioni provenienti dall’alto di cotanti fini intelletti.
Proviamo invece a spingerci un po’ più in là nel ragionamento, considerando le responsabilità con maggiore obiettività.
La lotta per ottenere il suffragio universale, nel quale ogni cittadino esprime il proprio voto (una testa… un voto), è stata una battaglia storica che ha accompagnato lo sviluppo della Democrazia Liberale nel corso degli ultimi secoli. Il Diritto di voto è stato allargato a tutti nel momento in cui si è ampliato il concetto stesso di Cittadino. Nella Polis greca, in genere assunta come modello storico di democrazia, il voto era possibile per tutti i “cittadini”: ma erano considerati tali una ristretta minoranza di persone che la abitavano.
Il “Ceto sociale” di appartenenza come diritto di nascita, il “Censo” inteso come capacità di reddito, il “Sesso” come discriminante di abilità intellettuali, nonché l’età, sono stati criteri con i quali si sono differenziati i cittadini: quelli a cui era riconosciuto il diritto di voto, e quelli che non potevano godere di questo diritto, in quanto ritenuti “non idonei” ad esercitarlo.
La ragione del suffragio universale trova invece giustificazione in un principio che risale ad Aristotele: chi è in grado di giudicare la bontà di una casa? Chi l’ha costruita… o chi ci abita e la vive?
Tutte le Leggi di uno Stato, le scelte di politica economica e sociale, influiscono sulla vita di tutti i cittadini: indistintamente dal loro sesso, reddito, mestiere, livello culturale. Poiché tutti, indistintamente, subiscono gli effetti della legislazione, e delle scelte di governo assunte dai decisori, per quale motivo una parte di cittadini dovrebbe essere esclusa dall’esprimere, attraverso il voto, il proprio giudizio sull’operato dei politici, che influisce direttamente sulle loro vite?
Un concetto, questo, che potremmo considerare derivato dal principio settecentesco “No Tax without rappresentation”, su cui venne costruita l’indipendenza delle colonie inglesi nelle terre d’America: al Dovere di contribuire alle spese dello stato, alla prosperità della comunità con il proprio lavoro, deve corrispondere il Diritto di giudicare ogni aspetto della vita politica, economica, e sociale, attuata dal governo, attraverso dei rappresentanti liberamente scelti mediante una votazione democratica.
Pertanto la pretesa di riconfigurare il Diritto di voto con delle limitazioni – qualunque esse siano- non ha alcun fondamento nei principi della Democrazia Liberale. Piuttosto, la preoccupazione della difficoltà di un cittadino medio nell’esprimere un giudizio politico sull’operato dei decisori, nell’ambito di una società sempre più complessa, e di una comunicazione sempre più nevrotica, ha una sua ragionevole motivazione. Ma questo non giustifica il criterio di discriminazione proposto che si basa su un – presunto- insufficiente livello di istruzione.
Chi è davvero preparato di fronte alla complessità contemporanea? Data la quantità di variabili in gioco, in ogni questione politica, chi è davvero in grado di avere una “cultura”, o una “conoscenza”, adeguata per esprimere un parere ragionato, consapevole, e sufficientemente informato, stante sia gli impegni lavorativi e famigliari cui ciascuno è sottoposto, sia il livello infimo della qualità media dell’informazione main stream?
Certamente un livello di istruzione superiore può stimolare (o dovrebbe) una maggiore capacità critica di analisi e giudizio (ma la realtà, purtroppo, è un po’ diversa). All’interno della disciplina delle Scienze Politiche un fatto è acquisito: non esistono più confini certi e definiti tra le diverse discipline con le quali si studia la fenomenologia del politico. Economia, Filosofia, Diritto, Storia, Sociologia, Antropologia, si intersecano e si complementano. Non esiste più la figura di uno studioso monolitico che prescinde dalle influenze e dai contributi di altre discipline.
Allora, forse, la questione “culturale” va esaminata sotto due punti di vista speculari: uno dall’alto (ovvero della responsabilità politica di chi gestisce il potere), e una dal basso, che riguarda ogni singolo individuo appartenente alla società.
Un “potere”, avveduto e responsabile, sa che la prosperità di un paese, e della comunità che la abita, cresce e si sviluppa anche in ragione dell’accrescimento culturale dei suoi cittadini. Un “potere” più o meno autocratico e autoreferenziale (quello che stiamo subendo da una quarantina di anni), preferisce avere un “popolo” il più ignorante possibile, le cui conoscenze devono restringersi al limitato settore lavorativo di competenza.
Un popolo così: privato di capacità critica e discrezionale, di curiosità, di dubbi, dedito al tifo politico, predisposto al facile populismo di chi promuove una narrazione semplicistica dei problemi, e consumista compulsivo di beni (per lo più superflui), per soddisfare l’esigenza del “libero mercato” neoliberista, quindi del Capitale.
Indipendentemente dalla scelta di partecipare o meno agli appuntamenti elettorali, quali armi rimangono al cittadino per non diventare preda (più o meno inconsapevole) di questo modello di esercizio di potere?
Se esiste una pressione dall’alto per comprimere la conoscenza… non esiste nessuna Legge che proibisce al singolo di ricercare e accrescere il proprio sapere. Non esistono in circolazione gendarmi armati che impediscano a chiunque di entrare in una libreria, in una biblioteca, di accedere agli e-book economici via web, e –addirittura- di usufruire del P2P per lo scambio di libri. Non viviamo (almeno per adesso) in una società sul modello del romanzo di Ray Bradbury “Fahrenheit 451”.
Se ciò che più teme questo genere di potere è la conoscenza… allora è ipotizzabile che una buona difesa del cittadino implichi uno sforzo individuale per acquisire quella ricchezza di nozioni – e di “cultura”- che gli viene negata attraverso il main stream e il governo. Anche se la “conoscenza” è, in una certa misura, “dolorosa”: più sai… e più ti rendi conto di non sapere (“Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante tu ne possa sognare nella tua filosofia” – W. Shakespeare – La tragedia di Amleto).
Ma l’impegno nell’uscire dalla zona di comfort (della non-conoscenza), costantemente promossa nel “Paese dei Balocchi”, costruito dalla nostra società occidentale per evitare di avere a che fare con cittadini consapevoli, può essere ricompensato con la capacità di apprendere nozioni utili a valutare – e giudicare- con maggiore lucidità: esattamente ciò che più avversa un sistema politico ingolfato da incompetenza, mediocrità, e complicità non dichiarate.
Provocatoriamente: se ci impegnassimo a leggere 10 pagine di un libro al giorno… in media per 360 giorni all’anno, in 5 anni (considerando un libro medio della grandezza di 150 pagine)… avremmo letto 120 libri! Cinque anni sono il tempo una legislatura: se leggessimo 120 libri (ma anche solamente la metà), durante quei 5 anni… saremmo o no dei cittadini più consapevoli e informati? Meno soggetti ai “capricci” dei potenti? E molto più “pericolosi” per costoro?
“Se servisse – votare-, non ce lo permetterebbero!” capita sovente di leggere questo Meme sui Social. Dissento vigorosamente anche da questa idea: fintantoché chi gestisce il potere ha bisogno di ricorrere alla menzogna – per accaparrare i consensi-, significa che il nostro giudizio – e quindi le nostre scelte politiche- hanno un valore. Il valore della legittimazione di cui potere ha bisogno per non apparire come tirannico. Situazione nella quale, se palesata, comporterebbe il rischio di una legittima reazione (rivoluzionaria) violenta.
Se il “potere” politico è nelle mani di “burattini” che ricevono ordini da “poteri superiori”, più o meno occulti, nessuno ci può privare, se non lo assecondiamo, del potere della conoscenza individuale, della ricerca del vero, anziché accontentarci del verosimile, o di quello che ci viene raccontato perché meglio si sposa con i nostri pre-giudizi.
La Democrazia vive nella misura in cui esiste una “attitudine” al sistema democratico: le Costituzioni scritte non sono sufficienti se non esiste una Morale individuale che non si rassegna alle apparenze, che non si accontenta del “si fa così… perché fan tutti così”. La presenza di eventuali “poteri forti”, occulti, sovranazionali, dai contorni indefiniti, non può giustificare rassegnazione e apatia: “tanto non cambia nulla… tanto è già tutto deciso”. Davvero? Siamo sicuri? E allora che facciamo? Subiamo in silenzio questo “abuso” della nostra pazienza, questa “violenza” sulla nostra intelligenza?
Perché “Pecore Nere” non si nasce… lo si diventa dubitando e non perdendo mai la “curiosità” tipica dei bambini: quella forza inarrestabile del pensiero, prodotta da quelle sinapsi fertili che pongono, con ossessione, sempre la stessa domanda: PERCHÉ? Ed esigono una risposta credibile e soddisfacente.
Di Davide Amerio per ComeDonChisciotte.org
NOTE
(1) = https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/11/17/maggioranza-vince-livello-culturale-seconda-media-democrazia-alterata/7768359/