La degna paga del compagno «Ferrara»

di Luca Baiada

Rosanna Cavazzini, La vita degna. Severino Cavazzini, 1903-1983. Una lunga avventura, Amazon, 2023, pp. 123, euro 10,40

Gli piaceva la canzone Les feuilles mortes, quella che fa «vedi, non ho dimenticato…», cantata da Yves Montand, cioè da Ivo Livi, un toscano cresciuto in Francia perché figlio di esuli. Lui, però, in Francia c’era andato già grande. Anche per lui un esilio, ma con una precoce militanza politica. L’origine di Severino Cavazzini è ferrarese, e «Ferrara» sarà il suo soprannome a Parigi, poi il suo nome di battaglia nella cospirazione e nella Resistenza. Ferrara, quella del quartiere popolare: Borgo San Luca, dove suo padre, lasciata la famiglia benestante e gli studi imposti da chi lo voleva prete, è andato a convivere – che scandalo! – con la lavandaia di casa. Storie simili, che lasciano un segno, fatte di studio severo che poi trabocca felice nella libertà, si potrebbero scoprire in molte famiglie italiane. Anche nella mia. Sono storie che pongono domande: lo studio frena la libertà oppure è il suo duro sostegno? La disciplina limita la persona o accompagna alle scelte?

Quel che piace all’autrice di questo volume palpitante, invece, è lo slancio verso una vita degna[1]. Cavazzini giovanissimo spiega agli altri ragazzi:

«Ma lo capite che, se resta così la nostra vita, saremo sempre quelli del Borgo, senza avanzare mai? Gli altri hanno un futuro, casa, lavoro, progetti. Noi non contiamo niente. Bisogna che le cose cambino. Dobbiamo farle cambiare, fare giustizia. Chiedere i nostri diritti, quel che ci spetta. A cominciare da paghe degne».

Già, le paghe; bisogna battersi. Formazione, impegno e repressione si intrecciano presto, per un ragazzino che cresce avendo come scuola il conflitto sociale e come biblioteche luoghi appartati:

Fermato, tradotto in carcere, interrogato dalla polizia, riconosciuto innocente e rilasciato. Ma tutto questo agli occhi della polizia, soprattutto della reazione fascista, lo segna. Ha solo 17 anni ed è già un uomo, un operaio specializzato, consapevole, un dirigente sindacale, uno che fa scelte e si prende responsabilità. La rivoluzione russa lo affascina, diventa il suo faro di riferimento politico, accende, come per tanti altri giovani, le sue speranze. Legge di nascosto, nel fienile della rimessa dove alloggiano il cavallo e il carretto dei trasporti paterni. Legge Marx e soprattutto Lenin. E fa propaganda. Sa parlare, sa convincere, specie i suoi coetanei. Nei primi mesi del 1921, dopo la scissione di Livorno, lascia il Psi ed entra nel movimento comunista.

È lavoro di gruppo: «L’organizzazione, non tanto come strumento indispensabile dell’agire, ma come metodo morale, per essere parte di un movimento grande, generale».

C’è il servizio militare, assurdo. Né armi né esercitazioni, perché di tipi come lui ci si fida poco. Invece prepotenze, ruberie dei superiori e isolamento. Il buono è che ha tempo per leggere: letteratura e storia. Quasi simile al carcere, questa naia, che come quello può diventare occasione di arricchimento culturale. Chi ha avuto per studio un fienile trova un’accademia anche in una caserma. Per molti antifascisti persino la galera fu un’università.

Il periodo decisivo per l’espatrio è quando ha dovuto lasciare Ferrara per cambiare aria e ci viene rispedito, dalla polizia, perché protesta in favore di Sacco e Vanzetti. A quel punto è condannato al confino ma sfugge alla cattura: via, in Francia. Nel 1927 arriva a Parigi, dove farà il muratore. Il fascino della città si sente, specie se la vedi per la prima volta d’estate:

I marciapiedi che luccicano per la calura e gli abiti leggeri e colorati delle donne, i grandi negozi, le auto e il traffico. Il rumore, incessante, come battito cardiaco di un essere vivente. Un misto di voci e di suoni metallici. I caffè, piccoli e grandi, ovunque. La gente che attraversa e va, indaffarata.

Nel 1930 la Francia lo espelle verso l’Italia. Sembra facile, scacciarlo. Invece lui è un osso duro, ma di quelli con la polpa, viva e sensibile:

Rientra a Parigi, dove, ormai, si muove come a casa. Ha solidi contatti, nuovi documenti. Ma l’attenzione alle spie lo accompagna sempre, ancora più di prima. Quell’attenzione che ha provato fin da Ferrara, dal primo attentato subìto davanti a un fosso, che ritorna nei suoi sogni agitati. Ha una precisa idea sullo spione che lo ha venduto ai fascisti.

Arriva la guerra di Spagna, Cavazzini non sta a guardare. Fra le insidie c’è la spia che chiama «Carlino» e bisogna risolvere il problema. Il racconto incalza secco, col retrogusto di un umorismo in chiaroscuro:

Escono nella luce serale e invernale. Vanno avanti a fatica per alcuni isolati. A un tratto una macchina davanti a una casa li fa fermare: «Dovrebbe essere là». Escono in due. Li vedono. È questione di attimi. Uno dei due estrae un’arma e spara. Gli viene risposto. Mentre cade sul selciato l’altro scappa. Severino corre perché l’ha riconosciuto. Ma a una svolta, un vicolo chiuso, un muro. Poi nulla. Carlino sembra sfumato, come evaporato. «Ci sarà un passaggio che conoscevano loro» – commenta Pedro che l’ha raggiunto. Severino è infuriato. «L’ha fatta franca ancora – sbotta – Ma almeno adesso ho la prova, con la sparatoria e la fuga, che non mi inganno e che lui sa bene quello che fa». Sarà ancora più infuriato, Severino, quando, rifacendo a ritroso la strada, non troveranno nemmeno quello caduto nella sparatoria. «Ma non avevi controllato?» chiede a Pedro.

La Spagna è perduta, la dittatura fascista durerà sino agli anni Settanta. Ma la battaglia continua, lui si è anche ammalato, bisogna attrezzarsi ed è bene farlo lontano. Siamo nel 1939:

Dal porto di Le Havre, imbarcato nei mercantili, nascosto nelle stive o chiuso negli alloggi dei marinai con l’ordine di non muoversi, passerà di nave in nave, quasi sempre carrette mercantili, dalla Francia fino all’Inghilterra. Poi in Olanda, in Danimarca, fino in Svezia. E infine raggiungerà, passando dalla Finlandia, la Russia.

Lo curano, impara la lingua, conosce i protagonisti della Rivoluzione d’Ottobre, frequenta la scuola di partito. Riceve anche un’istruzione militare. Servirà presto nel partigianato urbano, a Parigi, con la formazione intitolata a Gabriel Péri, fucilato dai nazisti:

Bisogna muoversi tra la gente, nelle ore di punta, possibilmente a piedi, vestirsi in modo curato, limitare l’uso del metrò che comporta rischi di controlli e improvvise retate. Borse e sporte sono dotate di doppio fondo dove vanno inseriti documenti, armi, propaganda stampata. Gli ordini circolano tramite le staffette. Niente appunti o altro di scritto. Si devono imparare a memoria appuntamenti, luoghi, iniziative di cui si è incaricati.

Non è diverso dai racconti sul gappismo urbano in Italia o sulla Resistenza in altri paesi: l’Europa che combatte. Ma il contesto è francese, coi colpi di mano come in L’armée des ombres, e «Ferrara» ricorderà sempre gli eroi caduti:

I loro nomi sono oggi nelle strade e in alcune piazze dei luoghi dove vissero e operarono. Tutti sono ricordati nel monumento ai combattenti italiani della Liberazione di Parigi, nel cimitero di Pére Lachaise non lontano dal muro dove si commemorano gli ultimi comunardi fucilati nel 1871.

Avrà sempre chiaro che il combattimento era non solo patriottico, ma diretto anche a qualcosa di degno:

«I nostri volantini, la nostra stampa clandestina, non parlavano solo di libertà dal nemico. Parlavano delle condizioni disumane in cui si lavorava nelle fabbriche, dei salari da fame, delle razioni alimentari inadeguate, delle privazioni. Incitavano a resistere non per una generica libertà, ma per cambiare e avere dopo la guerra una vita degna».

È la resistenza, una parola che oggi subisce abusi e torsioni.

Non solo pane, anche rose. E poi, via, è la douce France. Una ragazza, Gina, si accosta alla formazione e le presentano Cavazzini:

Ferrara, quando se la vede davanti, figurina elegante e semplice assieme, la guarda, studiandola per bene. «Tu sei quella dei volantini lanciati in aria davanti al cinema, vero? Che capolavoro inutile. Erano in italiano. E i francesi, lo leggono l’italiano secondo te? Hai rischiato la tua vita e quella dei tuoi compagni per una bravata inutile». Questo è il benvenuto di Ferrara. Lei però ha il coraggio della replica: «I volantini li ho distribuiti, mica scritti. E poi gli ordini si eseguono. Prenditela con gli organizzatori». «Non preoccuparti, già fatto». Però lo sguardo è diventato ironico. Severino con gli occhi divertiti aggiunge: «Ma ti vesti sempre così? Bello il cappellino!» E lei: «Se i tedeschi e la polizia guardano il cappellino notano meno il resto, e io forse riesco a passare».

Comincia così, con le schermaglie. Sarà amore, tutta la vita.

Dopo la guerra torna in Italia con lei. Di lavoro ce n’è ancora tanto: partito, sindacato, amministrazioni locali e le prime tre legislature della Camera, dal 1948 al 1963. Sono gli anni del potere tutto possidente e democristiano, dell’adesione alla Nato, della persecuzione dei partigiani e della legge truffa, sino alle prime aperture al centrosinistra, con le lotte dei lavoratori e un primo sblocco della politica.

[Ha] sempre due riferimenti guida: la giustizia sociale e la strada segnata dalla Costituzione, che sta diventando il suo nuovo riferimento. Negli anni ’70, parlando a dei giovani appena entrati nel Pci, Severino ricorderà che in quelle battaglie, anche senza rendersene pienamente conto, la Costituzione era divenuta come un nuovo paradigma rivoluzionario.

Troppo facile, adesso, e troppo vile, sottovalutare la conquista della Carta costituzionale, che i fascisti, i reazionari e la parte più bieca del padronato vedono come un ostacolo da quasi ottant’anni.

È la Carta firmata da Umberto Terracini, antifascista, comunista, processato dal Tribunale speciale, confinato, perseguitato, poi presidente dell’Assemblea costituente. Chi non tiene conto del percorso non capisce le tappe, e chi non considera che anche l’oggi è una tappa, potrebbe capire troppo tardi quella successiva: il domani. E magari, dopo, rimpiangere questo anno che si spegne chiamandolo ieri con sterile nostalgia. Un combattente che ha studiato nel fienile e nella caserma, uno che ha riflettuto in galera e in fondo a una nave, conosce queste implicazioni. Per questo sa dare a ogni tempo il suo senso.

Per esempio. Nel dopoguerra Cavazzini ricorda bene quando a Ferrara l’avevano messo al muro; si era salvato per le grida di una testimone imprevista. Adesso non vuole vendette ma neanche assoluzioni e confusioni:

Appena rientrato dalla Francia nella Ferrara liberata, si troverà davanti, fazzoletto al collo delle brigate garibaldine, uno di quei giovani fascisti che avevano cercato di fucilarlo. Costui, ormai uomo, gli tenderà la mano chiedendogli scusa per quella fucilazione simulata, come la definirà. Dovranno mettersi davanti a Cavazzini in cinque compagni, cercando di calmarlo e di trattenerlo. La mano, no, non gliela darà mai.

Incontra di nuovo anche «Carlino», la spia. Succede a Roma negli anni Sessanta, e come vanno le cose lo lasciamo scoprire a chi legge questo libro.

C’è qualche amarezza. Il 2 giugno 1946 vuole scegliere la Repubblica contro la monarchia ma non può; con la condanna fascista ha perso il diritto di voto e le liste non sono aggiornate. E poi ci sono intorno i pregiudizi: lui e Gina, comunisti e non credenti, vivono more uxorio, come scrivono nei rapporti i poliziotti che non li perdono di vista.

Riceve una medaglia, sì, ma in Jugoslavia nel 1956, per il ventennale della guerra di Spagna. E i compagni italiani? Siamo nel 1981: a sessant’anni dalla fondazione del Pcd’I, la direzione emette medaglie nominative per chi ha contribuito a creare il partito; bisogna distribuirle. Cavazzini, che ogni mattina apre la federazione, chiede sempre dov’è la sua. A fine anno c’è una riunione, interviene su questioni politiche e, già che c’è, la chiede ancora. Però:

Non lo sanno, si deve essere persa evidentemente. Qualcuno fa dell’ironia nella sala: «Cavazzini i tempi sono cambiati, non è più il tempo dello stalinismo». «Me ne sono accorto – replica lui – a quei tempi nessuno si sarebbe perso una medaglia con inciso il nome di un compagno senza conseguenze». Si alza a riunione finita ed esce nel primo freddo invernale.

Non servirebbe dire che nel 1921 lo stalinismo non c’era ancora. È più importante notare la frana degli anni Ottanta: morale e umana, oltre che politica. In quel periodo le paghe non sono più da fame come sotto il fascismo; ma già qualcos’altro di indegno serpeggia nel popolo italiano. Poi la frana peggiora, e ora tocca ad altri tirar su il bavero nel freddo.

Adesso torniamo indietro, alla prima aggressione fascista contro questo ragazzo, in Italia, negli anni Venti. Come tanti altri: un agguato, Cavazzini è rapito, bastonato e abbandonato in campagna. Lo credono morto, lo spingono a calci nell’acqua di un fosso. Sembra il linciaggio del comunista in Ottobre di Ejzenstejn, manca solo la pagina della «Pravda» che affonda. Ma Cavazzini è vivo e leggiamo:

«Dove sono? Ah sì, questo è un fosso». Ecco l’odore pungente delle erbe marcite. E più in là l’odore di terra, fortissimo. «Forse ce l’ho anche dentro in bocca, con il sangue. Sono dentro al fosso. Ma sono solo, non sto con gli amici. E come ci sono capitato? Porca puttana, non riesco a ricordare, a tenere fermi i pensieri». Il dolore scava dentro quel corpo abbandonato nel freddo. «Adesso ricordo, i fascisti. Sono stati loro; in cinque erano, quei porci. Mi han preso quasi in vista di casa».

I passanti hanno paura di aiutare e tirano via. Lui, per farsi dare una mano, finge di esser stato aggredito dai ladri; solo allora un carretto si ferma.

Chi è, adesso, a raccontarci l’odore pungente, il sangue in bocca, il freddo e i pensieri di Cavazzini? Sua figlia, l’autrice, scesa nel ricordo del padre, giù nel fosso anche lei, ma in piedi a chiedere attenzione per una storia degna. Storia di uomini, di donne, di tante persone. Sta a noi tirare dritto o fermarci.

[1] Il volume riproduce documenti e indica come fonte di altre informazioni Vittorio Tomasin, Apparati dello Stato e comunisti. Severino Cavazzini nel casellario politico della Questura di Rovigo (1947-1965), in «Terra d’Este. Rivista di storia e cultura», XII, n. 24, pp. 109-127.

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