di Neil Novello
Giulio Guidorizzi, I miti delle stelle, Milano, Raffaello Cortina, 2023, pp. 219, 24,00 euro.
L’uomo non si accontenta di ammirare il cielo stellato. Desidera anche leggerlo. Così le costellazioni rilucenti nella volta celeste, dalle origini della cultura occidentale identificano, oltre che un luogo di contemplazione, uno di interrogazione. Domandare il nome e cercare una via di comprensione nell’infinito libro delle stelle è una prerogativa dell’astronomia greca, e ancora prima della tradizione babilonese e di quella mesopotamica. Ma quando osserva il cielo, l’uomo greco anzitutto precisa la sinopia immaginaria delle costellazioni. Perché la linea che lega stella a stella forma un’immagine gravida di significato culturale. La sua astrazione però è solo apparente. Essa non reca nulla che possa veramente definirsi astratto. L’immagine stellare fissa un mito e attraverso esso afferma il fondamento di una cultura originaria. Anzi l’immagine stellare identifica un μυθος, un racconto mitologico, una sorta di Urphänomen. I miti delle stelle di Giulio Guidorizzi (Raffaello Cortina, 2023) contiene dunque due libri, uno sul mito e uno sulle costellazioni, un libro sul mito che si fa costellazione, un libro sull’immaginario dell’antica Grecia.
Leggere le stelle è anzitutto un’opera di riconoscimento della costellazione. Essa testimonia l’immagine, l’emanazione immaginaria di un racconto. Così I miti delle stelle può essere letto come una colta mitografia oppure come un trattatello di astronomia. Ma anche qualcos’altro. Può essere letto pure come un viaggio nella storia della pittura. Ripercorrere la traccia mitologica guardando il cielo è una linea dell’impianto ideato da Guidorizzi, un’altra guarda per così dire alla terra, all’opera d’arte come luogo figurale del mito. Così per spiegare l’Orsa Maggiore, proprio in apertura di libro, seguiamo le tradizioni e le relative «varianti» del mito attraverso le opere pittoriche di Baldassarre Peruzzi, Ignaz Stern e Jean-Honoré Fragonard. L’Orsa Maggiore (e l’Orsa Minore) sono le protrettrici astralmente effigiate di Zeus, il neonato padre degli dei. Nel mito greco, per merito di un ingegnoso sotterfugio escogitato dalla madre Rea, Zeus bambino scampa alla pulsione cannibalica del padre Crono. Pertanto Rea affida il neonato a due orse. E così la loro trasfigurazione astrale occupa la sommità, l’alto del cielo, perché la coppia animale è onorata dal loro figlio putativo, Zeus appunto. Tra le due Orse, troviamo il «dragone» che protegge il giardino delle Esperidi, il luogo divino in cui un melo, dono di Gea, la Terra, alla sposa di Zeus, Era, genera frutti d’oro. Interdetto all’umanità, il giardino con le mele auree è violato da Eracle, che uccide il dragone. Le scaglie corporee del mostro diventano la costellazione, come testimonia, nel volume, l’illlustrazione di un ovale del cinquecentesco Lorenzo della Sciorina.
Così di costellazione in costellazione, il libro appare uno spartito musicale sul cui pentagramma il mito è spiegato anche dalla pittura. E la pittura, a esempio nel caso del Bacco di Annibale Carracci, illustra così il mito di Arianna come la sua ghirlanda alla base della costellazione della Corona. E come inoltre la pioggia d’oro attraverso cui Zeus ingravida Danae che dà alla luce Perseo, l’assassino della Gorgone, figurata in un dipinto di Tiziano. Le tradizioni del mito e le sue varianti concorrono dunque a organizzare le linee del cielo sia nel caso di narrazioni per così dire creaturali sia nel caso di oggetti come la Lira. Esiste infatti una costellazione legata allo strumento musicale greco per antonomasia, lo strumento inventato da Ermes, transitato poi nelle mani di Apollo e finalmente giunto a Orfeo. La sua storia luttuosa il mito la associa alla riconquista infernale di Euridice. La scelta pittorica qui cade su Orfeo e Euridice di Rubens.
Non solo gli astronomi Arato di Soli, Eratostene, Igino, Conone di Samo, Cleostrato di Tenedo, Manilio, l’intera cultura greca è chiamata a dialogo sul mito e le costellazioni: Omero, Esiodo, Pindaro, Alceo, Eschilo, Euripide, Erodoto, Apollonio Rodio. Così la cultura latina con le Metamorfosi di Ovidio, fino alla cultura astronomica moderna con Galileo. Ogni fonte, specie tra le antiche, partecipa di un discorso tra il mito e le stelle, il mito che si proietta nella costellazione e la costellazione che espone la sinopia astrale del mito. Così il caso della «più poetica delle costellazioni», le sette stelle che formano le Pleiadi. Nel mito greco, Zeus le colloca in cielo per salvarle, perché sfuggano alle mire seduttive di Orione. Attraverso Merope, tra le Pleiadi la stella meno brillante, è fornita anche l’occasione per introdurre la figura del marito, il celebre Sisifo, rappresentato da un altrettanto celebre dipinto di Tiziano. Attraverso le costellazioni dell’Inginocchiato, dell’Auriga, del Cavallo, del Deflino e del Serpentario, la narrazione approda a una costellazione più famosa di altre: Orione. Questa dell’«URU-ANNA» di origine mesopotamica identifica la scena-madre del cielo. E non solo perché accanto a Orione vi è il Cane. Esso insegue la Lepre, non lontano si intravede lo Scorpione e dinanzi a Orione sta il Toro contro cui quel potentissimo combatte. Nella quadreria a corredo del libro, il dipinto che evoca Orione è di Nicolas Poussin. Riguarda però un frammento del mito, il momento in cui il figlio di Poseidone, accecato per vendetta da Enopione, brancola alla ricerca del sole nascente.
Tra la costellazione del Cigno e il Cane Maggiore, la costellazione che fissa un brano del mito di Minosse, Teseo, Arianna e il Minotauro, la costellazione di Argo, in cui è raffigurata la nave degli Argonauti e il mito di Giasone, Medea e il vello d’oro, il racconto del mito e delle stelle tocca la costellazione di Eridano. E il «triste mito» di Fetonte: un «ragazzo che volle assumersi un compito troppo più grande di lui e morì a causa della sua ingenuità» cadendo dall’alto del cielo – come raffigura un disegno di Michelangelo – nel fiume Po. Con la Chioma di Berenice, la costellazione dedicata alla regina, sposa di Tolomeo III d’Egitto, e la costellazione del Centauro, il pedagogo Chirone, educatore di Giasone e Achille, l’origine mitologica delle costellazioni non esprime più una mera legge di cultura, ma richiama per così dire il fondamento narrativo della civiltà greca. Essa fissa nel cielo un formidabile immaginario cristallizzando nella mitografia astrale un’esigenza di durata, qualcosa che venendo da un immaginario prova a fondarne uno nuovo: una concezione del mondo.
Così I miti delle stelle, se su Chirone chiude un sipario, ne apre un altro sul dialogo tra il mito e il segno zodiacale. Si snoda pertanto una narrazione tra l’Ariete opaco, poiché l’«animale divino aveva lasciato sulla terra il suo mantello», il vello d’oro, il Toro, il cui occhio è nientemeno che «Aldebaran», i Gemelli quale emblema della perfezione nell’amore tra le creature, e il Cancro con il suo temerario granchio che sfida nientemeno che Eracle alle prese con l’Idra di Lerna. La lotta dunque tra l’eroe mitologico e l’animale, nella formazione zodiacale occupa uno spazio esemplare. Un caso, immortalato in un dipinto di Zurbaràn, riguarda l’episodio della vittoria, ancora di Eracle, sul leone di Nemea, la sinopia stellare della belva che campeggia sopra l’Idra e il Cancro. Diverso è invece il caso mitologico di Erigone-Vergine, la fanciulla suicida presso il sepolcro paterno.
A proposito di animali ed eroi, lo Scorpione, secondo una tradizione mitologica, è l’assassino di Orione. Anzi la morte del «gigante violento» racconta una storia di hubrys, la storia di un essere persuaso di poter «uccidere qualunque creatura nata sulla Terra» ma egli stesso rimasto vittima di un letale agguato. Animali assassini, creature non invincibili, e oggetti. L’unico dello Zodiaco è la Bilancia. Anche però creature ancipiti, figure come il Sagittario, potente, spaventosamente energico, insignito di un premio esemplare, essere collocato al centro della Via Lattea. Così gli ultimi tre segni zodiacali, dalla «divinità dai confini incerti» del Capricorno, il cui incontro indurrebbe a uno «smarrimento dell’anima», alla «figura strana» di un «uomo che versa acqua da una giara» dell’Aquario fino ai Pesci, esauriscono la nomenclatura della volta celeste.
Dotare poi di un nome non mitologico il «latte» divino di cui è screziata la Via Lattea, per gli «astronomi greci» che osservano il cielo equivale a un «mistero profondo», insondabile. La cultura occidentale, che pure ritrae la Via Lattea nella maniera sublime e profondamente umana del Somniun Scipionis nella Repubblica ciceroniana, doveva ancora avanzare, svilupparsi scientificamente almeno fino al Sidereus nuncius di Galileo. Per capire finalmente la Via Lattea capendo qualcosa di sconcertante, la verità più profonda sulla condizione dell’uomo. Ammirare e perdersi nella sua sterminata immensità, nella sua infinità, alla modernità rivela il più inquietante segreto, poter vivere culturalmente l’infinito. Per l’uomo, è un monito, un’abbacinante presa di coscienza. Non più la tolemaica idea della propria centralità nell’universo ma la sua abissale solitudine ontologica, quella di una creatura che abita la più estrema lontananza, la periferia dell’intero creato.